Non
è mai agevole approcciarsi a un nuovo disco dei Punch Brothers: troppo
bravi tecnicamente, troppo alti concettualmente, troppo stilisticamente
elusivi. E poi, c’è Chris Thile, debordante talento e mente sopraffina,
genietto multitasking, che oltre ai Punch Brothers, ha portato al
successo i Nickel Creek, roots band vincitrice di un Grammy Award, e
vanta collaborazioni illustrissime sia in ambito di musica classica
(Yo-Yo Ma su tutti) che in ambito jazz (da ultimo, lo splendido album
dello scorso album in condominio con Brad Mehldau).
Vero
artefice del progetto (ma non dimentichiamo gli altri componenti, Noam
Pikelny, Chris Eldridge, Paul Kowert e Gabe Witcher, tutti ottimi
musicisti), Chris Thile ha introdotto nel suono della band tutti gli
elementi derivanti dalla propria variegata esperienza, stratificando la
solida base bluegrass di partenza con idee innovative e sperimentali. Se
Who’s Feeling Young Now? (2012) e Phosphorescent Blues
(2015), pur nella loro complessità, erano dischi più accessibili,
grazie al tentativo di inserire in scaletta aperture verso il pop (non
dimentichiamo che la band, ad esempio, non ha mai nascosto la propria
passione per i Radiohead, di cui ha coverizzato numerose canzoni), All Ashore
è un disco ostico, di non facile assimilazione, in cui la parte
progressive della formula prende decisamente il sopravvento sulle
sonorità bluegrass (predominanti nel divertissement old time di Jumbo o nel mostruoso sfoggio di tecnica e velocità esecutiva di Jungle Bird).
Se
i due dischi precedenti puntavano maggiormente sulla formula canzone,
questo nuovo full lenght, invece, mette semmai in evidenza l’altissimo
tiro strumentale di una band a cui, per qualità tecniche, estro e
fantasia, il minutaggio limitato dei brani sembra andare decisamente
stretto (non è un caso che le canzoni in scaletta siano più lunghe e
meno lineari del solito).
In All Ashore
c'è per i Punch Brothers l’algida consapevolezza di essere una band che
ha pochi rivali al mondo in quanto a padronanza degli strumenti, cosa
che inevitabilmente suscita la sensazione di trovarci di fronte a un
lavoro tanto spregiudicato quanto ambizioso ai limiti dell’arroganza.
Eppure,
in un quadro di generale ostentazione tecnica, l’ispirazione si
mantiene mediamente alta e le melodie, nascoste talvolta tra le pieghe
di preziosismi tecnicismi, si disvelano dopo qualche ascolto in tutta la
loro cristallina bellezza (su tutte le title track e Three Dots and Dash, decisamente le migliori del lotto). In definitiva, predomina in All Ashore
l’approccio da jam band, in virtù del quale le canzoni hanno minor
rilevanza rispetto alle intuizioni figlie del processo di
improvvisazione.
Non
ci sono dubbi che i Punch Brothers se lo possano permettere, perché in
fin dei conti, questo quinto album in studio, garantisce momenti di
grande suggestione oltre all’inevitabile stupore per virtuosismi di
livello pirotecnico. Un gioco che alla lunga, però, potrebbe stancare,
perché questa musica, così smaccatamente intellettuale e cerebrale, è
accessibile solo a pochi e non riesce a scaldare il cuore.
VOTO: 7
Blackswan, venerdì 17/08/2018
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