In una scena musicale
dominata da passatismo e revivalismo, gli Algiers hanno percorso una strada
difficile e in controtendenza, definendo una proposta che, seppur derivativa
nei punti di riferimento (ma quale non lo è?), è apparsa fin da subito
totalmente nuova nella struttura e nei contenuti. Ci è voluto coraggio, in
questi anni di ispirazione ai minimi termini e di riciclaggio compulsivo, per
uscire dal coro e far sentire una voce, che non solo suonasse diversa da tutte
le altre, ma che fosse in grado di declinare un linguaggio ostico, corposo,
ricco di contenuti. Quello che la band di Atlanta è riuscita a fare in un solo
disco è stato un triplo salto mortale senza rete, un azzardo a rischio caduta libera
perfettamente riuscito (se non a livello commerciale, sicuramente da un punto
di vista artistico). Non solo, infatti, gli Algiers hanno creato un suono
identificativo e immediatamente riconoscibile, ma hanno codificato un genere,
creando un’inaudita miscela che pesca dalla grande tradizione nera (soul,
r’n’b, gospel) rimasticata, però, in chiave post-punk. L’omonimo esordio del
2015 fece, quindi, gridare al miracolo in molti, compreso il sottoscritto: un
disco spiazzante e ricco di pathos, in cui le black roots del profondo Sud
degli Stati Uniti venivano destrutturate sull’asse Berlino-Londra, sotto il
tiro incrociato di un bombardamento noise, goth e industrial. Un po’ come
ascoltare le canzoni della grande Mahalia Jackson suonate (rectius: disturbate)
dagli Einsturzende Neubauten o dai Joy Division. I testi militanti, lo
schieramento hic et nunc tra le fila dell’ultra sinistra, le barricate per i
diritti civili dei neri, tema ricorrente nelle canzoni della band (vedi la
nuova Walk Like A Panther che campiona la voce di Fred Hampton, attivista delle
Pantere Nere ucciso nel 1969) completano l’habitus concettuale di una band che si
pone con orgoglio fuori da ogni logica dello star system. Il sophomore The
Underside Of Power non fa altro che ribadire, sviluppandole, quelle idee. Se da
un lato l’effetto sorpresa è chiaramente venuto meno, è altrettanto vero che la
band non ha affievolito la propria vis iconoclasta, mantenendo dritta la barra
di una musica che veicola temi politici e militanti in controtendenza rispetto
allo smantellamento ideologico (e morale) della società. La saturazione dei
suoni, cupi, metallurgici e in odore di apocalisse, resta un punto fermo di una
scaletta che, tuttavia, aggiunge nuovi elementi alla rabbia dissonante e digitalizzata
che contraddistingue le canzoni degli Algiers. Ecco allora la dolcezza in
formaldeide di Mme Rieux, petali di pianoforte sparsi proprio là, dove prima
erano cadute le molotov; ed ecco il gospel imprigionato nel loop di Hymn For An
Average Man, nenia crepuscolare attraversata da un romanticismo dagli echi
siderurgici. Fingono addirittura ad essere lineari, gli Algiers, ma in fin dei
conti stanno solo mischiando le carte: così le convulsioni northern soul della
title track, che rilegge The Commitments sotto l’algida luce dei neon, giocano
con la melodia e l’inquietudine, ponendosi come unico obbiettivo quello di
dissacrare un genere per tenerlo in vita, potenziandolo con un esoscheletro al
titanio. Così, ancora una volta, gli la band di Atlanta vince la sua battaglia
per la modernità, trasformando il passato, le radici, il pensiero marxista e la
militanza nera in qualcosa che suona nuovamente attuale. Una sportellata ai ben
pensanti musicali, un quadro a tinte fosche di un’umanità in debito d’ossigeno,
un grido di rabbia di chi non vuole arrendersi al degrado etico e al potere
corrotto della politica, e pensa che stare sulle barricate e combattere sia
meglio che crogiolarsi in una muta e rassegnata disperazione: The Underside Of
Power è tutto questo. Un calcio nello stomaco e un’audace prospettiva di
speranza.
VOTO: 8
Blackswan, lunedì 24/07/2017
Nessun commento:
Posta un commento