Tim è un uomo giovane e
attraente, e il passare degli anni sembra avergli donato il fascino luminoso e
intenso di un attore di teatro. La moglie Jane conserva intatto il suo amore
per lui, e attraverso le piccole difficoltà di ogni giorno il loro matrimonio
ha acquisito la forza di un vero legame, complice e sentimentale. Nonostante le
lunghe ore passate in ufficio, Tim lavora con passione. È socio di un
autorevole studio legale di Manhattan, e ciò che fa è importante per i colleghi
e per se stesso. A casa, quando la figlia Becka si nasconde dietro la sua
chitarra, con i capelli da rasta e un corpo che non ha ancora superato le
rotondità paffute dell'infanzia, Tim riesce sempre a donarle le bugie oneste di
un padre, convinto che la figlia sia la ragazza più bella del mondo. Tim ama
sua moglie, la propria famiglia, il lavoro, la sua casa. Ma un giorno Tim si
alza ed esce. Esce dalla casa, dalla famiglia, dall'ufficio, dalla calda dimora
degli affetti, dell'amore, della sicurezza. Esce e inizia a camminare. Per non
fermarsi ma i più. La sua è una malattia che lo spinge a mettersi in marcia
senza potersi arrestare, perdendosi nei meandri della città, nelle periferie,
nei sobborghi, nelle strade di campagna. Fino a quando, senza forze, come in
trance, crolla e si a ddormenta. Per ritrovarsi privo di memoria in un luogo
sconosciuto, e chiamare e implorare la moglie perché lo venga a recuperare. È
una malattia senza nome, insinuante, che non lascia scampo.
Ci sono libri che restano incomprensibili, per
sempre; altri il cui significato si coglie al volo, appena conclusa
l'ultima pagina; e altri ancora, invece, che necessitano di una
postuma rielaborazione per poter essere afferrati, arrivando al nocciolo magari
anche dopo qualche settimana. E poi, ci sono libri, come quello di cui sto
scrivendo, che si colgono in movimento, sfogliando le pagine, assimilando
le parole, riflettendo sui singoli particolari, piuttosto che sul quadro
d'insieme. Non Conosco Il Tuo Nome funziona esattamente così: non c'è un
prima, non c'è un dopo, esiste solo un durante. Così, il senso del romanzo di
Ferris, si comprende camminando fianco a fianco a Tim, nutrendoci della sua
malattia, cercando, passo dopo passo, di spiegarci la ragione di quelle
camminate infinite, senza meta e senza speranza, condividendo il suo dolore, la
sua malinconia, la sua rassegnazione, il germe della sua follia. Cos'è
esattamente questa patologia incurabile, ma che non uccide, questo
coercitivo camminare non importa dove, questo perdersi per le strade d'America,
senza che il viaggio assuma mai connotati epici o avventurosi? Perchè Ferris
impone a Tim e al lettore questo calvario senza crocefissione, questo ripetuto
esodo senza approdo? Pagina dopo pagina, passo dopo passo, il senso del tutto
si svela lentamente, più semplice di ogni congettura, più incisivo di ogni
metafora. Il significato è proprio lì, sotto i nostri occhi, sotto
gli scarponcini di Tim, nel fardello intollerabile di uno zaino che diventa pertinenza
indispensabile alla sopravvivenza. Questa malattia che non ha una cura nè un
motivo, che non è suscettibile di prognosi e diagnosi, che non trova
giustificazione e sollievo nemmeno in Dio, che plasma i giorni di Tim
secondo le regole di una materia sorda al mondo circostante, si chiama
vita. La vita, che appartiene a ognuno di noi, che ci costringe ad andare
senza una meta, a fare i conti solo con le nostre esigenze primarie e il nostro
istinto di sopravvivenza, questa vita che è monotonia, ripetitività,
incomunicabilità, egoismo. Un male di vivere che riusciamo a nascondere dietro
paraventi di serenità, a mitigare attraverso il miraggio della carriera, il
potere del denaro, la quiete di una casa o il calore di una famiglia,
prima o poi, a causa di un piccolo ingranaggio malfunzionante, esploderà in
tutta la sua devastante concretezza. Allora, capiremo che nulla davvero ci
appartiene, che nulla ha ragione d'essere, che la bellezza ci sfugge, inafferrabile,
dopo averci solo sfiorato in brevi momenti immediatamente obliati, e che la
felicità, quella felicità a cui tanto aneliamo, residua solo nelle
piccole cose dei nostri giorni, a cui non riserviamo mai, oh
stolidi, alcuna importanza. Nulla ci potrà salvare, nemmeno l'amore più
struggente, più intimo e più disinteressato. Nulla. Siamo corpi,
siamo carne che si smembra, siamo materia destinata alla
polvere. Sarà la morte il nostro traguardo, la morte che, recitava
Ungaretti, si sconta vivendo.
Blackswan, mercoledì 18/03/2015
3 commenti:
Il libro giace da un po' nella mia libreria, dopo averne letto il tuo commento la curiosità sale molto. Avevo già apprezzato Ferris con il suo E poi siamo arrivati alla fine... che ti consiglio moltissimo, mi sa che ci troviamo di fronte a uno scrittore molto molto interessante. Ti farò sapere appena colmerò il buco ;)
@Firma: Ferris è uno scrittore più che interessante. Questo libro mi ha assorbito completamente, mi ha costretto a riflessioni tremende e non mi ha rsparmiato proprio nulla in termini di dolore. Leggerò anche E poi siamo arrivati alla fine: se è bello la metà di questo ne vale senz'altro la pena.
devo recuperarlo, il tuo ritratto l'ha reso intrigante
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