Erano
anni difficili quelli governati dall’esecutivo della signora Thatcher,
anni in cui l’Inghilterra masticava il frutto amaro di politiche di
austerity, che aggredivano i ceti più deboli senza alcuna pietà. Tra gli
artisti che si opponevano alla macelleria sociale del primo ministro
inglese, c’era Billy Bragg, un Woody Guthrie di terra d’Albione che
cantava la propria rabbia contro ogni forma di fascismo e di
prevaricazione. Una militanza, la sua, che non si limitava, però, solo a
belle canzoni di protesta vestite di folk-punk. Bragg ci metteva anche
la faccia, in senso letterale: stava sulle barricate, si faceva
arrestare e prendeva manganellate. Impossibile allora non amarlo,
soprattutto se, a quei tempi, avevi vent’anni, stavi a sinistra e ti era
capitato per le mani un disco favoloso come Talkin’ With The Taxman
About Poetry (1986), zeppo di canzoni da far ribollire il sangue nelle
vene, canzoni che ti scuotevano con la forza di testi diretti, sinceri,
passionari. Oggi, Billy Bragg ha quasi sessant’anni (li compirà il 20
dicembre), si è lasciato alle spalle un’ottima discografia (vado a
memoria, ma non mi ricordo un disco che non fosse ispirato) e
collaborazioni importanti con i Wilco e Joe Henry, ma non è retrocesso
di un passo da quella barricata, sulla quale resta orgogliosamente in
piedi. Illuso, forse, ma ancora combattivo e gagliardamente ancorato a
quei valori marxisti ai quali ha dedicato una vita intera. Bridges Not
Wall, Ep di sei canzoni uscito a inizio novembre via Cooking Vynil,
conferma che Billy non ha smesso di crederci e continua a veicolare
profonde riflessioni in un mondo dove tutti sembrano più preoccupati di
aggiornare la propria pagina facebook invece del proprio bagaglio etico.
Dopo il malinconico e introspettivo Tooth & Nail (2013), disco reso
amaro dalla sofferta perdita del padre, e il successivo Shine a Lights
(2016), in cui, con l’amico Joe Henry, Billy ripercorreva gli snodi
ferroviari del roots a stelle e strisce, il songwriter di Barking torna a
schierarsi dalla parte dei più deboli, ad attaccare il potere
costituito dal capitalismo più sconsiderato, a criticare aspramente il
nuovo corso della politica americana e britannica (Trump e la Brexit nel
mirino), a riflettere su come rendere il nostro mondo migliore e a
spronare la gioventù a cercare una strada diversa, lontano dalla mendace
realtà di uno smartphone. Ponti, non muri: tornare a parlarci, quindi,
accogliere il diverso, riconsiderare la lista delle nostre priorità.
Bragg è uno degli ultimi attivisti, un combattente ideologico che, per
quanto la battaglia sia irrimediabilmente persa, continua nella sua
chiamata alle “armi” con messaggi di speranza, di impegno, di
fratellanza. Solo sei canzoni in scaletta, una distanza breve, certo, ma
densa di contenuti, diretta, civile e necessaria come un film di Ken
Loach (e il pensiero, durante l’ascolto, torna più volte a quel film
straordinario che è I, Daniel Blake). Bragg media fra il suono american oriented delle ballate misurate e dolenti che costellavano Tooth & Nail (King Tide & The Sunny Day Food)
e quel folk scartavetrato dal punk di una sei corde distorta e
icastica, che rappresenta il marchio di fabbrica dei suoi anni giovanili
(Why We Build The Wall). Due le canzoni che ci porteremo a lungo nel cuore: Saffiyah Smiles,
morbida ballata dedicata a Saffiyah Khan, la ragazzina di Birmingham
immortalata mentre sorride in faccia a un nazista durante una
manifestazione dell’EDL, e Not Everything That Counts Can Be Counted (and not everything that can be counted counts)
che racchiude in una melodia pressoché perfetta la summa del pensiero
che anima Bridges Not Walls. Disco imprescindibile per chi ancora ci
crede. Che Dio (e Marx) abbiano in gloria Billy Bragg, il più vero tra
tutti quelli che ci hanno messo la faccia.
VOTO: 7,5
Blackswan, martedì 21/11/2017
2 commenti:
quel disco dell'86 però non potrà mai essere superato. che poi era un genere che a me all'epoca non piaceva affatto.
@ Francesco: vero, a mio avviso uno dei dischi più significativi degli anni '80, sponda britannica.
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