Breve
aneddoto introduttivo. L’altra sera, durante una cena, ho messo nel
lettore questo cd, raccontando brevemente ai miei ospiti chi fossero i
Caboose. Alla seconda canzone, erano tutti concentrati nell’ascolto, e
la prima domanda è stata: ma davvero sono italiani? Da quando in Italia
escono dischi così? Ecco il nocciolo della questione: siamo talmente
abituati al niente, che quando ascoltiamo un gran disco, facciamo fatica
a credere che sia un progetto tutto nostrano. La New Model Label,
d’altra parte, da sempre ci ha abituati bene, regalandoci dischi di
grande qualità, che sono un autentico piacere per le orecchie.
Certo,
questi Caboose (nome mutuato da un vagone da un particolare vagone
presente nei treni merci americani) superano anche le più ottimistiche
previsioni, sia per la qualità del suono che per le composizioni, tutte
maledettamente elettrizzanti. La band, composta da Louis De Cicco
(chitarra e voce), Carlo Corso (batteria) e Biagio Daniele (armonica e
dulcimer) (ma danno il loro contributo anche Bruno Belardi e Emanuele
Carulli al basso, e Giovanna Salvo Rossi come backing vocal in un paio
di brani) è all’esordio sulla lunga distanza, ma ha già alle spalle un
Ep, pubblicato sempre l’anno scorso, e, è proprio il caso di dirlo, una
vagonata di concerti, che li ha portati ad aprire per una leggenda come
Watermelon Slim e a partecipare al prestigioso International Blues
Challenge, manifestazione che si tiene ogni anno a Memphis e che vede la
partecipazione dei migliori esponenti del genere.
L’idea
di blues che sta alla base del progetto è in perfetto equilibrio fra
tradizione e modernità, evoca i grandi classici del passato (non è un
caso la cover di Freight Train Blues attribuita a Mississippi
Fred Mc Dowell) nonostante la narrazione abbia i piedi ben piantati nel
presente, sviluppando temi sociali e politici che ci riguardano da
vicino (disoccupazione, sfruttamento, social media, etc), e contamina il
genere arricchendolo con scorie di psichedelia, di spoken word e di un
rock sporco e ansiogeno.
Il
blues dei Caboose guarda in faccia alla notte, possiede lo sguardo
torvo di chi sceglie il rumore e la distorsione evitando accuratamente
ogni forma di compiacimento, deflagra sferragliante attraverso un beat
scarno e affilato come un serramanico, e se distilla gocce di melodia,
lo fa attingendo a piene mani dalla melma più limacciosa del
Mississippi. Un disco che richiama gli umori sulfurei dei Wovenhand, lo
stile drone heavy e le sfasature ritmiche di R.L. Burnside, i riff
meticci dell’hill country blues alla North Mississippi Allstars, ma che
comunque mantiene una propria autonomia estetica e sostanziale. Suona
splendidamente, questo Hinterland Blues, miscelando pochi barbagli di luce (la melodia spoglia della splendida They Call Him Poet) a deragliante furore (Suicide Song) e a mantra oscuri e melmosi (Landslide), centrando poi il bersaglio grosso nella title track, devastante crescendo che trasfigura l’iniziale spoken word in un allucinato sabba notturno senza freni.
Dispiace
solo essersi accorti con colpevole ritardo di un disco così bello, che,
per quanto mi riguarda, sarebbe entrato di diritto nella mia personale
top ten del 2019. Non è, comunque, mai troppo tardi: quindi, fidatevi
del suggerimento e recuperatelo. Chi ama il blues non può proprio
lasciarselo sfuggire.
VOTO: 8
Blackswan, lunedì 11/03/2019
2 commenti:
Sto ascoltando Suicide Song: spacca!!
Subito in rotazione.
@ Lucien: un discone, te lo assicuro!
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