Kin è in realtà un album
cangiante e variegato, dove si, è vero, confluiscono sonorità legate alla
grande tradizione americana (folk e blues soprattutto) ma l’ossatura delle
canzoni è fatta anche di rock, pop, e tanto, tanto soul. Splendidi interplay
vocali, ganci melodici come se piovesse, una veste fresca, frizzante e
modernissima per dodici canzoni che vanno giù d’un fiato, che ti ritrovi a
canticchiare sotto la doccia cinque minuti dopo averle ascoltate, che ti
obbligano a battere il tempo con piedi e mani, mentre la testa ciondola instancabilmente.
Il soul 2.0 di Dandelion, il blues caracollante di Jailbreak, la tessitura
vocale di Elephant, i graffi rock di Sugar High, e il ballatone gospel di
Overchiever, che chiude il disco, entreranno nel vostro iPod e ci resteranno a
lungo. Vi ricordate Ultraviolence, l’ultimo disco di Lana Del Rey prodotto da
Dan Auerbach dei Black Keys? Ecco, se togliete la patina gotica e il mood
malinconico, e aggiungete brio, ritmo, colori e allegria avrete un’idea
abbastanza precisa di cosa vi troverete di fronte ascoltando Kin. Che
sicuramente non è un disco che passerà alla storia, ma vi terrà incollati allo
stereo per giorni e giorni.
MIGLIOR DISCO LIVE:
BLACKBERRY SMOKE - LEAVE A SCAR: LIVE IN NORTH
CAROLINA
Un
repertorio che va a pescare da tutta la discografia del gruppo (ma con
particolare attenzione all'ultima uscita, The Whipporwill del 2012), riproposto
sul palco con quell'antico fuoco che anima(va) le performance delle
band leggendarie citate poc'anzi. Charlie Starr, seconda chitarra e
voce ruvida e strascicata, Paul Jackson, chitarrista che tiene in tasca il
santino di Gary Rossington, i fratelli Turner (Richard al basso e Brit alla
batteria) e Brandon Still alle tastiere, rappresentano una delle line up più
solide e convincenti in circolazione. Questi suonano alla grande, e non
risparmiano una stilla di sudore: tirati e rocciosi quando si cimentano con un
classico riff alla Black Crowes (l'iniziale Shakin' Hand With The Holy Ghost è
bella stilettata al cuore dei ricordi), intensi quando riescono a commuovere
fino alle lacrime con Everybody Knows She's Mine, irrefrenabili quando si
perdono negli anni '70 jammando per dieci minuti abbondanti nella clamorosa
Sleeping Dogs. Ventidue canzone e un'ora e quaranticinque senza un attimo di
stanca fanno di Leave A Scar un live che è già un classico della letteratura
sudista, uno di quei dischi che segna la strada come pietra miliare di un
suono. Senza esagerare, questo è quello che potremmo definire il One More From
The Road 2.0.
LA
DELUSIONE:
THE BLACK KEYS - TURN BLUE
Il
nuovo full lenght dei Black Keys, perde definitivamente ogni residuo
vitale, la cui presenza si percepisce solo in sporadici lampi di
classe, per far posto a un suono (complice la produzione di Danger Mouse, che a
far danni riesce sempre benissimo) che è super stiloso e super plasticoso. Se
si eccettua il brano iniziale, Weight Of Love, ottima prog-song in odore
seventies, il resto del disco fila via liscio come un fuso in un mare di
mediocritas, senza un palpito che sia uno. Rock pettinato e patinato,
basso che pompa, ammiccamenti soul-dance, e un pugno di canzoni che, sommate
nei loro momenti migliori, non riescono a replicare la potenza di un singolo
spacca classifica come Lonely Boy. Dovevamo capirlo subito come stavano le
cose una volta ascoltato Fever, singolo piacione e senza palle, che già
testimoniava un'ispirazione, se non proprio esangue, virata
definitivamente verso il (quasi) mainstream. Si fosse trattato di un'altra
band, avremmo anche chiuso un occhio; ma veder tanto talento sprecato, fa venir
la strozza in gola.
LA
CANZONE 2014:
CLOUD NOTHING – I’m Not Part Of Me da HERE AND NOWHERE
ELSE
…si candida al ruolo di
ultimo baluardo dell'immediatezza rock. Dimostrazione lampante che anche in
generi dove ormai nulla di nuovo può essere più detto, lo si può dire come se
fosse la prima volta: chitarre distorte, tamburi pestoni e melodie epiche
urlate fino a far sanguinare la gola.(Cit: Ondarock)
MIGLIOR
LIBRO 2014:
PHILIPP
MEYER – IL FIGLIO
La storia appassionante e
avventurosa di una famiglia texana, i McCullough, attraverso le voci di tre
narratori indimenticabili: il capostipite Eli, ora centenario e noto a tutti
come «Il colonnello», suo figlio Peter, chiamato «la grande delusione» per la
sua incapacità di incarnare la visione paterna, e la pronipote di Eli, Jeanne
Anne, che, da ultima erede dell'impero familiare, deve affrontare la partita
finale con il destino. A breve la recensione.
MIGLIOR
FILM 2014:
3)
NEBRASKA di Alexander Payne
Un viaggio nel cuore dell’America,
un padre e un figlio che si respingono, si cercano e si trovano, un bianco e
nero che esalta la verace umanità dei protagonisti, un equilibrio perfetto fra
malinconia e ironia. Un Bruce Dern inarrivabile per il miglior film di
Alexander Payne.
2)
ALABAMA MONROE – UNA STORIA D’AMORE di Felix Van Groeningen
La rielaborazione del
lutto e la perenne battaglia fra ragione e religione, carne e spirito,
simbolismo e cruda realtà: lo sguardo europeo di van Groeningen si posa sulle
contraddizioni dell’America e sulla storia struggente e appassionata di Didier
ed Elise. Montaggio straordinario, sceneggiatura perfetta, due attori
indimenticabili (Johan Heldenberg, anche autore del soggetto, e la magnetica
Veerle Baetens) e una musica potente e salvifica a declinare le stagioni dell’amore:
nascita, morte e resurrezione.
1)
LOCKE di Steven Knight
Il minimalismo al potere:
un solo attore, l’abitacolo di un’auto, un telefono. Il film più coraggioso e
improbabile dell’anno impone allo spettatore un quesito che scuote le
coscienze: siete disposti a rinunciare a tutto pur di mantenere fede a una
promessa e assumervi il peso di una responsabilità? In un crescendo di palpiti,
una sceneggiatura essenziale rende emozionante anche il calcestruzzo. Tom
Hardy, con un'interpretazione di rara intensità, si prende il mondo sulle
spalle e diventa il nostro eroe con barba e maglione. Non è Marchionne, però: Ivan
Locke è una persona per bene.
SERIE
TV 2014:
TRUE
DETECTIVE
La serie antologica
americana che ha fatto impazzire anche gli italiani. Il noir in sottofondo a
due storie di nichilismo e redenzione: Woody Harrelson e Matthew McConaughey ci
resteranno nel cuore a lungo.
LES
REVENANTS
La serie che, nel 2012, ha
tenuto la Francia incollata ai teleschermi: un idea brillante, un’ambientazione
claustrofobica e un mistero che inquieta fino a togliere il sonno. Musiche degli
scozzesi Mogwai.
BIG
BANG THEORY
Toglietemi tutto, ma non
la sit-com più arguta, bislacca e spumeggiante di sempre. E’ in arrivo per il
2015 l’ottava stagione. Bazinga !
UOMO
DELL’ANNO 2014:
MATTHEW
MCCONAUGHEY
Perché ci ha regalato
questo:
E anche questo:
BUON FINE ANNO E MIGLIOR
INIZIO A TUTTI I LETTORI DEL KILLER.
Un
disco in cui Howard, pur senza inventare nulla di nuovo (la materia è pur
sempre quella ormai consunta dell'indie folk), allestisce una scaletta di
splendide canzoni umorali e malinconiche, andando a citare con gusto
alcune icone del passato quali Nick Drake e John Martin, e artisti più
recenti del calibro di David Gray e Damien Rice, coi quali sono davvero
parecchi i punti in comune. Come nello splendido bianco e nero della
copertina, i dieci brani di I Forget Where We Were si muovono fra
le luci e le ombre di una sensibilità sempre in bilico fra dolcissime
malinconie (il treno in corsa suggerito dalla ritmica di Rivers In Yours
Mouth produce i languori di un lontano ricordo che torna a noi
all'improvviso, lasciandoci sulle labbra un nostalgico sorriso) e sprofondi
notturni di un'amarezza senza fine (lo straordinario incipit di Small Things,
una delle canzoni più belle ascoltate quest'anno). Tra folky picking magistrali
(In Dreams da brividi) e schegge di post rock (la conclusiva All Is Now
Harmed), Howard disegna col tratto sfumato della matita un soundscape autunnale
per viaggiatori malinconici, la cui percezione della realtà risulta sempre
foriera di dolorosi ricordi. Curato nella produzione, che mette in risalto
soluzioni chitarristiche azzeccate per equilibrio e misura (sapiente l'uso
del riverbero), drammatico, senza però mai sfociare nel melò, privo di fillers
e sincero negli struggimenti, senza tuttavia perdere il proprio equilibrio
formale, I Forget Where We Were si candida a essere uno dei dischi più
riusciti di questo 2014. Non certo un'opera innovativa, niente che ci faccia
gridare al miracolo, è vero, ma un disco composto di piccoli,
fragili gioielli emozionali che sapranno scaldarci il cuore nelle fredde
notti di questo ormai conclamato inverno.
4) DAMON ALBARN – EVERYDAY ROBOTS
Un disco adulto e misurato,
in cui Albarn impasta il proprio vissuto artistico senza rinnegare alcunché ma
trovando invece una nuova consapevolezza. In questo senso, all’interno della
medesima scaletta, convivono elettronica e pop-rock, jazz e campionamenti, folk
e soul, gospel e world music, in una sinossi il cui equilibrio è temperato
dallo sguardo malinconico e disilluso della mezza età. Non esiste più la
rockstar dietro le canzoni di Everyday Robots, ma semplicemente un uomo, un
crooner meno baritonale ma quanto mai espressivo, che racconta se stesso e il
mondo che lo circonda, l’incomunicabilità (Hostiles), la solitudine (Lonely
Press Play), la dipendenza dalle droghe (You And Me), e che nonostante ciò è
ancora in grado di divertirsi e divertire (Mr. Tembo) e di sorridere nello
squarcio di sole finale di Heavy Seas Of Love, brano santificato dalla
collaborazione con Brian Eno. Il mood che pervade il disco tuttavia è
decisamente malinconico, anche se Albarn gestisce la materia da consumato
artigiano, tenendo a distanza melodramma e pathos, preferendo la prosa alla
poesia, il ragionamento all’impeto. L’andamento folk etereo, quasi onirico, di
Hostiles, il beat notturno di Lonely Press Play, il pianoforte jazz di the
Selfish Giant, la disperazione trattenuta di You And Me (sette minuti di
esplicita confessione sull’abuso di eroina: “carta stagnola e accendino, la nave va da una parte all’altra”) e
quella di Hollow Ponds, con l’assolo di corno francese a richiamare il Miles
Davis del Concierto De Aranjuez, rappresentano i vertici di un disco bellissimo
e alcune delle cose migliori composte nell’ormai più che ventennale carriera.
L’eterno ragazzo, l’enfant prodige del brit pop, l’irrequieto Peter Pan dei
mille progetti e delle altrettante collaborazioni, sembra aver trovato la dimensione
più congeniale alla seconda parte della sua carriera artistica. Come un fuoco
che non divamperà più ma la cui fiamma continua a scaldare con seducente
intensità. La discrezione consapevole di una classe infinita.
3) SUN KIL MOON - BENJI
Ci sono artisti che meriterebbero un monumento. Per
quello che hanno fatto in passato, per quello che fanno nel presente, per
essere in grado di gestire l'ipercreatività artistica tenendo fede alla propria
coerenza espressiva, pur mantenendo sempre alta la qualità della proposta. Uno
di questi, uno degli esempi più fulgidi, è Mark Kozelek, un nome da sempre
lontano dallo show business, che ha cresciuto almeno due generazioni di
ascoltatori appassionati di slow core e malinconia. Una carriera iniziata nel
1989, con il progetto Red House Painters e una manciata di dischi che
raccontavano l'epica della tristezza, proseguita in solitaria partendo
dall'amore per gli Ac/Dc (What's Next To The Moon) e consacrata con i Sun Kil
Moon, sacerdoti narcolettici di un folk rock minimale e disperato. Si
potrebbe addirittura parlare di frenesia produttiva se la parola
frenesia non creasse un curioso ossimoro con la lentezza che
caratterizza le canzoni di Kozelek: diciasette album in studio, un pugno di ep
e raccolte, tredici dischi live, le recenti collaborazioni con Jimmy Lavalle e
Desertshore. Eppure, l'impressione è sempre stata quella di un artista che,
salvo rarissimi casi, abbia in testa in modo chiaro le coordinate di un
percorso, le parole giuste per raccontare storie intrise di lirismo e
disperazione. Non è un caso, quindi, che questo nuovo Benji sia il punto più
alto della discografia di Kozelek fin dai tempi del celebratissimo Down
Colorful Hill: un disco difficile, ostentatamente intimista e autobiografico,
in cui il songwriting si spoglia di ogni accento rock ed elettrico per
cogliere, in sembianze esclusivamente acustiche, la quintessenza della poetica
kozelekiana. Premessa d'obbligo è che Benji (registrato a San Francisco a metà
dello scorso anno) non può risolversi in pochi e superficiali ascolti. Ci sono
infatti certi dischi che non si limitano a donare emozioni, ma pretendono da
noi un tributo in termini di attenzione, solitudine, empatia. Con tale
predisposizione d'animo, si può davvero cogliere il senso di un'opera la cui
architettura è basata su arrangiamenti minimali, sottili come il segno di una
linea, eppure decisivi nelle piccole sfumature che prima mettono
in nuce, e dopo svariati ascolti esaltano, un'ispirazione altissima per tutti i
sessantadue minuti della scaletta. A partire dal dramma autobiografico della
malinconica Carissa, brano che apre il disco ricordando la morte di una cugina
a causa di un banale incidente domestico, per concludersi con Ben's My Friend,
un spiraglio di luce pop impreziosito da un bell'assolo di sax. In mezzo altre
nove canzoni in cui Kozelek apre l'abum dei ricordi (i dieci minuti evocativi
di I Watched The Film The Song Remains The Same), narrando piccole storie di
quotidianità (la dolcissima Micheline, su una bambina affetta da un ritardo
mentale), tributando alla malinconia degli affetti commossi omaggi in
chiaroscuro (I Can't Live Without My Mother's Love, I Love My Dad). Un'ora di
folk dimesso, dolente e ossessivo, sul quale svetta il
deragliamento psichedelico di Richard Ramirez Died Today Of Natural
Causes, cantato alle frontiere del rap in un accalcarsi di voci sbilenche e con
il rullante secco ed essenziale di Steve Shelley a chiosare malevolo il brano.
Benji è un'opera impegnativa, su questo non ci piove, ma la pazienza di
ripetuti ascolti premierà l'ascoltatore, regalandogli uno dei momenti musicali
(e poetici) più intensi di questo 2014.
2) CHRIS CACAVAS & EDWARD
ABBIATI – ME AND THE DEVIL
Questa
musica ti prende alle spalle, è un evento inaspettato, un’epifania improvvisa
che ti coglie di sorpresa quando meno te lo aspetti. Magari perché non sai
assolutamente chi siano Chris Cacavas e Edward Abbiati (ed è probabile, se non
hai cavalcato in lungo e in largo per le sconfinate praterie del rock); oppure
semplicemente perché, pur conoscendoli, pensi sia impossibile che due mondi
tanto distanti riescano a venire a contatto fra loro senza confliggere, ma
creando qualcosa di unico, bellissimo. Non sono poche le cose, infatti, che
separano questi due artisti, anche anagraficamente assai lontani. Chris Cacavas
è una vecchia volpe del rock, uno che ha scritto pagine importanti di storia, e
che a metà degli anni ’80 dava lustro, con i suoi Green On Red, a quel
movimento auto-definitosi Paisley Underground: genere che pescava nel roots e
nella psichedelia per ridefinire le coordinate dell’american music. Abbiati,
invece, ha radici diverse e una storia più recente: di origini anglo-italiane,
dal 2007 è a capo del progetto Lowlands, combo pavese di folk- rock che trae
ispirazione tanto dalla tradizione americana che da quella inglese. Certo, i
due avevano già collaborato in passato, visto che Cacavas ha mixato i primi due
dischi della band nostrana; ma l’idea di un disco insieme, nasce un po’
casualmente, più per intuito che per un’effettiva e condivisa progettualità.
Racconta Abbiati : “Ho invitato Chris a
Pavia, ma non pensavo da subito di arrivare a un album. L’unica regola era che
nessuno dei due avrebbe scritto una nota o parola prima di trovarci; avremmo
improvvisato. Io non avevo neanche mai composto con altri, sono abituato a
lavorare da solo, ma le canzoni sono nate in modo spontaneo, scrivevamo e
registravamo subito sul mio iPhone per non dimenticare nulla, passavamo al
pezzo seguente. Un piccolo miracolo.” Il risultato finale, effettivamente,
ha qualcosa di miracoloso: dieci canzone perfette, palpitanti, genuine, senza
una nota fuori posto, suonate splendidamente con il contributo di un gruppo di
artigiani dello strumento, quali il bassista e chitarrista Mike “Slo-Mo” Brenner
(Jason Molina) e il batterista Winston Watson (Warren Zevon, Bob Dylan). Nel
disco confluiscono non solo i gusti e le esperienze dei due musicisti, ma anche
uno spettro di sonorità variegatissimo che spazia dal country al rock e al
soul, il cui prodotto finale è una miscela in cui si percepiscono reminiscenze
che portano a Neil Young, Nick Cave, Afghan Whigs, addirittura Cure. Me And The
Devil, registrato in cinque giorni in un granaio alla periferia di Pavia, è un
disco che però non paga dazio al deja vu e suona inusuale e attualissimo,
immerso in una penombra emotiva che caratterizza il mood dell’intera scaletta.
Against The Wall, il brano con cui si apre il disco, è sostenuto da una ritmica
ossessiva e potente e sfocia in un cupo ritornello che sembra pescato dal
repertorio di Greg Dulli. La title track mette in bella evidenza l’armonica e
gioca con suggestioni funky blues. Oh Baby, Please ruffianeggia con il sax di
Andres Villani sostenuto dal solido lavoro di Cacavas al piano elettrico in un
crescendo di notturna sensualità. I due minuti e mezzo di The Week Song,
delicata ballata con la lap steel di Brenner in bella evidenza, introducono uno
dei capolavori del disco, Hay Into Gold, mid-tempo dal sapore anni ‘90, con un
malinconico ritornello che mi ha fatto pensare ai Dinosaur Jr suonati dai Cure.
La nerboruta Long Dark Sky possiede il piglio elettrico dei Crazy Horse che
replicano in chiave rock certa new wave targata Eurythmics. Can’t Wake Up è il
country che sbarca sulle rive del Po’, la splendida The Other Side è una
ballata elettrica tra Neil Young e Pearl Jam, I’ll See Ya è intimismo da pelle
d’oca alla Elliott Smith, mentre Rest of My Life è la chiosa “vedderiana” per
un disco intenso, che non ha un momento di stanca e coinvolge fin dalle prime note.
In una stagione che fino a ora non ha riservato eclatanti sorprese, per quanto
mi riguarda, questo è un album che probabilmente entrerà nella top five delle
cose migliori del 2014.
1) LUCINDA WILLIAMS – DOWN WHERE
THE SPIRIT MEETS THE BONE
Quanti sono i dischi che
diventano nostri, che dopo il primo approccio ci obbligano a ripetuti ascolti e
poi col tempo entrano a far parte del nostro bagaglio culturale? Quanti quelli
di cui ci ricorderemo ancora fra tre, cinque, dieci anni ? Nel 2014, avrò
ascoltato ormai più di quattrocento cd e ammetto che i contorni di molti di
questi mi appaiono già sfumati, se non addirittura dimenticati. Quindi,
rispondendo alla domanda retorica di cui sopra, direi non più di due o tre
all’anno. Per il semplice motivo che, come suggerisce il titolo del dodicesimo
disco in studio di Lucinda Williams, la musica spesso resta in superficie, fra
le cose frivole di questo mondo, e difficilmente scende nel profondo della
nostra anima, laggiù dove lo spirito incontra l’osso. La Williams, a sessantun
anni suonati, ci regala venti nuove canzoni che partendo dalle orecchie ci
scivolano dentro, senza clamori, con risoluta lentezza, e ci pervadono, come un
virus benevolo che arriva a intaccarci financo le ossa. Tanto che, una volta
metabolizzata la lunga scaletta dei due cd che compongono Down Where The Spirit
Meets The Bone, diventa difficile staccarsi dall’ascolto, se non facendoci
violenza. Parlavamo, una settimana fa circa, a proposito del disco di Slash, di
come l’estrema lunghezza di un disco sia difficilissima da gestire anche per un
artista affermato e creativo: troppo alto il rischio di annoiare, praticamente
impossibile mantenere un livello qualitativo costante. Insomma, la presenza di
filler è direttamente proporzionale alla durata dell’opera. E’ quindi
stupefacente che nell’ora e tre quarti di Down Where The Spirit Meets The Bone
la Williams non perda un sol colpo, regalandoci una scaletta ove si susseguono,
senza soluzione di continuità, belle canzoni e autentici capolavori.
Centoquattro minuti in cui un suono tipicamente e orgogliosamente americano
viene sviscerato in tutte le sue declinazioni, dal rock al country, dal blues
al folk. Ad accompagnare Lucinda un ensemble
di musicisti da paura, che suonano sciolti, quasi sornioni, facendo scivolare
dentro noi i mille volti di quell’America di interstatali perse nel nulla che
non smettono mai di affascinarci. Le chitarre di Val Mc Callum e Greg Leisz al
comando, e un pugno di camei da far tremare le vene nei polsi: Bill Frisell,
Jonathan Wilson, Jakob Dylan, Stuart Mathis (Wallflower), Pete Thomas e Davey
Faragher (Elvis Costello) e Tony Joe White. E poi, c’è la voce immensa della
Williams, dal timbro inconfondibile, talvolta carezzevole nelle sue sfumature
caramellate, altre volte lenta, strascicata, leggermente impastata, come nel
risveglio da una nottata di eccessi alcolici. Venti canzone venti, che si
aprono commuovendoci alle lacrime con il folk spettrale di Compassion (in cui
viene musicata una poesia di Miller Williams, poeta e padre della cantautrice)
e si chiudono con una delle più belle cover mai ascoltate, Magnolia di JJ Cale,
dieci minuti di jam che lasciano col fiato sospeso.In mezzo, tanta, tantissima carne, tutta
cucinata alla perfezione: il rock melodico di Burning Bridges e When I Look At
The World (due melodie impagabili), quello scontroso di Foolishness e
Everything But The Truth, gli afrori sudisti della sudatissima West Memphis, il
country malinconico di It’s Gonna Rain, il soul della struggente One More Day.
Arrivati alla fine di questo lungo viaggio sonoro, c’è il desiderio
insopprimibile di cominciare da capo, di nuovo, ancora una volta, e poi una
ancora, fino a farci venire i crampi alle orecchie. Perché Lucinda è riuscita
laddove quasi tutti gli altri falliscono: ci ha toccato nel profondo, in quel
luogo dentro noi dove lo spirito incontra l’osso. E fra dieci anni saremo qui,
a parlarne ancora. Già un classico.
PS: Lucinda Williams è il miglior disco dell'anno sia per il blog che per i suoi lettori. Una scelta non scontata, dal momento che la Williams è un'artista che si muove ben al di fuori dei territori musicali più frequentati del nostro paese. Ciò significa che, probabilmente, quando è lontana da mode e tendenze, la musica, come l'arte, sa regalare ancora emozioni vere: sincerità, passione e quella dose di sudore che rende l'esperienza del rock qualcosa di unico, da scoprire e condividere ogni giorno.
Uscito il mese scorso ed
edito da Feltrinelli Real Cinema, "Hai paura del buio?", è film-concerto
degli Afterhours, con cui la band di Manuel Agnelli festeggia lo storico album
omonimo, fra i più amati da pubblico e critica. All'Alcatraz di Milano, il 26
marzo scorso, otto videocamere hanno ripreso una delle tappe del tour in cui il
gruppo ha riproposto l'opera con la scaletta e gli arrangiamenti originali. Del
disco, uscito in versione rimasterizzata, e con un secondo cd in cui i brani in
scaletta vengo riproposti dal alcuni artisti italiani e internazionali, ne
avevamo già parlato a marzo di quest’anno. Hai
paura del buio ? è un'opera difficile, eclettica e sperimentale, un
lavoro che fin dalle prime battute (il rumorismo controllato della title track
e il bestemmione che benedice la seconda traccia, 1.9.9.6.) si pone
volutamente e caparbiamente contro, spazza via le convenzioni (e le
convinzioni) di un panorama musicalmente asfittico, porta in Italia
in modo compiuto, rielaborandoli con intelligenza e gusto, i grandi fermenti
sonori che in USA e Inghilterra avevano caratterizzato la prima metà degli
anni '90 e la fine del decennio precedente. Sperimentazione e psichedelia
(Simbiosi, Hai Paura Del Buio?), frustate hardcore di lucida follia (Dea,
Lasciami Leccare l'Adrenalina e Sui Giovani D'Oggi Ci Scatarro Su
rappresentano un trittico di deragliamento sonoro senza compromessi), il
recupero del grunge (la vertigine distorsiva di Male di Miele) e dell'hard rock
(Veleno), il ringhio amaro di Rapace, si accompagnano a momenti più
morbidi, come nel pop lascivo di Voglio Una Pelle Splendida o nell'agro
disincanto della struggente Pelle. A dominare su tutto, il chitarrismo
manipolatore, spigoloso ed effettato di Xabier Iriondo e i testi
oltraggiosi, ironici e corrosivi di Manuel Agnelli, che da questo momento
in avanti assurgerà a punto di riferimento per tutte le nuove leve
dell'alternative rock nostrano. E' evidenza storica che la grandezza di un
album di rottura come Hai Paura del Buio? verrà compresa solo dopo la
pubblicazione. Ci volle, infatti, un anno di tentativi perchè gli Afterhours
trovassero una casa discografica (la Mescal) disposta a scommettere e
investire su un disco che porterà al gruppo riconoscimenti e vendite
soprattutto dopo lo splendido tour promozionale che succedette all'uscita
dell'opera. Nel 2014, un nuovo tour, sold out ovunque, ha riportato in giro per
l’Italia la scaletta del disco e il film di Testi ne racconta una serata,
quella tenuta all’Alcatraz di Milano (praticamente una seconda casa per gli Afterhours)
il 26 marzo scorso. Ottima regia, grandissime canzoni e una band dai meccanismi
oliatissimi. Tuttavia, l’oretta abbondante del concerto è pervasa da una
sensazione di patina autoreferenziale che stona non poco con i ricordi di
quella vibrante stagione. Come se alla band, prima di tutto, importasse suonare
(e apparire) alternativa, e poi, eventualmente, animare di nuova linfa brani
altrimenti retaggio di un glorioso passato. Insomma, il concerto è tutto uno
sfoggiare di occhiali da sole e pose trendy in favore di camera, mentre Agnelli,
artista dall’indiscutibile fascino, pontifica dall’alto del palco come il
Messia sceso in terra italica per salvare le nostre orecchie dalla cattiva musica
(come sono tristi le caricature di se stessi quando mancano di consapevolezza).
Meglio, quindi, ascoltarsi il cd, che a distanza di diciassette anni dalla sua
uscita (era il 1997)continua a
risuonare dalle casse dello stereo con tutta la sua forza iconoclasta. Perché fuori
dai loro dischi, è triste ammetterlo, gli Afterhours rappresentano ciò che di meno
alternativo esista a questo mondo (che poi di alternativo esistono solo gli operai che si svegliano alle 5.00 del mattino e vanno a lavorare in catena di montaggio).