Nella
cittadina di Holt, in Colorado, Dad Lewis affronta la sua ultima estate: la
moglie Mary e la figlia Lorraine gli sono amorevolmente accanto, mentre gli
amici si alternano nel dare omaggio a una figura rispettata della comunità. Ma
nel passato di Dad si nascondono fantasmi: il figlio Frank, che è fuggito di
casa per mai più tornare, e il commesso del negozio di ferramenta, che aveva
tradito la sua fiducia. Nella casa accanto, una ragazzina orfana viene a vivere
dalla nonna, e in paese arriva il reverendo Lyle, che predica con passione la
verità e la non violenza e porta con sé un segreto. Nella piccola e solida
comunità abituata a espellere da sé tutto ciò che non è conforme, Dad non sarà
l'unico a dover fare i conti con la vera natura del rimpianto, della vergogna,
della dignità e dell'amore. Kent Haruf affronta i temi delle relazioni umane e
delle scelte morali estreme con delicatezza, senza mai alzare la voce,
intrattenendo una conversazione intima con il lettore che ha il tocco della
poesia.
Ci sono buoni libri che ci
lasciano qualcosa: un pensiero, un ricordo, un’emozione, una riflessione. Li
serbiamo gelosamente, li consigliamo agli amici, ogni tanto li rileggiamo. Poi,
ci sono i grandi libri, e li riconosciamo subito, perché a fronte di un dono,
pretendono il meglio di noi. Ti rubano la prospettiva e te ne impongono un’altra,
ti obbligano a uno sguardo diverso, spingono i nostri pensieri oltre il limite
del convenzionale, colorano o sfumano sentimenti che credevamo già strutturati
e definitivi. Con Benedizione, primo capitolo della Trilogia Della Pianura (gli
altri due volumi sono Canto Della Pianura e Crepuscolo, tutti tradotti e
pubblicati in Italia da NN Editore tra il 2015 e il 2016), Kent Haruf ci chiede, infatti, lo sforzo supremo
di assistere all’ultimo mese di vita di Dad Lewis, ferramenta e membro stimato
dell’immaginaria cittadina di Holt, Colorado. Una lenta agonia vissuta
sommessamente, senza strepiti, urla o scene madri. Il moribondo Dad, con
le poche forze rimastegli, si trascina dal letto alla poltrona, passa di continuo dal sonno al dormiveglia, parla con un filo di voce e, consapevole del proprio segnato destino, fa
i conti con il passato, perdona e chiede perdono, dichiara sentimenti troppo
spesso taciuti, cerca nei ricordi (e nella pietà altrui) l’assoluzione per gli
errori commessi. Attorno a lui, si muove un pugno di personaggi (la moglie, la
figlia, il figlio Frank, sparito nel nulla da decenni, due vecchie e gentili
signore, un curato progressista, una piccola orfana) le cui vite sono segnate
da una disperazione inemendabile. Tutti, dietro un paravento di rispettabilità
e ordinarietà, nascondono storie di fallimenti, di frustrazioni, di rimpianti e
di rimorsi; tutti, nessuno escluso, sono incredibilmente infelici, anime
irrequiete in un tessuto sociale all’apparenza omologato e stabile. Con la sua
prosa minimale, scarna, precisa, i cui dialoghi non sono punteggiati (il
pensiero vola a Saramago) e le subordinate limitate all’indispensabile, Haruf
ci racconta di un’umanità afflitta dalla vita tanto quanto dalla morte, un’umanità
sconfitta nei propri sogni e nelle proprie aspirazioni, un’umanità destinata a
spegnersi nel silenzio di una malattia (fisica, certo, ma soprattutto etica), tratteggiata
con misura, nei movimenti lenti di un corpo ossuto o da una coperta adagiata
sulle gambe, quando fuori dalla finestra la canicola toglie il respiro. C’è
qualcosa che si salva in questo mondo disperato e senza futuro, in cui i
protagonisti vivono solo l’agonia del presente e il rimpianto del passato, in
cui ogni destino nasce dal tradimento e dall’abbandono? Per Haruf il senso dell’esistenza
sono piccoli gesti di pietà, attimi in cui l’amore che portiamo dentro riesce a
infrangere le barriere del nostro incurabile dolore. Un abbraccio, un bacio,
due mani che si sfiorano, una lettera a una sconosciuta, una lacrima che
inumidisce gli occhi rappresentano la benedizione e la speranza per una società
sempre più alla deriva di sè stessa. Tutto intorno alla tragedia personale dei
protagonisti, si muove, infatti, l’America rurale, il cuore di un paese che non
sa più battere, ma che si abbevera alla fonte dell’ignoranza, dell’ipocrisia, dell’odio
razziale. Una collettività bigotta, rancorosa ed emotivamente esausta, che solo
un singolo (e individuale) gesto d’amore, come lo era per Borges nella sua
poesia I Giusti, può riscattare.
Blackswan, domenica 07/08/2016
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