Certe storie possono arrivare solo dall'America, terra
di grandi contraddizioni e di speranze, ove può accadere tutto e il contrario
di tutto. Succede, allora, che un grande musicista, come Charlie
Parr, abbia vissuto ai margini del music business per anni, producendosi i
dischi da solo (o con la collaborazione di microscopiche etichette) e
suonando in piccoli locali praticamente a prezzo di costo. Poi, quando le cose
sembravano immodificabili e i sogni di gloria evaporati sotto l'amara
benedizione degli dei della realtà, qualcosa succede. Niente di eclatante, per
carità, ma Charlie Parr viene notato, apprezzato e messo sotto contratto
dall'etichetta indipendente Red House, non un colosso, ma grande a sufficienza
per consentire una peculiare distribuzione anche fuori dai confini locali. Un
pò come era successo a Seasick Steve e Tom Ovans, per citare altri due
misconosciuti artisti, a cui un barlume di notorietà arrivò solo in età
avanzata. E si che il cantante e chitarrista originario di Austin, ma cresciuto
a Duluth, nel Minnesota (vi ricorda qualcuno?), si era parecchio dato da fare
fin dall'inizio del nuovo millennio, pubblicando tredici cd (studio e live) in
una decina d'anni. Tuttavia, è solo con l'ultimo full lenght, che questo
talentuoso bluesman e fuoriclasse della Resofonica, è riuscito a imporsi
all'attenzione di un pubblico più vasto, il quale con molta probabilità, dopo
aver ascoltato Stumpjumper, si sarà messo alla vana ricerca di tutti i
precedenti, e pressochè introvabili, lavori. In viaggio attraverso le mille
sfumature del southeastern blues (con un pizzico di country e blue
grass), le canzoni di Charlie Parr affondano le loro radici nella grande
tradizione rurale americana, traboccano di negritudine ma sono anche
irrimediabilmente marcate da quella "Ruggine Americana", da quel
sogno bianco e americano, il cui fallimento è magistralmente narrato nel
romanzo di Philip Meyer. Tra polvere e birra ghiacciata, paesaggi scarnificati
e natura incontaminata, Parr rappresenta la visione essenziale e
cruda di un'America che, come dicevamo all'inizio, vive di continue
contraddizioni, ma i cui soundscapes sanno produrre infinite suggestioni.
Delia, la murder ballad finale, è il manifesto perfetto per un disco
di blues scarno, essenziale, fremente.
VOTO: 7,5
Blackswan, giovedì 16/07/2015
1 commento:
Urca! provvedo subito, grazie :)
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