Ok, Dave Cobb sta diventando per la musica americana più
classica quello che Brendan O’Brien fu per il grunge: il faro, il suono oppure,
molto più semplicemente, l’uomo giusto al quale portare una manciata di canzoni
e chiedere, semplicemente, di portarle più in alto di dove sono.
Il fatto è che a Cobb, come accadde negli anni ’90 a
O’Brien, questa magia spesso riesce. Ad usufruire del suo talento, tra i tanti
di questi anni, anche una band di Nashville (ovviamente il buon Dave fa sede
nella capitale dell’industria discografica americana) nata sotto il nome di A Thousand Horses, composta da quattro
ragazzotti del sud (più due ottimi turnisti dietro le pelli della batteria ed
alle tastiere) con la testa un po’ ai Lynyrd Skynyrd ed un po’ ad un certo
country/rock da classifica.
Il buon Cobb deve aver fatto un paio di ragionamenti: il
primo è che gli Skynyrd non hanno mai avuto una band che facesse successo
percorrendo direttamente la loro strada, i loro suoni e la loro estetica (e qui
di plagio o, se volete, di ispirazione non nascosta ce n’è tanta). Il secondo è
che per una volta poteva divertirsi a produrre una band col la corrente
elettrica ben attaccata, che mastica rock’n’roll e che il country che ha nelle
vene lo avrebbe volentieri lasciato da parte a favore di un approccio bello
rock.
Chiamatelo come volete, ma “Southernality” (2015, Republic
Nashville) è pieno zeppo di clichè, idee già sentite e ritornelli sin troppo
orecchiabili, possiede però un fascino, un tiro ed una idea di fondo che non
passa inosservata. Intanto, i ragazzi ci danno dentro, piazzando all’inizio una
botta molto figlia degli Stones in periodo Nellcote: “First Time” vibra, le
chitarre non si risparmiano, la batteria pesta e l’organo tiene incollato il
tutto. Novità? Nessuna, a dire il vero, ma chi ascolta questa roba di solito
non è molto attento nemmeno agli aggiornamenti di Windows. Segue una “Heaven is
close” veramente paracula, che inizia benissimo con acustica e voce (scordatevi
però gli arpeggi melensi, qui è subito ritmo) per poi trasformarsi in una
specie di gospel. Il ritmo non si abbassa mai, ed anche quando la vicenda si fa
anonima (“Tennessee Whiskey” ad esempio) il lavoro di Cobb si fa apprezzare,
per cui non viene voglia di maledire la spesa per il disco.
Certo, la voce di Michael Hobby a volte fa finta di aver
bevuto quel whiskey che in realtà non ha nemmeno assaggiato, però il solo fatto
di voler rispettare l’eredità degli Skynyrd ce li fa prendere sotto l’ala
protettrice, ovviamente incuriositi da ciò che sarà nel disco n°2 dove, con o
senza Cobb, qualche fantasma nell’armadio dovrà scomparire e lasciare spazio a
una maggiore personalità.
Però per le ferie di agosto, durante qualche alcoolico
aperitivo al tramonto, ‘sta roba qua ci sta alla grande.
VOTO: 6
Melonstone, lunedì 08/08/2016
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