giovedì 31 marzo 2016
mercoledì 30 marzo 2016
THE WACO BROTHERS – GOING DOWN IN HISTORY
Nati da una costola dei Mekons
(gruppo punk rock originario di Leeds, affacciatosi sulle scene in
contemporanea a Delta 5 e The Gang Of Four), i Waco Brothers sono un side project
chicagoano del cantante e chitarrista gallese, Jon Langford. Sotto contratto
per la Bloodshot Records, per la quale hanno rilasciato già dodici album, i
Waco Brothers si sono costruiti, in
circa vent’anni di carriera, una solida fama di musicisti straordinariamente
bravi dal vivo. Insomma, i loro dischi non brillano certo per originalità, dal
momento che la proposta (un punk rock di estrazione anglosassone che lambisce
talvolta i territori country) è rimasta praticamente immutata nel corso degli
anni; ma quando sale sul palco e dispiega il suo armamentario di chitarre
elettriche, questa band di rockettari di mezza età, si fa rispettare, eccome.
Per cui, prendete questo ultimo disco per quello che è realmente: una raccolta
di canzoni che troverà la sua vera essenza tutte le volte che il quintetto dell’Illinois
salirà su un palco. Ascoltate lontano dalle luci di scena, i dieci brani che
compongono la breve scaletta di Going Down The History (trenta minuti tirati e
buona lì) palesano, infatti, dei limiti di scrittura che pongono il disco nel
novero degli ascolti divertenti, di quelli da fare in macchina, coi finestrini
abbassati e il piede pigiato forte sull’acceleratore. La minestra, come si
diceva, è sempre la stessa: punk rock muscolare (DIYBYOB), chitarre rombanti
(Receiver), ganci melodici a iosa (Had Enough), qualche debito verso gli anni ’60
(la discreta cover di All Or Nothing degli Small Faces)e qualche spezia
country, ma senza esagerare (la rilettura di Orphan Song di John Lee Graham). Tutto
suona grintoso, energico, spassoso, ma anche prescindibile.
VOTO: 6,5
Blackswan, mercoledì 30/03/2016
martedì 29 marzo 2016
GIORGIO CANALI & ROSSOFUOCO – PERLE PER PORCI
Una raccolta di cover, si
sa, serve spesso a mascherare un momento di afasia creativa, a tamponare il
vuoto di ispirazione, in attesa che le canzoni originali su cui si lavora,
funzionino così bene da poter finire su disco. Ne può venir fuori qualcosa di
buono oppure, come accade frequentemente, il risultato finisce per essere un
lavoro prescindibile, che nulla aggiunge o toglie alla credibilità di un
musicista. Poi, capita di rado, ci sono artisti come Giorgio Canali, che
rappresentano un unicum nel panorama nazionale e che quando decidono di fare
qualcosa, la fanno incredibilmente bene. Ecco, allora, che questo Perle Per
Porci si colloca anni luce lontano dal classico album di reinterpretazioni, e
suona esattamente come suonerebbe un disco di canzoni originali. Canali, d’altra
parte, ha sempre dimostrato di possedere un rigore artistico (ed etico) che lo
tiene lontano da scelte furbette e accomodanti, andando spesso in contro
tendenza a un mercato, come quello italiano, zavorrato da tonnellate di
paccottiglia. Così, invece, di riciclare canzoni arcinote e vivere di riflesso
il successo altrui, l’ex CCCP imbastisce una scaletta di canzoni pressoché
sconosciute, ripescando dall’oblio artisti di cui nessuno, diversamente, si
sarebbe ricordato. Un progetto esplicitato dal titolo del disco, che cita un
passo del Vangelo di Matteo, in cui Gesù esorta i propri discepoli: “Non date ciò che è santo ai cani e non
gettate le vostre perle ai porci, perché non le calpestino e, rivoltandosi, vi
sbranino”. Non sprechiamo, quindi, le cose di valore, e riportiamo alla
luce queste canzoni che sono autentici gioielli, piccole perle nascoste fra le
pieghe del tempo. Non è un caso, allora, che il disco inizi con la splendida
Pesci e Sedie (Fish and Chair), rilettura, anche testuale (originariamente i
versi erano cantati in inglese) di una canzone, datata 1990, dei Corman &
Tuscadu, gruppo francese, di cui faceva parte Claude Salt, bassista dei
Rossofuoco fino al 2009), e che continui, poi, con brani di artisti, quasi
tutti, misconosciuti. Alzi la mano, infatti, chi ha mai sentito nominare la
band milanese dei L’upo (AFC – Angelo Fausto Coppi ha un testo che emoziona
alle lacrime), o i veneti Plasticost (Canzone Dada, tra le migliori del lotto,
rilegge alcuni versi del poeta romeno Tristan Tzara) o i triestini Luc Orient,
di cui Canali ripesca la suggestiva Gambe di Abebe, risalente al 1984. Una
scelta non facile e, come si diceva, decisamente contro corrente, che alla fine,
tuttavia, paga, perché dopo averle ascoltate, queste canzoni, vorremmo averle
tutte nella nostra discografia. Ci sono, poi, brani più noti, ma nemmeno
troppo. Il più famoso è senz’altro Le Storie Di Ieri di Francesco De Gregori
(la trovate su Rimmel del 1975), canzone dalla genesi travagliata (il testo,
tra censure e autocensure, fa esplicito riferimento al fascismo e al MSI) e qui
privata del lungo intro di contrabbasso in favore di una maggior dose di
elettricità; e c’è anche Lacrimogeni, presa in prestito da Canzoni Da Spiaggia
Deturpata, album d’esordio, datato 2008, di Vasco Brondi (alias Le Luci Della
Centrale Elettrica), ai tempi prodotto proprio da Giorgio Canali: altra grande
canzone ed ennesima grande rilettura, con una coda rumorosa, che eleva il
pathos al parossismo. In scaletta troverete anche brani di Eugenio Finardi
(F-104), di Angela Baraldi (Mi Vuoi Bene o No?), di Faust’O (Buon Anno) e dei
Mary In June (la vibrante malinconia di Un Giorno Come Tanti); ma soprattutto,
troverete un musicista e una band, i Rossofuoco, che ben lungi da replicare
pedissequamente canzoni altrui, recuperano quarant’anni di musica italiana
inconsueta, e ce li restituiscono vitali, sferraglianti e pervasi da un’attitudine
punk che qui, più che mai, è figlia di un’irrequieta, e per questo realmente
creativa, onestà artistica. Un grande disco da conservare gelosamente fra le
cose migliori di questo 2016.
VOTO: 7,5
Blackswan, martedì 29/03/2016
sabato 26 marzo 2016
TOAD THE WET SPROCKET – DULCINEA (1994, Columbia)
Mi sono sempre chiesto
come mai gruppi o artisti che negli States vendono milioni di dischi, da noi
sono patrimonio esclusivo di pochi onnivori appassionati. Prendete i Toad The
Wet Sprocket, ad esempio: nella prima metà degli anni ’90, la band originaria
di Santa Barbara (California) è stata una presenza fissa nelle classifiche
americane, aggiudicandosi, anche, un paio di dischi di platino; da noi, il
silenzio quasi totale. Se andate a dare un’occhiata alla pagina Wikipedia
inglese, passerete una buona mezz’ora a
leggere; nel web italiano, invece, i riferimenti al gruppo sono radi come i capelli sulla testa
di Telly Savalas. Davvero strano. Soprattutto, perché i Toad The Wet Sprocket
(il nome bizzarro lo hanno preso in prestito da uno sketch dei Monty Pyton), di
canzoni appetibili anche per il pigro e impreparato pubblico italiano, ne hanno
scritte davvero tante. Fondatisi nel lontano 1986, i TTWP, appena adolescenti, si
sono fatti le ossa con una lunga (e consueta) gavetta di concerti in piccoli
locali e di album autoprodotti; poi, nel 1990, la Columbia li mette sotto
contratto, ripubblicando i primi due dischi. Il passaggio a una major, come
spesso succede, procura alla band di Santa Barbara quella visibilità che prima
non aveva, e i continui passaggi a MTV dei singoli All I Want e Walk On The
Ocean, lanciano il nuovo album, Fear (1991), in vetta alle classifiche
statunitensi, (il tutto certificato da un disco di platino). Nei due anni
successivi, l’attenzione dei media resta alta, le vendite si mantengono
consistenti, e le loro canzoni vengono inserite nella colonna sonora di un paio
di film di cassetta, tutte circostanze che sanciscono per i TTWS lo status di
stelle nazionali del(l’alternative) rock. Bisogna, però, battere il ferro finché
è caldo e bissare il successo del disco precedente, per non perdere la cresta
dell’onda. Detto, fatto.
Nel 1994, esce Dulcinea, che si mangia a colpi di
singoli le charts a stelle e strisce e si aggiudica l’ennesimo disco di platino,
nonostante una copertina inguardabile e un titolo, dai riferimenti letterari spagnoli
(il Don Chiscotte di Cervantes), per i più davvero poco appetibile. Il motivo
di tanto successo sta ovviamente nelle canzoni, tredici per la precisione, vestite
tutte di abiti orgogliosamente mainstream e dotate di un appeal melodico (e
radiofonico) che riuscirebbe a conquistare anche il cuore del rocker più
incallito. I Toad The Wet Sprocket non si inventano nulla, ma sono bravi a
inserirsi nel contesto musicale del tempo, fondendo con intelligenza i suoni
che vanno per la maggiore nell’allora attuale panorama rock: l’Americana solare
dei Jayhawks, gli struggimenti malinconici dei Counting Crows, e l’energia
radio friendly di quel movimento post grunge che, a partire dall’anno
precedente, sta ingolfando le case discografiche di gruppi mediocri, ma dall’alto
potenziale economico. La band capitanata da Glen Philliphs (voce e chitarra
ritmica) e Todd Nichols (chitarra solista), rielabora il tutto con gusto e
intelligenza, dando vita a un sound, che forse non sarà mai immediatamente
riconoscibile, ma il cui appeal è a dir poco irresistibile. E poi, ci sono le
canzoni, tutte orecchiabilissime, tutte possibili hit, ma non prive di quel
fascino adulto (i testi indulgono anche verso tematiche religiose e riferimenti
letterari di cui sopra) che tiene ben lontano la band dall’essere patrimonio
esclusivo dei teenagers. Il disco vende benissimo, il primo singolo, Fall Down,
arriva alla prima piazza delle classifiche di genere, il secondo singolo,
Something’s Always Wrong, entra nella top ten. Ma la storia dei Toad The Wet
Sprocket finisce praticamente qui: l’anno successivo, si raschia il fondo del
barile, con un’inutile raccolta di b-side (In Light Syrup) e nel 1997, esce
Coil, ultimo capitolo della band, che si scioglierà nel 1998, per sopravvenute
divergenze artistiche (in realtà, è Glen Phillips che scalpita per iniziare una
carriera in solitaria). La reunion, datata 2013, produce, grazie al crowdfunding,
un disco, New Constellation, che viene accolto tiepidamente dalla critica e dal
pubblico, e che suscita più di un rimpianto fra i numerosi fans americani (e i
più sparuti fans europei), per quel gioiello di mainstream rock dal titolo Dulcinea.
Blackswan, sabato 26/03/2016
venerdì 25 marzo 2016
JEFF BUCKLEY – YOU AND I (2016, Colombia)
Quando escono raccolte di inediti
di artisti scomparsi, il mio buon senso mi dice subito di starne alla larga.
Perché tanto lo sappiamo che tutte queste operazioni sono motivate dallo scopo
principale di riempir le tasche a chi detiene i diritti del defunto, siano essi
case discografiche o parenti. Si chiama sciacallaggio, e noi tutti, fans e
appassionati, finiamo spesso per caderne in trappola e renderci complici. L’esperienza
insegna, però, che ci sono due forme di sciacallaggio: una cattiva e una buona.
Il primo caso, quello da ultimo più eclatante, è stata la pubblicazione, lo
scorso anno, di una raccolta di canzoni sotto la doccia (non saprei come altro definirle)
a firma Kurt Cobain: un’operazione indecente, che proponeva materiale inutile, senza
interesse né storico né artistico, con l’intento esclusivo di raggranellare
qualche soldino, con buona pace del compianto Kurt. Lo sciacallaggio buono,
invece, è quello che fa coincidere intenti meramente economici (questi ci
saranno sempre) con altri più nobili, come, ad esempio, regalare ai fans,
materiale che sarebbe, questa volta si, uno spreco tenere a impolverarsi nel
cassetto. E’ questo il caso di You And I, raccolta di canzoni (otto cover, un
inedito e un’alternative take di Grace) cantate e suonate da Jeff Buckley, e
dallo stesso registrate in un’unica sessione presso gli Shelter Island Sound di
New York. E’ il febbraio del 1993, Buckley, allora noto solo per essere il
figlio di Tim, non è ancora la star di Grace (l’album uscirà circa un anno e
mezzo più tardi), ma viene visto durante un’esibizione dal produttore Steve
Berkowitz, che ne rimane estasiato, tanto da portarlo in studio, per testare
fin dove possa arrivare il talento di questo giovane dalla voce d’angelo. Il
resoconto di quelle registrazioni è contenuto in You And I, che non è un vero e
proprio disco (manca la visione artistica che lega le canzoni fra loro), ma è
senz’altro una raccolta di brani degnissimi, cantati magistralmente dal giovane
e sfortunato Jeff. Se è vero che You And I non toglie e non aggiunge nulla alla
breve, ma folgorante, carriera di Buckley, è per converso vero che il materiale
resta comunque interessante, sotto diversi profili. In primo luogo, da un punto
di vista artistico, queste canzoni, nella loro scarna essenzialità, dimostrano
l’immenso carisma e la tecnica vocale (che di lì a poco sarà perfettamente
oliata) di un artista in grado di riempire con la sua sensibilità angelica il
vuoto lasciato dalla mancanza di arrangiamenti (peculiarità, questa,
ravvisabile, anche in Live At Sin-é. L’Ep live uscito a novembre dello stesso
anno). In secondo luogo, il valore di
You and I è anche storico: questo è il Jeff Buckley non ancora leggenda, quello
che cerca di emergere, non sfruttando la notorietà del padre, ma affidandosi
esclusivamente alle proprie capacità di interprete e compositore. Sotto questo
aspetto, ad esempio, acquista immensa importanza la prima versione mai edita di
Grace, cavallo di battaglia e title track dell’album che arriverà, e brano che
getta luce su un’abilità compositiva ancora in nuce, ma pronta ad esplodere di
lì a breve. Così come l’eterogeneità del repertorio, racconta assai bene dell’eclettismo
di un ragazzo, giovane ma con già una solida base di conoscenze musicali alle
spalle. Un ragazzo che sa spaziare egregiamente dal brit pop degli Smiths (da
brividi la cover di I know It’s Over, posta cinicamente, dagli autori, a fine
raccolta) all’hard rock dei Led Zeppelin (chi altri, oltre a Plant, poteva
cantare così bene Night Flight?), al folk di Dylan (Just Like A Woman è forse
la cover più interessante sotto il profilo dell’arrangiamento) e al blues del
Mississippi (la rilettura old style del traditional, Poor Boy Log Way From
Home). Se Dream Of You And I è, invece, solo un abbozzo di ciò che sarebbe
potuta diventare una grande canzone, il pezzo da novanta della raccolta è
Calling You (estratta dalla colonna sonora di Baghdad Cafè, consigliatissimo
lungometraggio del 1987 a firma Percy Adlon), originariamente interpretata da
Jevetta Steele, e riletta da Buckley con un intensità che sbriciola il cuore. In
definitiva, dunque, You And I, va a implementare una discografia postuma che,
rispetto a quanto solitamente accade, non ha mai infangato la figura di Jeff,
ma ha semmai regalato ai suoi fans la possibilità di riascoltare
(dignitosamente) la voce di uno degli artisti, che ha inciso in modo
significativo sul suono di una decade. Riposa in pace, Jeff: ancora una volta
la tua memoria è salva.
VOTO: 7
Blackswan, venerdì 25/03/2016
giovedì 24 marzo 2016
BOB MOULD - PATCH THE SKY (2016, Merge)
E’ il 35esimo anno che passiamo in
compagnia di Bob Mould, dall’esordio degli Hüsker Dü
(Land Speed Record) del 1982, passando
per la magnifica parentesi degli Sugar (92-95) ad oggi. Patch The Sky è il 13esimo album solista, il secondo che esce per
la Merge dopo Beauty & Ruin del 2014 (uno dei
dischi dell’anno e non solo per chi scrive). Non si contano più le grandi
canzoni che lo straordinario cantante/chitarrista americano ci ha regalato in
questi decenni influenzando al contempo intere generazioni di musicisti che si
sono via via succedute. Tutto l’Indie e l’ Alternative Rock gli è debitore. Solo
i Sonic Youth (o i R.E.M. in ambiti diversi) hanno avuto un impatto paragonabile
per chi è arrivato dopo. Fugazi, Meat Puppets, Dinosaur Jr., Pixies, tanto per
citare alcune tra le band più importanti, difficilmente sarebbero approdati
alla sintesi sonora che ha poi caratterizzato un’intera epoca.
L’estremizzazione di ciò che rimaneva del Punk con l’inusitata velocità
esecutiva delle composizioni e, dall’altro lato della moneta, l’introduzione di
aspetti spudoratamente Pop. Tonnellate di feedback atte alla restituzione sostanzialmente
“orecchiabile” dei brani. Un blend originalissimo che diede nuovo vigore al
movimento Punk radicalizzandolo come non mai e lasciando comunque immutata la
forza attrattiva. Non per niente la Warner Bros. li mise sotto contratto. Un
imprinting “commerciale” di cui beneficiarono anni dopo Grunge e Crossover, generi
che non sarebbero mai esistiti senza album come Zen Arcade, Flip Your Wig,
Warehouse: Songs And Stories, i
capolavori più fulgidi e seminali della band di Minneapolis. E’ sul solco di
questi presupposti che si sviluppa tutta l’attività di Bob Mould nel dopo Hüsker Dü,
con i Sugar e da solo: la ricerca della bella melodia in un rumorosissimo
contesto Post Punk. A questo proposito date un’occhiata al video sulla sua fragorosa
e trascinante partecipazione al David Letterman Show nel 2015 (www.youtube.com/watch?v=m1pXinbD84E).
Quella volta che è caduta polvere dal soffitto.
Come ebbe a dire il buon Bob sull’esiziale esibizione televisiva.
In questo nuovo lavoro, a completare
la dimensione Power Trio - la formula che più si addice a Mould - offrono un
contributo determinante i collaudati Jason Harducy (Split Single) al basso e
Jon Wurster (Split Single, Superchunk, Mountain Goats) alle percussioni.
Inesorabile sezione ritmica tra le migliori in circolazione. Si parte con un
gran pezzo, scelto anche come singolo, Voices
in My Head andamento marziale e refrain che ti entra subito nel cervello
(il ritornello chimico, come dice lui). L’eccitazione Pop Punk non diminuisce
nei brani che seguono The End of Things,
Hold On (una delle vette dell’album) e
You Say You. E’ un fenomenale poker
iniziale con la Fender al posto degli assi. Da adesso in poi la mano è facile e
Mould prosegue da gran giocatore senza esagerare: Losing Sleep è una meravigliosa ballata utile ad incrementare il
piatto. Il rilancio che fa il vuoto arriva subito dopo con Pray for Rain: un biglietto da visita del Power Pop moderno. D’ora
in avanti si contano le fiches ammucchiate e ci si rilassa bevendo uno scotch. La
seconda parte del disco infatti è più oscura e introspettiva nonostante ci siano
altri pezzi - Hands Are Tied e Losing Time - capaci di far tremare i soffitti. Lucifer and God, Black Confetti e Monument
sono gli episodi che mitigano l’incedere a perdifiato, gli accordi fanno spazio
agli arpeggi e Mould può abbassare il volume per fermarsi e riflettere su
alcuni temi a lui cari: altre morti,
relazioni finite, la vita che si fa più corta. Lo fa con la consueta intensità
emotiva e nelle interviste pre-release, oltre a riaffermare che al momento non
ha nessuna intenzione di riesumare gli Hüsker Dü
(con Grant Hart per una volta d’accordo) - Non
voglio trarre vantaggi dalla mia esperienza in quella band. Né voglio in alcun
modo fare qualcosa che abbia ripercussioni sulla sua eredità. - riesce
anche a divertirci affermando: La musica
è una droga incredibilmente potente. Voglio essere il vostro spacciatore. Ho
quello di cui avete bisogno. Sempre in equilibrio tra cuore e stomaco. Grande
Bob Mould, quando la prossima dose?
Voto: 7.5
Porter Stout, giovedì 24/03/2016
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