Uscito
a fine 2015 negli States, l’esordio bomba dei Simo (in realtà c’è anche
album precedente prodotto su bassa scala) è arrivato da noi prima come
eco, poi, finalmente, a fine gennaio 2016, in versione cd e vinile,
trasformandosi fin da subito nell’oggetto del desiderio degli amanti del
rock blues targato seventies. La storia legata al gruppo è una consueta
storia di gavetta, di centinaia di concerti in giro per piccoli locali,
di una partecipazione come seconde linee a un paio di grossi festival, e
del colpo di culo di essere stati notati e messi sotto contratto dalla
Provogue. JD Simo, cantante, chitarrista e leader in pectore della band
(che porta il suo nome) è cresciuto come tanti ragazzini ascoltando i
dischi del papà e cimentandosi precocemente alla chitarra, strumento che
fin dall’età di dieci anni già suonava discretamente. Il blues nel
cuore, una prima band e un Ep dal vivo a distribuzione limitata, la vita
vagabonda del musicista, l’attività di sessionista intrapresa per
sbarcare il lunario, le canzoni tenute nel cassetto, l’incontro con il
batterista Adam Abrashoff e il bassista Frank Swart (ora sostituito da
Elad Shapiro) e, quindi, la nascita dei Simo. Poi, sudore e passione, un
girovagare senza meta fra pub e music hall e finalmente il successo con
Let Love Show The Way. Un disco che nasceva già con le stigmate della
leggenda, visto che fu registrato a Macon, Georgia, nella Big House in
cui vissero per un po’ di tempo gli Allman Brothers Band (Simo, durante
le sessioni di registrazione, ha potuto imbracciare e suonare la mitica
Gibson Les Paul datata 1957 di Duane Allman). Quell’esordio era un disco
di rock blues tagliato hard con spezie retrò anni ’70. Niente di nuovo,
ovviamente, e anzi una scrittura smaccatamente derivativa che si
ispirava alla potenza dei grandi power trio del passato (Cream, Jimi
Hendrix Experience, James Gang e i primi Gov’t Mule), e che citava anche
hard blues anglosassone (Led Zeppelin, Edgar Broughton Band) e southern
(gli Allman e i Black Crowes). Tuttavia, nonostante i Simo
rimasticassero veramente tutto lo scibile del genere, piacquero da
morire per il furore che ci mettevano, per quel fuoco sacro che
accendeva il cuore dell’ascoltatore quando gli strumenti partivano al
galoppo, senza che fosse chiaro fin dove potessero arrivare. Giunti alla
seconda prova in studio, Simo e soci, pur non tradendo il loro
retroterra rock blues (aggiungendo, forse, un pizzico di soul in più),
tentano di mischiare almeno un poco le carte, lavorando molto sul suono
in fase di (auto)produzione. Il risultato è un disco più ragionato e
molto meno immediato e le canzoni finiscono talvolta per invischiarsi in
un eccesso di effettistica, sia nell’uso della chitarra che delle voci.
Quando i ragazzi fanno il loro, cioè quello che avevamo apprezzato nel
precedente Let Love Show The Way, strappano applausi a scena aperta: Light The Candle e Be With You, ad esempio, travolgono con una potenza di suono spinta ai limiti del noise. Per converso, in altri casi, (Return,
per tutte) sembrano perdere il filo della matassa e fare molta
confusione, pasticciando con un genere che sarebbero, invece, in grado
di interpretare al meglio. Chiudono il disco l’inutile acustica The Light, copia carbone di In The Pines di Leadbelly, e I Pray,
pretenzioso rock psichedelico, appesantito da un lungo intermezzo
strumentale (cose che facevano i Led Zeppelin dal vivo quarant’anni fa).
Rise & Shine, dunque, se da un lato ribadisce le grandi potenziali
dei Simo, irresistibili quando giocano la carta dell’immediatezza,
dall’altra testimonia del momento interlocutorio della band che, in
tutta evidenza, sta cercando, con risultati non brillantissimi, di
rimodernare il proprio suono. Non bocciati, certo, ma rimandati al
prossimo disco, si.
VOTO: 6
Blackswan, giovedì 05/10/2017
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