mercoledì 11 novembre 2020

CREED - HUMAN CLAY (Wind-Up Records, 1999)

 


Che il nome dei Creed abbia preso un po' di polvere negli ultimi dieci anni è un’evidenza incontrovertibile; eppure, nel momento di massimo fulgore, a cui si riferisce questo Human Clay, secondo album datato 1999, la band originaria di Tallahassee (Florida) aveva numeri di vendita da capogiro. Un po’ per la capacità di inserirsi e sfruttare al meglio quel filone, definito post-grunge, che nella seconda metà dei ‘90 spopolava, e un po', a Cesare quel che è di Cesare, perché nel mare magnum di quella proposta derivativa e spesso ammorbata da clamorose aperture radiofoniche, la band capitanata da Mark Tremonti ha sempre tenuto dritta, per il breve periodo in cui è stata in vita, la barra della qualità e una fragorosa potenza di tiro.

D’altra parte, e non è una circostanza da poco, i Creed erano il frutto dell’unione di quattro musicisti di straordinaria caratura tecnica: il citato Mark Tremonti, uno dei migliori chitarristi al mondo (che poi darà vita agli Alter Bridge), forgiatore di tonitruanti riff dall’ anima corrazzata di nobile metallo, il cantante Scott Alan Stapp, voce ruvida e timbro luciferino, una vita in bilico fra estasi (patron della With Arms Wide Open Foundation, fondazione per la cura e la salvaguardia dei bambini) e tormento (i problemi legali, l’alcolismo, la sindrome bipolare, un tentativo  di suicidio), il bassista Brian Marshall, vera e propria macchina da guerra, che confluirà a sua volta negli Alter Bridge, e il batterista Scott Phillips (anche lui, successivamente, al seguito di Mark Tremonti negli AB) pirotecnico architetto di controtempi vertiginosi.

Human Clay, secondo disco della band americana, fu un clamoroso successo commerciale (bissato, peraltro, anche dal successivo Wheatered del 2001) ottenendo undici dischi di platino solo in America, facendone poi incetta anche in altri paesi, vendendo fino al 2010 più di dodici milioni di copie (è al cinquantaquattresimo posto dei dischi più venduti di sempre) e portando a casa un Grammy Award per la miglior canzone rock dell’anno per il secondo singolo, With Arms Wide Open.

Numeri impressionanti, per un disco che, come si diceva, surfa alla grande sull’onda lunga del post-grunge, ma lo fa con una qualità di scrittura e una perizia tecnica difficili da trovare fra band, che abitavano lo stesso condominio. Perché, è vero, i riferimenti stilistici al sound di Seattle sono palesi e immediatamente ravvisabili, ma la corazza metal che riveste la musica dei Creed alza l’asticella dell’imprevedibilità e anticipa un suono che avrà, poi, il suo definitivo completamento quando inizierà l’avventura Alter Bridge.

L’opener di Are You Ready? esplicita dichiarazione d’intenti, apre il disco mettendo proprio in chiaro che la rilettura del genere grunge non passa solo dalle radio, ma anche da un magma ribollente di tuoni e fulmini, distorsioni e riff di compattezza siderurgica. Che i Creed guardino a Seattle nessuno lo nega, anzi: Stapp possiede una voce assassina, ma quando l’ammorbidisce sembra il cugino di primo grado di Eddie Vedder, il singolone With Arms Wide Open potrebbe tranquillamente far parte del repertorio dei Pearl Jam (se non fosse per la melodia del ritornello accerchiata da invalicabili muri elettrici), e lo stesso si può dire della successiva Higher, mentre la cupa Never Die ruba, modificandola un po', l’apertura di Feel On Black Days dei Soundgarden.

Non c’è un calo di tensione, non un filler. Il disco spacca, come dicono oggi i giovani, dalla prima all’ultima nota: What If, aperta da un arpeggio di settantiana memoria, è una fucilata in faccia, Stapp che scartavetra ogni possibile accenno di melodia, Tremonti che furoreggia, sparando ad alzo zero riff pesi e distorti. Say I è un saliscendi ansiogeno tra potenza metal e inquietanti intermezzi dal sapore vagamente psichedelico, Wrong Way procede cupa e maligna dondolando sul drumming in controtempo di Phillips, mentre Beatiful, a dispetto del titolo, ringhia con ferocia attraverso il ritornello irruvidito dalla voce luciferina di Stapp.

Il momento migliore della band, però, finisce qui. Il successivo Wheatered fa il botto di vendite, ma la crisi è nell’aria e puzza di redde rationem: Stapp, che beve come una spugna, tanto da non reggersi in piedi, è un problema ingestibile, anche perché a seguito di un incidente, comincia a strafarsi antidolorifici, rendendo ardua la gestione dell’attività live. Così, nel 2004, dopo un anno sabbatico, la band si scioglie, salvo poi riunirsi per un nuovo album (Full Circle del 2009), dalla caratura artistica, purtroppo, assai modesta.

 


 

 

Blackswan, mercoledì 11/11/2020

Nessun commento: