Charley
Thompson ha quindici anni, e da grande vuole diventare un campione di football.
Intanto però i suoi sogni sono molto più modesti: una casa vera, qualcuno che
gli prepari da mangiare, un posto dove farsi degli amici senza dover cambiare
città in continuazione. Ma senza una madre e con un padre come il suo tutto
questo non è possibile. Ray è un operaio specializzato, con un talento innato
per cacciarsi nei guai, e così la loro vita è un eterno migrare tra i piccoli
centri del Nordovest americano, sempre in fuga da qualcuno o qualcosa, sempre
di passaggio e poi via, senza una direzione precisa. Charley sperava che a
Portland le cose sarebbero andate meglio, e invece si ritrova più solo e
incasinato che mai, costretto a lavorare nelle stalle di un ippodromo malmesso,
tra fantini sovrappeso, allenatori senza scrupoli e cavalli buoni a niente. Qui
Charley ha due sole consolazioni: una foto di sua zia Mary, che non vede da
anni e non sa dove sia finita, e la compagnia di Lean on Pete, un vecchio
cavallo zoppo che diventa il suo unico amico. È insieme a Pete che Charley
deciderà di prendere in mano il proprio destino e partire, tuffandosi in un
lungo viaggio senza sapere esattamente verso dove. Spinto da una speranza
debole eppure irresistibile, migliaia di chilometri a piedi su strade e
sentieri polverosi, Charley incontrerà personaggi indimenticabili, tra
pericoli, sorprese e clamorose lezioni di vita.
Ho
conosciuto e amato Willy Vlautin come musicista, nella vesti di leader dei
Richmond Fontaine, gruppo interessantissimo, ma praticamente ignorato
dalle nostre parti, e oggi a capo del progetto The Delines, super gruppo di
egregi misconociuti, che l'anno scorso pubblicò un suntuoso esordio intitolato
Colfax. Solo dopo averne apprezzato le doti di compositore e paroliere
(i testi sono fondamentali nella musica dei Richmond Fontaine), ho
scoperto che Willy Vlautin è, al contempo, anche un romanziere molto quotato.
Quindi mi sono buttato alla ricerca di questa sua ultima fatica, pubblicata in
Italia da Mondadori, edizioni Strade Blu, con la curiosità di sapere se tanta
creatività potesse avere uno sbocco altrettanto positivo anche in ambito
letterario. Letto in quattro giorni e con la bava alla bocca per sapere come
andava a finire, La Ballata Di Charley Thompson è stata un'emozionante
scoperta, superiore anche alle mie aspettative, a dire il vero, già
sufficientemente alte. La prosa di Vlautin è secca, incisiva, senza
fronzoli, e sembra davvero che lo scrittore americano abbia fatto suo il
consiglio di Hemingway, che suggeriva di evitare le parole da un dollaro e di
utilizzare quelle che valgono un cent. Ne viene fuori così un romanzo, la cui
scrittura scivola via con una facilità imbarazzante, attraverso periodi
concisi, spesso privi di subordinate, ma non per questo meno ricchi di fascino
e sottintesi. La figura di Charley, a tal proposito, pur nella sua istintiva
semplicità, risulta psicologicamente ricca di sfumature, esaltate
vieppiù dalle contraddizioni continue fra un impianto etico basilare
ma efficace, pulsioni animalesche (il parallelo fra le corse di Charley e
quelle di Lean On Pete, la reiterata necessità di soddisfare i bisogni primari,
il cibo come un mantra) e la rielaborazione esistenziale delle prime,
fondamentali, lezioni di vita. Ritornano in Vlautin i temi
principali tanto cari a Lansdale, e cioè quello del viaggio e della
perdita dell'innocenza, nello specifico, però, privati dall'aura di mistero e
dai palpiti horror che hanno caratterizzato molti dei libri dello scrittore
texano. Vlautin si limita a raccontare una storia che affonda la sua trama nel
quotidiano, raccontando, insieme alle peripezie di Charley, quelle di un'
America ai margini, provinciale e suburbana, sporca, abbruttita e violenta,
i cui personaggi appartengono tutti al mondo dei blue collar, degli
homeless e del sottoproletariato urbano. Anime perse, in balia della
ferocia dell'esistenza, capaci tanto di indicibili abbiezioni, quanto di
improvvisi e generosi slanci di umanità. Una favola cupa, che non fa
sconti, che recita il funerale del sogno americano, che erge a paradigma delle
esistenze l'indigenza e il fallimento, e che tuttavia si conclude con un
commuovente barbaglio di speranza. Da leggere rigorosamente con i Richmond
Fontaine in sottofondo.
Blackswan, giovedì 22/01/2015
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