Scrivere una recensione
del nuovo disco di Bowie a poche ore dalla morte di Bowie non è affatto
semplice. Il rischio, soprattutto, è quello di farsi trascinare dalla corrente
impetuosa delle suggestioni malinconiche e farsi rapire dall’enfasi dello
struggimento, che offusca la vista e il giudizio. Allora, prima di spargere
incensi (e ne spargerò, ve lo prometto) è meglio prendere la distanza dalle
cose e dire che cosa Blackstar non è. Blackstar non è il disco testamento, come
molti in questi giorni amano definirlo. O meglio, lo è solo nella messa in
scena, nel sincrono perfetto fra la sua uscita nei negozi e l’uscita di scena
del Duca Bianco. Ascoltato e riascoltato, vi ho trovato tutto tranne che un’iconica
resa dei conti, un tormentato bilancio o un lascito definitivo per i postumi.
Blackstar è semmai un disco avanguardistico e interrotto: avanguardistico,
perchè ci propone la nuova visione che Bowie aveva della sua musica e uno
sguardo, quindi, rivolto a un futuro tutto da svelare; interrotto, perché è
disco incompleto, che crea i presupposti di ciò che avremmo potuto ascoltare
fra un anno o due, in una veste definitiva e magari prossima a quella
perfezione, che qui talvolta manca. Blackstar non è un disco facile, è lontano
da ogni desiderio di compiacere, da ogni schema immediatamente assimilabile. E’
piuttosto un opera faticosa, stordente, rumorosa, niente affatto accomodante
verso le classifiche (ma ci finirà, statene certi) e verso coloro che magari si
aspettavano un’altra immensa hit da regalare alla leggenda. In queste sette
canzoni, Bowie insegue la sua visione, non si fa scrupoli a essere scorbutico e
disturbante, cerca di dribblare l’ovvio, e quando ci riesce, rasenta il
sublime. Blackstar non è nemmeno un disco perfetto, o almeno non lo è in quell’accezione
che vorremmo utilizzare, tra squilli di tromba e rulli di tamburo, per
declinare, come ultimo saluto, la genialità dell’artista che ci appena lasciati.
La grandezza di Blackstar, infatti, non è la perfezione, ma il suo contrario: è
il caos, il magma sonoro, la forza creativa (a volte confusa, certo), con cui
Bowie guarda al di là del proprio destino, e ci racconta un’ipotesi di musica
che non si aggrappa alle certezze, alle convenzioni, al passato, ma è capace di
affrontare l’ignoto di un cielo nero, con il coraggio sconsiderato di uno
Starman che non si piega al fato. Non sempre la visione è a fuoco, e alcune
canzoni, Lazarus, mi pare, e Dollar Days, palesano un’improvvisa debolezza, un
giustificato appannamento. E non me ne voglia, David, se mi permetto di dire
che l’arrangiamento jazz rock, vorticoso e sincopato, di Sue (Or In A Season Of
Crime) mi pare meno riuscito di quello già ascoltato nella versione contenuta
in Nothing Has Changed. Eppure, Blackstar contiene delle vette inarrivabili,
delle canzoni che ammaliano, fino a stordirci. La new wave 3.0 di Girl Loves Me,
il drum’n’bass che sottende e quella voce tirata allo spasimo, che evoca Gabriel.
I Cant Give Everything Away, che suona definitiva, come lo smaterializzarsi di
un corpo e il dispiegarsi di ali verso l’infinito del cielo. Oddio, si, quando
l’ascolti, le lacrime sono vere, e ti senti all’improvviso sereno, e senza peso,
e perso nell’abbraccio di luce di una melodia estatica. E poi, c’è Blackstar, la
title track, una canzone mausoleo, un reliquiario di ossidiana che custodisce
le memorabilia di ciò che Bowie sarebbe stato nei prossimi dieci anni: lo
sfumare del tormento nell’estasi (e viceversa), l’incastro delle melodie, le
spinte più audaci dell’elettronica, penombre mediorientali, languide vibrazioni
soul, un rock sfumato ed elusivo. Come a volerci dire, forte e chiaro, che non
è un testamento, non è un disco semplice e non è perfetto. Blackstar è solo
quello che doveva essere: l’ennesimo passo avanti di chi non ha mai pensato,
nemmeno per un istante, di fermare il proprio cammino. In terra e verso il
cielo, dove scoprirà, finalmente, se c’è vita su Marte.
VOTO: 7,5
Blackswan, martedì 12/01/2015
6 commenti:
Splendida recensione, come sempre.
Ti ringrazio per avermi spinto ad ascoltare, intanto, Blackstar e Lucifer, proprio per quello che scrivi e come lo scrivi (con giusto sapiente distacco da quello che è successo ma con sensibilità)
Ho pensato: com'è cambiato Bowie!.. io avevo altro in testa..Ma non è un cambiamento di pelle, di costume come ci ha abituato nel corso di questi anni. E' cambiato come uomo, come succede ad ognuno di noi.
Un disco che suona come un addio.
Non smetteremo mai di ascoltare le sue canzoni e di percepire la sua influenza nell'arte.
Secondo me qualche segnale di disco testamento nei testi qua e là affiora...
Comunque per il resto sono stranamente d'accordo con una tua recensione. :) Un disco che guarda al futuro e risulta imperfetto, ed è proprio in questo che sta il suo fascino.
da fanatico di Bowie è una vera perdita. Restando sul disco, preferisco il precedente.
Non ho ancora ascoltato il disco ma mi piace il tuo giudizio sul Duca. Lui era sempre un passo avanti,una continua anteprima creativa, uno a cui piaceva "gettare le basi" e chissà...
Francesca
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