Dopo quasi sette anni, la leggendaria rock band COUNTING CROWS, nominata ai Grammy e agli Oscar, annuncia il nuovo attesissimo progetto, BUTTER MIRACLE, SUITE ONE. Prodotto da Brian Deck, la suite - della durata di diciannove minuti e composta da quattro tracce - uscirà il 21 maggio tramite BMG.
Ad accompagnare l'annuncio, la band pubblica oggi il primo singolo, "Elevator Boots". Scritto dal cantante Adam Duritz,
la traccia racconta di un giovane musicista di una band che trascorre
la sua vita viaggiando in diverse città e incontrando diversi amori. Il
brano incarna ciò che si può provare quando ci si dedica completamente a
una passione, il cui rovescio della medaglia può farti però sentire
vuoto dentro.
I COUNTING CROWS
hanno incantato gli ascoltatori di tutto il mondo per più di due
decenni con la loro intensa interpretazione del rock & roll piena di
sentimento. La band è esplosa sulla scena musicale nel 1993 con l'album di successo multi-platino, August and Everything After. In seguito ha pubblicato sette album in studio, vendendo più di 20 milioni di dischi in tutto il mondo, ed è considerata come uno dei più famosi gruppi di musica rock live. Nel 2004, i Counting Crows hanno conquistato il primo posto nelle classifiche con "Accidently in Love", colonna sonora del film d'animazione Shrek 2. Il successo immediato del brano è valso loro una nomination agli Oscar come "Best Original Song" nel 2005, una nomination ai Golden Globe come "Best Original Song" e una nomination ai Grammy Awards come "Best Song Written for a Motion Picture, Television or Other Visual Media".
Negli ultimi 30 anni, la magistrale scrittura di canzoni del frontman
Adam Duritz ha portato la band al numero 8 nella classifica 2021 di
Billboard Magazine "Greatest Of All Time: Adult Alternative 25th
Anniversary Chart".
Conor O'Brien è orgoglioso di annunciare Fever Dreams, il quinto album dei Villagers in uscita il 20 agosto su Domino. Ultimamente la ricerca di evasione si fa sentire sempre di più e Fever Dreams
la persegue fino ad ottenere un effetto ipnotizzante. É come per iI
migliori dischi, diventa un mezzo di trasporto; ti raccoglie in un punto
e ti lascia da tutt’altra parte.
Scritto nel corso di due
anni, la maggior parte delle canzoni sono state registrate in studio con
la band al completo tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020. Durante i
lunghi e lenti giorni della pandemia, O’Brien ha rifinito le canzoni
nel suo piccolo studio casalingo a Dublino ed in seguito l’album è stato
mixato da David Wrench (Frank Ocean, The xx, FKA Twigs).
Rumoroso,
cattivo, urgente: tre aggettivi che si adattano molto bene all’assalto
sonoro apparecchiato dai ’68. Sono passati solo sei mesi da quando il
duo originario di Atlanta ha pubblicato il suo ultimo lavoro - l'EP Love Is Ain't Dead - ma si vede che i due bad boys avevano materiale a sufficienza per misurarsi anche sulla lunga distanza. Con Give One Take One,
l’impatto ruvido e immediato, la forza stridente, i riff grunge e punk
affilati con la lama del delta blues e le voci rabbiose, tutte, queste,
caratteristiche peculiari della band, raggiungono un livello, come mai
prima, coeso e al contempo diversificato.
Ogni canzone di Give One Take One,
infatti, scatena un'esperienza sonora diversa, ma quegli elementi
fondamentali appena elencati e sempre presenti, blindano ogni brano in
un’armatura temprata dai riff urticanti delle chitarre di Scogin e dalla
furia selvaggia di un’implacabile batteria. Così, dall'introduzione
cruda e blues di The Knife, The Knife, The Knife fino alla chiosa straniante e drammatica di The Storm, The Storm, The Storm, la potenza del groove risucchia l’ascolto in una spirale noise magmatica e caotica.
La
coesione del duo è calibrata e perfettamente in sincrono. La voce di
Josh Scogin (autore di tutte le canzoni in scaletta) è
contemporaneamente sfrenata e controllata, a tratti volutamente stonata,
figlia di un’anarchia apparentemente folle ma in realtà plasmata e
instradata su un percorso sonoro ben delineato. Un timbro che può essere
alternativamente apatico, cool, o carico di maniacale elettricità, che
forgia ogni nota, cantata o gridata, con straordinaria consapevolezza.
La gamma stilistica che prende forma con l’urlo selvaggio che apre il
disco, riesce così ad adattarsi perfettamente tanto alla melodia
sfilacciata di Life and Debt che alla ferocia hardcore di Lovers in Death.
Dal
canto suo, Nikko Yamada plasma il suo drumming, sposandolo con
naturalezza al songwriting schizzoide e alla performance vocale di
Scogin, e sfodera un’incredibile varietà di groove, a seconda del mood
che si trova a interpretare. Stupisce, quindi, veder convivere la
forsennata velocità di Bad Bite con la forza calibrata di Nickels and Diamonds (qualcuno ha detto Stooges?), che risponde con vigore al richiamo della chitarra surf rock di Scogin. Non solo. In The Silence, The Silence, The Silence, Yamada s’inventa anche un ritmo sincopato, mentre nel deragliare sonico di What You Starve e Nervous Passenger
sfodera un’incredibile autorevolezza ritmica, tenendo la mano ferma
quando tutto intorno a lui brucia in un ferale divampare di fiamme.
Non c’è alcuna posa o forzatura, nelle dieci canzoni di Give One Take One:
la cattiveria e la sporcizia funzionano solo perché questi due
ragazzacci possiedono un approccio destabilizzante ma sincero, hanno
idee radicate (e radicali) e un'identità solida come la roccia. Fatevi
risucchiare, allora dalleacque limacciose di questo vorticoso gorgo di rumore: alla fine, vi girerà un po' la testa, ma il divertimento sarà assicurato.
La
canzone più famosa dei Marillion, un brano che ha venduto milioni di
copie e ha scalato le chart inglesi e di mezzo mondo, Stati Uniti
compresi, nasce, strano a dirsi, da un dilacerante senso di colpa e da
un pentimento tardivo. Kayleigh venne, infatti, scritta da Fish,
cantante e paroliere della band inglese, come un tentativo per scusarsi
per alcune relazioni sentimentali del suo passato fatte naufragare per
incuria ed egoismo. Erano anni in cui Fish aveva solo un obiettivo in
testa: sfondare come musicista. Di tutto il resto, non gli importava
nulla, e le donne con cui stava erano più una sorta di corollario alla
propria scalata al successo che partner di relazioni profonde e stabili,
a cui dedicare tempo e devozione.
Kayleigh
è, quindi, una canzone dedicata a tutte le donne che Fish ha
trascurato, a tutte quelle relazioni che sarebbero potute essere
importanti e che invece sono finite, perché prima venivano i Marillion,
la musica, i tour e, il cantante non ne ha mai fatto mistero, la
bottiglia. La canzone è dedicata soprattutto a Kay, una ragazza con cui
Fish aveva rotto in modo brusco, ma di cui sentiva ancora nostalgia. Il
brano, inizialmente, doveva intitolarsi semplicemente Kay. Poi, per
motivi di opportunità, Kay Lee, aggiungendo al primo anche il secondo
nome della ragazza. Tuttavia, visto che il riferimento sarebbe stato
troppo esplicito, il titolo si trasformò in Kayleigh, nome di fantasia
che, dopo l’uscita del singolo divenne straordinariamente popolare in
Inghilterra, tanto che molti genitori chiamarono così i propri figli
femmina appena nati.
Un
vero e proprio fenomeno di massa che, nel 2011, spinse Harry Wallop,
giornalista del Daily Telegraph a scrivere un lungo articolo
sull’eredità sociale lasciata dalla canzone. Dallo studio fatto, emerse
che alcuni nomi, prima mai usati o usati solo raramente in Inghilterra,
grazie alla musica rock erano diventati diffusissimi. Il più diffuso era
proprio Kayleigh, che grazie alla hit dei Marillion, divenne il
trentesimo nome più popolare della Gran Bretagna. Non solo. La cosa
davvero bizzarra è che dal nome Kayleigh ne derivarono altri che ne
erano una storpiatura: Wallop, infatti, contò ben 101 Demi-Leigh, sette
Chelsea-Leigh e quattro chiamate Lilleigh.
Il brano compare nel terzo album in studio dei Marillion, Misplaced Childhood,
che è anche il vertice discografico della prima parte di carriera della
band inglese. Uno straordinario disco di progressive pennellato di pop e
dal suono settantiano, che ha il tema dell’infanzia come filo
conduttore, che sfoggia una progressione irresistibile di canzoni (Kayleight, Lavander e Heart Of Lothian),
che fotografa lo stato di grazia di una band definita come “i nuovi
Genesis”, e che regala a Fish e soci un successo di vendite
sbalorditivo.
Merito
di una canzone di scuse, pervasa dall'amarezza e dal pentimento di Fish
per aver maltrattato Kay, una ragazza la cui unica colpa era quella di
essersi innamorata di un uomo cinico e ambizioso: “Kayleigh, I just
want to say I'm sorry, But, Kayleigh, I'm too scared to pick up the
phone, To hear you've found another lover, To patch up our broken home,
Kayleigh, I'm still trying to write that love song”.
Kay
è morta il 24 ottobre del 2012. E se è certo che il suo nome vivrà in
eterno, viene da chiedersi se abbia mai trovato quell'amore e quella
felicità che la brama di successo le ha portato via.
Ci
sono pochi gruppi o artisti al mondo tanto divisivi come i Greta Van
Fleet, una band che crea opposti e bellicosi schieramenti e che innesca
infinite e fratricide discussioni, non solo sulla qualità artistica
della band americana, ma anche, più in generale, sullo stato del rock ai
giorni nostri. La cosa strana, almeno per chi scrive, è che i Greta Van
Fleet non siano invisi solo a chi questo genere non lo mastica (e
questo è comprensibile) e mai lo masticherà, ma anche e soprattutto a
quei tanti appassionati che dovrebbero fare i salti di gioia per
l’esistenza della band. Sembra quasi, infatti, che proporre del classic
rock nel 2021 (cosa che, peraltro, fanno, meno bene, centinaia di altri
gruppi) venga considerato alla stregua del reato di lesa maestà, come se
quella straordinaria epoca a cavallo fra la fine degli anni ’60 e la
prima metà dei ’70 fosse una sorta di riserva aperta solo a vecchi
rockettari di comprovato pedegree, e non, invece, a giovani ventenni,
vogliosi di imbracciare la chitarra elettrica e fare un po' di casino. E
tutto ciò, francamente, mi pare incomprensibile.
Perché,
cari lettori, il rock non è morto, ma, anzi, proprio grazie a band come
i Greta Van Fleet, gode di ottima salute. Il rock, in realtà, ha solo
ribaltato la sua primigenia prospettiva: se un tempo era un grido di
rivolta contro la famiglia, le istituzioni e una vita irreggimentata e
abitudinaria, oggi è diventato un collante intergenerazionale, che
unisce i giovani di allora e quelli di oggi in una battaglia impari
contro le schiere ululanti del reggaeton e della trap. Se un tempo il
rock era il carburante nobile che smuoveva la gioventù verso un futuro
di lotte, di conquiste e di affermazione di valori anticonformisti, oggi
rappresenta la tradizione, la qualità dell’artigianato, un pampleth di
valori superati ma ancora indispensabili, la resistenza a una società
che sta cambiando troppo velocemente, portandoci via il mondo che
conoscevamo.
Cos’hanno
fatto di male, allora, i Greta Van Fleet, che rappresentano
l’iconografia tradizionale di quel mondo, rinfrescata peraltro da
un’esuberante giovinezza? Sono troppo famosi per essere poco più che
imberbi? Si sono permessi di violare le regole di quella casta di vecchi
scoreggioni che: ”oggi non si fa più musica come negli anni ‘70”?
Può darsi. Anche se, leggendo in giro, la maggior colpa che viene
attribuita a questi quattro ragazzi americani è di essere derivativi,
troppo derivativi. Un’obiezione che, a mio avviso, suona un po' pigra e
un filo capziosa. Perché a voler forzare un po' la mano, si potrebbe
dire che se non vi piace un disco che suona derivativo, è perché non
avete più ascoltato nulla dall’anno domini 1969, o giù di lì. Siamo
sinceri: non esiste al mondo un solo gruppo o un artista che non sia
derivativo. Certo, alcuni lo sono clamorosamente, mentre altri, abili a
forgiare un suono o uno stile, decisamente meno. Perché allora
prendersela con i Greta Van Fleet? Perchéi loro detrattori, sono gli
stessi che sbrodolano sulla discografia, che so, dei Black Crowes, e si
eccitano come facoceri in calore ascoltando Shake Your Money Maker,
facendo finta che i fratelli Robinson non abbiano, con straordinaria
abilità, saccheggiato il songbook di Rolling Stones e Led Zeppelin, che
peraltro sono state due tra le band più derivative della storia?
Fatta questa premessa e esaurito il pistolotto non richiesto, non resta che spendere due parole, siamo qui per questo, su The Battle At Garden’s Gate,
secondo disco in studio dei Greta Van Fleet. Che, sono consapevole con
questa affermazione di attirarmi un considerevole quantitativo di
strali, è un disco della Madonna, di quelli che fai fatica a levare dal
lettore. Queste dodici canzoni sono, infatti, intrinsecamente belle,
sono suonate benissimo e arrangiate meglio, e non ammetterlo, a mio
modesto parere, è semplicemente fare dell’ostruzionismo preconcetto.
La
freccia più acuminata nella faretra dei Greta Van Fleet resta, però, la
capacità di costruire un contesto musicale antico con una freschezza e
una consapevolezza disarmanti. Un immaginario vitale, colorato e
pulsante, che trova il suo filo conduttore in una narrazione carica di
epos e che, certo, paga debito a quegli anni d’oro che tutti conosciamo,
senza però perdersi in un muffito copia incolla. Tanto che
l’affermazione: suonano come i Led Zeppelin, che può essere valida per
un paio di brani, non di più, risulta alquanto deboluccia. I Greta Van
Fleet, in realtà, hanno creato uno stile ben preciso e, soprattutto,
hanno saputo rimodulare quell’esuberanza creativa che spingeva i grandi
musicisti del passato a comporre quelli che oggi chiamiamo classici.
Mettete, allora, il disco sul piatto, chiudete gli occhi e fatevi travolgere dall’iniziale Heat Above:
non solo una canzone, ma un grido liberatorio, una festosa affermazione
d’identità, un vibrante hic et nunc che rinfocola una fiamma che forse
si era affievolita, ma mai realmente spenta. Questi sono i Greta Van
Fleet e questo è il loro suono: lo è nel vorticoso turbinio hippie di My Way, Soon, negli snodi progressive della cupa Age Of Machine, nell’epica travolgente di Built By Nations (questa, si, zeppeliniana al midollo), nella teatralità melodrammatica di Barbarians e negli umori gonfi di romanticismo della languida Broken Bells, una ballata tanto bella da togliere il fiato.
The Battle At Garden’s Gate
non è un disco perfetto, qualche sforbiciata nel minutaggio e qualche
smussatura d’enfasi avrebbero giovato alla resa complessiva della
scaletta; e se Josh Kiszka sapesse modulare meglio quella voce così
acuta, talvolta quasi stridula, ma anche così fortemente caratterizzante
il suono della band, alcuni passaggi ne guadagnerebbero in sobrietà. Ma
sono davvero piccoli difetti, retaggio della poca esperienza e della
giovane età. Quel che conta davvero è poter contare, oggi, su una band
che ha le idee chiare, è consapevole dei propri mezzi e sa dedicarsi
alle proprie canzoni con quella passione e intensità che costituiscono
il cuore pulsante del genere. Scrollatevi di dosso i preconcetti, date
una chance a questi ragazzi e ascoltate il disco: il futuro del rock
passa (anche) da qui.
Liz Phair è lieta di annunciare i dettagli dell’attesissimo album Soberish, il primo nuovo lavoro in 11 anni. Prodotto dal collaboratore di lunga data Brad Wood, che ha diretto la produzione di album come Exile In Guyville, Whip-Smart e WhiteChoclatespaceegg che hanno definito un’intera generazione, Soberish verrà pubblicato il 4 giugno su Chrysalis Records. “Spanish Doors”, brano a cui viene affidata l’apertura dell’album, è ora disponibile. “Parla
del punto di rottura di quella che era fino a poco prima una vita
meravigliosa, quando tutto quello su cui contavi si sgretola”, racconta l’artista. “Ho
preso ispirazione da un’amica che stava affrontando il divorzio, ma
quello che descrivo mi rappresenta. So cosa significhi nascondersi in
bagno mentre tutti si divertono ma il tuo mondo sta cadendo a pezzi. Ti
guardi allo specchio e ti chiedi chi sei, mentre mille dubbi ti
attraversano la mente. Fino a pochi minuti prima eri una persona
completa, fiduciosa, e adesso ti chiedi se riuscirai mai a rivivere
quella magia”. Queste emozioni contrastanti, accompagnate da voce e
melodia, ci riportano alla mente una verità universale: le brutte
notizie hanno un pessimo tempismo.
A quasi 30 anni dalla pubblicazione del suo album d’esordio, Exile in Guyville
(che nel 2020 si è guadagnato un posto tra i 500 migliori album di
sempre su Rolling Stone), Liz ritorna con un nuovo lavoro che sarà in
grado di affascinare i suoi fan più affezionati e allo stesso tempo di
conquistare quel nuovo pubblico giovane e intelligente i cui idoli
contemporanei hanno deciso di intraprendere i loro percorsi artistici
proprio perché ispirati da lei.
Pilastro dell’indie rock negli anni ’90, nel 2003 ha pubblicato per
Capitol Records un album dalle tinte pop che, sebbene le sia costato
delle critiche, ha conquistato un pubblico più ampio e giovane, anche
grazie alla presenza di hit come “Why Can’t I” ed “Extraordinary”, poi
diventate parte delle colonne sonore di film e serie TV. Liz Phair ha
ottenuto ben due nomination ai Grammy Awards e scritto un’autobiografia,
Horror Stories, pubblicata nel 2019 e molto acclamata dalla
critica. Ci troviamo davanti a una chitarrista che è riuscita a trovare
la sua voce e creare le sue personali strutture, una pioniera del
femminismo, un’artista in grado di comporre anche per la TV e il cinema,
un’artista visiva e una cantautrice brutalmente onesta e sincera. Soberish
è un ritratto della Liz Phair dei nostri giorni, che è riuscita a
cogliere tutte le sfumature del suo passato artistico e sintetizzarle in
questo nuovo splendido lavoro dal sound fresco ma allo stesso tempo
familiare, pronto a sfidare l’ascoltatore al primo ascolto e a sedurlo
durante i successivi.
Giunta
al suo quindicesimo album, la pluripremiata singer songwriter canadese
Layla Zoe sforna, per l’ennesima volta, un filotto di canzoni
appassionate e vibranti, concepite durante il 2020, annus horribilis,
che ha lasciato strascichi indelebili nella storia dell’umanità. Un
periodo complicato per chiunque, che la cantante ha messo tuttavia a
buon frutto per scrivere, registrare e pubblicare questo Nowhere Left To Go, un album bellissimo, che mette in mostra le sue incredibili capacità vocali e la sua elevata qualità di scrittura.
Questa
volta, però, si è autoprodotta e ha anche chiamato amici di talento da
tutto il mondo (come Jackie Venson, Alastair Greene, Bob Fridema, Suie
Vinnick, Guy Smeets, Brandi Disterheft e Dimitri Lebel) che hanno
contribuito a dire vita e nerbo a dieci brani in cui blues, rock, folk e
gospel vengono plasmati dalla voce potente e poliedrica della Zoe. Un
disco che conferma, se mai ce ne fosse bisogno, la caratura di
un’artista che ha iniziato a masticare musica fin dai quindici anni, che
ha condiviso il palco con molti degli artisti più iconici del blues,
tra cui John Mayall, Coco Montoya e Walter "Wolfman" Washington, e che
ha anche vinto un European Blues Award come miglior cantante nel 2016.
Nowhere Left To Go
è stato registrato, lo scorso anno, da remoto, nel rispetto del
protocollo pandemico, anche se in realtà è quasi impossibile rendersene
conto, dal momento che le dieci canzoni in scaletta suonano davvero
coese e sono attraversate da una vibrante sensazione di calore, che si
percepisce fin dall’apertura con sfumature gospel di Pray,
scritta in collaborazione con Jackie Venson. Una canzone dai toni
spirituali, carica di pathos, costruita attorno alla voce ispirata e
profonda di Layla e a un intenso drive di pianoforte. Un modo coraggioso
e atipico per iniziare un album, che Zoe usa per mostrare
immediatamente agli ascoltatori, senza artifici e lusinghe, di che pasta
è fatta.
Con la successiva title track, Nowhere Left To Go,
Zoe mostra un volto completamente diverso: è una mid tempo blues/rock
carico di impeto e grinta, il timbro si fa ruvido, travolgente, carico
di energia. Una voce straordinaria, quella della Zoe, capace di cambiare
continuamente registro, duttile e sfaccettata, vero tessuto connettivo
che fa da collante al disco e ipnotizza l’ascoltatore, portandolo
ovunque. Anche fra le braccia funky rock di Don't Wanna Help Anyone,
che fonde mirabilmente, in quasi cinque minuti di durata, Hendrix e Led
Zeppelin, spingendo la tensione al parossismo, e plasmando, nuovamente,
sonorità rock possenti, con la maestria di un’autentica fuoriclasse.
Con
quella voce, la Zoe può fare veramente tutto, e in questi scintillanti
quarantasei minuti ne dà prova, oscillando tra energiche e vibranti
bordate, a momenti più raccolti e intimi. This Love Will Last,
ad esempio, è un divertito R&B vecchia scuola, con la cantante
canadese che tira fuori dal cilindro un’interpretazione ammiccante e
sorniona, Susan è, invece, un blues pianistico spolverato dall’hammond, con la Zoe che morde e accarezza con grande trasporto, Lies, contrabbasso e voce, apre a fumose atmosfere jazzate, mentre Might Need To Fly una ballata dolcemente soul capace di commuovere alle lacrime.
Il finale è lasciato a Dear Mom,
ballata in bilico fra folk e soul, e tenero omaggio di Layla alla
propria madre. Morbida chiusura di un disco denso di pathos e ricco di
colori, in cui ogni singolo nota vibra, ardente, nella luce accecante di
un talento vocale unico. Inutile sprecare paragoni, come molti fanno,
riesumando il fantasma di Janis Joplin. Layla Zoe è Layla Zoe: una delle
voce più bollenti e ispirate del circuito roots.
E’ l’approccio svincolato, libero da schemi, lontano dal prevedibile l’elemento che caratterizza maggiormente Three Little Words,
terzo album solista della canadese Dominique Fils-Aimè. Un disco che
non è scevro da difetti, certo, ma che conquista grazie a uno stile
unico, a trame che, pur nella loro accessibilità, risultano complesse e
stratificate, a una visone d’insieme che sintetizza generi contigui, ma
diversi, con una naturalezza e una classe di livello superiore.
Three Little Words
completa la trilogia di dischi con cui la cantante di Montreal esplora
le radici e la cultura della musica afroamericana. Dopo il debutto
orientato al blues, Nameless (2018), e il seguito orientato al jazz degli anni '60, Stay Tuned!
(2019), questo nuovo lavoro funge da crogiolo dei generi e dei suoni
esplorati in precedenza, ma con il soul al centro della scena.
L’album
è una sorta di macchina del tempo con cui la Fils-Aimè esplora, onora e
omaggia il passato della musica nera, pur mantenendo lo sguardo rivolto
al futuro, sia nei suoni scintillanti che plasmano generi dalle radici
lontane (il soul, ovviamente, ma anche il blues e il Doo Wop), sia nei
testi, impegnati e politicizzati (il singolo Love Take Over è
un inno che celebra la femminilità nera e l’indipendenza della donna),
ma pronti ad aprirsi alla speranza che il mondo, così com’è ora, possa,
un giorno, cambiare (la zuccherina delicatezza di While We Wait).
C’è
tanta bellezza in questo disco ammaliante e seducente, che, però,
talvolta, perde di forza espressiva, invischiandosi in arrangiamenti un
po' troppo patinati e in una forma che ammicca al mainstream,
confezionando con accuratezza canzoni che forse avrebbero guadagnato
maggiormente da un approccio meno levigato.
Per
converso, la voce incredibile della Fils-Aimè catalizza l’attenzione,
rendendo marginale ogni altra considerazione: un timbro profondo e
fumoso, che evoca quello di Nina Simone e che accarezza ogni singola
canzone, rendendola calda e appassionata.
La
resa finale, a prescindere da quanto detto poco sopra, è quella di
un’intrigante miscela di suoni e di emozioni (ascoltate l’equilibrio fra
armonie e percussioni della title track), che pur con le loro peculiarità riescono a fondersi in un lavoro coeso e omogeneo. Una convincente cover del super classico Stand By Me
chiude una scaletta di canzoni brevi e apparentemente pacate, ma, sotto
la superficie, ribollenti di vita e di passione. Peccato: un tocco di
genuinità in più avrebbe portato Three Little Words a lambire vette eccelse. Il disco resta, a ogni modo, l’ottima chiosa di una trilogia che vi consiglio vivamente di recuperare.
La storia di Somethin’ Stupid
potrebbe essere usata come una sorta di vademecum su come
reinterpretare una canzone nel corso dei decenni, restituendole ogni
volta nuova luce e riportandola al successo. E’ il destino dei grandi
brani, evergreen che resistono all’usura del tempo e che negli anni
mantengo intatta la loro originaria bellezza, limitandosi semmai a
cambiare veste formale, così come in ogni decade vengono lanciate una
nuova moda o un nuovo stile.
Somethin’ Stupid
fu scritta nel lontano 1966 da Carson C. Parks, cantautore folk e
fratello maggiore del celebre arrangiatore, produttore e musicista Van
Dyke Parks. La canzone fu originariamente interpretata da Carson in
duetto con la moglie Gaile Foote e inserita nel loro disco d’esordio (il
duo si faceva chiamare Carson & Gaile); il brano, tuttavia, fu
accolto tiepidamente dal grande pubblico e finì per passare presto nel
dimenticatoio.
Gli
addetti ai lavori, però, hanno l’orecchio allenato e lo sguardo
lungimirante. Così, Irving “Sarge” Weiss si accorse subito del
potenziale del brano e lo suggerì all’amico Frank Sinatra, che in quel
momento stava completando le session dell’album registrato in
collaborazione con Antonio Carlos Jobim (Francis Albert Sinatra & Antonio Carlos Jobim).
Il brano piacque subito a “the voice”,
che lo fece ascoltare al produttore della figlia Nancy, Lee Hazelwood.
Costui, si entusiasmò immediatamente, e convinse Frank a registrarlo in
duetto con Nancy, ponendogli uno scherzoso ultimatum:” se non lo fai tu, lo faccio io”.
Venne
così prenotato lo studio di registrazione, ma durante le sessioni,
Sinatra non sembrava aver preso troppo seriamente la cosa, e registrò il
primo take con Nancy, imitando la voce di Donal Duck. Poi, Frank iniziò
anche a fare le bizze: il suono di chitarra di Glen Campbel,
sessionista presente in studio non lo soddisfaceva, e pretese quindi che
fosse chiamato Al Casey, lo stesso chitarrista che aveva suonato
nell’incisione di Carson & Gaile.
Il
pungolo per il take decisivo fu dato da Mo Ostin, patron della Reprise,
che scommise con Sinatra due dollari sulla buona riuscita della
canzone. Scommessa che il grande Frank perse: il duetto fu il maggior
successo di vendite di una canzone interpretata da padre e figlia, prima
piazza nella classifica dei singoli più venduti negli States, prima
piazza in Inghilterra, ultima hit di Frank a entrare nella top 20 e
candidatura ai Grammy Awards dell’anno successivo (poi, vinto dai 5th
Dimension con Up, Up And Away).
La
storia della canzone, però, non finisce qui. Nello stesso anno la
canzone viene ripresa da Marvin Gaye e Tammi Terrell che la inseriscono
nel loro disco di duetti, United. Nel 1995, Ali Campbell
(cantante degli UB40) la reinterpreta in duetto con la figlia Kibibi
Campbell. La cover, che venne inserita nel primo disco solista di
Campbell (Big Love), si piazzò alla posizione numero 30 delle
classifiche inglesi, e addirittura fece meglio in Nuova Zelanda, dove
arrivò al tredicesimo posto.Il botto in termini di vendite, però, lo
fece Robin Williams nel 2001, quando reinterpretò Somethin 'Stupid in duetto con l'attrice australiana Nicole Kidman, che aveva appena esibito le proprie inaspettate doti canore, interpretando Moulin Rouge di Baz Luhrmann.
La canzone apparve nell'album del 2001 di Williams, Swing When You're Winning, e alla fine dell'anno raggiunse la vetta della UK Singles Chart. Somethin’ Stupid
diventò il quinto numero uno di Williams, vendette 98.506 copie solo
nella prima settimana, diventando disco d’oro anche in Australia e Nuova
Zelanda ed entrando nella top ten di quasi tutte le classifiche
europee, Italia compresa.A riprova ulteriore dello stato di salute della
canzone, aggiungiamo solo che Somethin’ Stupid è stata
inserita anche nella colonna sonora di svariate serie televisive (Glee, i
Simpson, etc) e venne reinterpretata nel 2013 anche da Michael Bublè
insieme all’attrice Reese Whiterspoon, la splendida June Carter Cash
del film Walk The Line.
Smith
e Kotzen, due nomi che letti così potrebbero dire poco a chi non
conosce la storia dell’hard rock e dell’heavy metal. Loro due, però,
Adrian Smith e Richie Kotzen, ciascuno nel proprio ambito, sono due
leggende. Smith è, infatti, lo storico chitarrista degli Iron Maiden,
mentre Kotzen, oltre ad avere una lunghissima carriera solista alle
spalle, è stato membro di gruppi come Mr.Big e Poison, mica pizza e
fichi.
I
due, che si stimavano e conoscevano da tempo, hanno stretto un
sodalizio artistico, che ha visto la luce nelle nove canzoni che
compongono questo disco, tutte composte, prodotte e suonate
dall’estemporaneo duo. Che non si è limitato a cimentarsi alla chitarra,
strumento in cui Smith e Kotzen primeggiano, ma ha anche suonato il
basso, la batteria e cantato ogni brano, avvalendosi solo del contributo
marginale dei batteristi Nick McBrain (Iron Maiden) e Tal Bergman
(componente della band che segue Kotzen in tour).
Un
regime autarchico che ha dato frutti nobilissimi, dal momento che il
disco, non solo mette in mostra l’indiscutibile abilità tecnica di due
musicisti straordinari, ma anche un songwriting solido, coerente e
brillante. Per non parlare, poi, delle reciproche performance vocali,
così coese e amalgamate che sembra che i due suonino insieme
praticamente da sempre.
Smith/Kotzen,
veniamo alla sostanza, è un energico disco di rock declinato con
accento hard e blues, in cui, ovviamente, la parte del leone la fanno le
due chitarre elettriche. In un’atmosfera decisamente settantiana, i due
amici si divertono a duellare con le rispettive sei corde, imbastendo
riff muscolari e abbandonandosi a torrenziali assoli, mettendo al
confronto due diverse sensibilità e carature tecniche. Non è però un
mero esercizio di stile né una gara a chi suona meglio: le nove canzoni
sono un trionfo di chitarre, certo, ma non c’è nulla di ridondante; al
contrario, la struttura dei brani risulta perfettamente bilanciata tra
aggressione sonora e melodia, ogni nota ha motivo d’essere, ogni assolo è
proprio lì, dove deve stare. Nessuna canzone è concepita come un tela
bianca su cui i due chitarristi possano dare sfoggio al proprio estro,
perché ogni singolo brano possiede una propria anima, un mood, un suono
che lo distingue dagli altri.
Si parte a cento all’ora con Taking My Chances,
impetuoso hard rock, contornato da un mostruoso lavoro alle chitarre e
spinto da un godibilissimo refrain dal sapore radiofonico, seguito poi
da Running un altro pezzo duro e incalzante, entrambi scelti come singoli trainanti dell’album.
Due
brani che spingono molto sull’acceleratore, forse un po' prevedibili,
ma ottimi per entrare subito nel mood di un disco, che, da qui in
avanti, riserva molte sorprese. La successiva Scars, ad
esempio, rallenta di molto i giri, apre a scenari decisamente più blues,
ricorda alcune cose dei Black Country Communion, grazie anche alla voce
multiforme di Kotzen, che emula perfettamente il timbro di Glenn
Hughes. E dalle parti del rock blues si muove anche Glory Road,
un favoloso mid tempo movimentato dalle schermaglie chitarristiche dei
nostri, perfettamente in sincrono anche nella suddivisione delle parti
vocali.
In un disco praticamente senza sbavature, emergono anche due inarrivabili gioielli: I Wanna Stay, ruvida ballata che svetta per un ritornello irresistibile, e soprattutto You Don’t Know Me,
sette minuti di grande atmosfera in bilico fra rock e blues, in cui la
voce di Kotzen, per magia, si trasforma completamente, sovrapponendosi a
quella del compianto Chris Cornell. Cosa che succede in parte anche
nella conclusiva ‘Til Tomorrow, che chiosa il disco con un memorabile refrain e con l’ennesima battaglia a colpi di assolo.
In
questa prima parte del 2021, i bei dischi rock e metal si sono
sprecati, a partire dal ritorno dei Thunder e dei Dead Daisies e
dall’esordio dei Dead Poet Society. Chi, però, oltre al genere, ama
visceralmente anche la chitarra elettrica, non si lasci sfuggire questa
uscita: è molto probabile che troverà in Smith/Kotzen uno dei suoi album preferiti dell’anno.
Originariamente
prodotta da Danny L Harle e scritta da Rina, Danny e Jonny Latimer, la
potentissima ballad è un’emozionante ode alla famiglia LGBTQ+ che nella
sua nuova veste vede anche la partecipazione del leggendario Elton John,
con voce e piano.
Il
brano è dedicato a tutti quei membri della comunità LGBTQ+ che spesso
vengono allontanati dalla loro famiglia e dagli amici dopo aver rivelato
il loro orientamento sessuale ed è un invito a cercare conforto e
affetto in una famiglia che hanno scelto. Sulla collaborazione, Rina svela: “È
stato un immenso piacere e un onore ritornare su ‘Chosen Family’ con il
mitico Elton John. Questo brano significa molto per entrambi, e non
dimenticherò mai quanto sia stato speciale registrarlo insieme a lui. Ho
avuto i brividi quando ho sentito la sua voce e mi sono emozionata
quando ha aggiunto le parti al piano. Elton è sempre stato di grande
supporto, ancora prima che uscisse l’album, e quando ci siamo incontrati
per registrare questo brano ci siamo intesi immediatamente. Spero che
si possa sentire la magia che si è creata!” Elton racconta: “Quando ho ascoltato ‘Comme
Des Garçons’ per il mio show Rocket Hour, mi sono fermato e ho pensato
‘chi è questa?’. Mi ha rapito sin dal primo ascolto. È nata una bella
amicizia, e per me è stato davvero un onore e una grande emozione
duettare con Rina. È un talento straordinario. Una cantautrice e una
performer incredibilmente brillante e affascinante”. Lo scorso anno, Rina Sawayama ha finalmente pubblicato l’attesissimo e acclamatissimo album d’esordio SAWAYAMA
e la sua versione deluxe, con la produzione di Clarence Clarity (sempre
affiancato da Rina) e co-autori come Nicole Morier (Britney Spears) e
Kyle Shearer (Carly Rae Jepsen).
Quest’anno, dopo una serie di discussioni del BPI che hanno fatto
seguito a un articolo di VICE in merito ai requisiti di idoneità ai
Mercury Prize e al supporto che Elton John ha dato alla causa, Rina
Sawayama si è fatta pioniera del cambio del regolamento dei BRIT Awards e
dei Mercury Prize, affinché gli artisti che vivono nel Regno Unito da
più di 5 anni possano essere idonei alla nomination. Rina è stata quindi
nominata per la categoria “Rising Star”.
Il quinto e ultimo album in studio di Chris Cornell, No One Sings Like You Anymore
è composto da brani scelti e sequenziati dal cantante stesso. Il disco è
stato registrato nel 2016, un anno prima della sua morte, con l'aiuto
del polistrumentista e produttore Brendan O'Brien, e testimonia l’ultimo
percorso artistico che l'ex frontman dei Soundgarden e degli Audioslave
aveva intrapreso: la reinterpretazione di canzoni, alcune assai famose,
originariamente realizzate da artisti diversissimi tra loro, come Harry
Nilsson (Jump Into The Fire), il duo di electro-dance Ghostland Observatory (Sad Sad City) e Prince (Nothing Compares 2 U), per citarne qualcuno presente in scaletta.
Un
disco, questo, che è quasi impossibile ascoltare senza una punta di
feroce nostalgia, senza pensare all’immensa perdita di una delle voci
più importanti della storia, legata al periodo d’oro della stagione di
Seattle e non solo. Un'esperienza di ascolto malinconica e agrodolce,
acuita dal titolo della raccolta, un verso rubato a Black Hole Sun dei
Soundgarden: la presa di coscienza che Chris non è più fra noi, ma anche
l’esperienza impagabile di poterlo riascoltare ancora, di avere ancora
nelle cuffie quella voce sublime, capace di un’estensione e di una
potenza concesse a pochissimi.
Dimenticate,
però, il Cornell più duro e metallico, quello capace di spingere le
note fino alla sommità del cielo in un belluino urlo di guerra grunge.
Cornell sapeva cantare e sapeva cantare tutto. E aveva un’anima ricca e
variegata, capace di misurarsi con suoni estremi, di evocare paragoni
con Black Sabbath e Led Zeppelin, ma anche un artista che sapeva
esprimersi in modo essenziale, quasi folk, solo per chitarra e voce, o
abbandonarsi a derive pop elettroniche e, infine, accostarsi senza paura
al soul, un genere con cui si trovava sempre più a suo agio. C’è molto
di questa consapevolezza nera in No One Sings Like You Anymore,
l’abilità di prendere canzoni - canzoni famose - e di farle proprie,
attraverso un modo di cantare più contiguo al soul che al rock.
Il suo approccio, talvolta è diretto e potente, come nella cover di Nothing Compares 2 U di Prince, che è molto più vicina alla versione grezza di Sinead O’Connor o nella torch song di Lorraine Ellison, Stay With Me Baby, classico soul datato 1966, che forse qualcuno ricorda tornata in auge in una riuscita sequenza di I Love Radio Rock.
Cornell,
però, aveva anche l'ampiezza della visione (alcuni potrebbero chiamarla
audacia) per giocare con la forma, cosa che succede con Get It While You Can di Janis Joplin, trasformata in una festosa sarabanda synth-wave, con Showdown di ELO, che mantiene il cuore soul ma indossa abiti un po' tamarri, e con Watching The Wheels
di John Lennon, che viene spolverata di gioioso ottimismo, un mood in
aperto contrastato con quella depressione che lo affliggeva e che lo
porterà poi alla morte.
La vera peculiarità No One Sings Like You Anymore
è farci comprendere quanto Chris abitasse le sue reinterpretazioni e
plasmasse attraverso la propria sensibilità le canzoni altrui, come se
le avesse concepite lui stesso, come se quelle note fossero state sue,
da sempre.
La sua voce in You Don't Know Nothing About Love
(altro grande classico soul portato al successo da Carl Hall nel 1967) è
a dir poco straordinaria, tutta cuore ed estensione, mentre la cover di
Patience dei Guns N 'Roses si trasforma in una ballata
acustica cupa, minacciosa e inquietante. Due canzoni famosissime, ma
rimodulate completamente da un artista completo, eclettico, passionale.
Il giudizio su No One Sings Like You Anymore
non può prescindere, ovviamente, da un forte effetto nostalgia, che
amplifica il pathos durante l’ascolto della raccolta. Per dovere di
cronaca, se è vero che ci troviamo di fronte a un interprete
straordinario, forse, è altrettanto vero, che a queste canzoni avrebbero
giovato maggiormente degli arrangiamenti più sobri, meno ridondanti.
Non si può, però, avere tutto, ed è già bello così: sapere che Chris,
anche se non c’è più, continua a regalarci la sua musica e la bellezza
cristallina di una voce impossibile.
Una
nuova raccolta di cover prese dalle stesse sessioni di registrazione,
il Volume 2 suggerito dal titolo di questo disco, è già in fase di
realizzazione. Questa volta, però, la scelta e la sequenza dei brani in
scaletta sarà in mano alla famiglia.
I Texas ritornano con il nuovo album "Hi", in uscita il 28 maggio su BMG, che contiene 14 incredibili brani che si collocheranno presto tra i migliori della loro stellare carriera. L’album era già stato anticipato dall’acclamato omonimo singolo in collaborazione con il Wu-Tang Clan, a cui oggi fa seguito “Mr Haze”, un nuovo brano che prende vita da un sample di Donna Summer.
Il decimo album della band nasce da alcuni brani che risalgono alle sessioni di registrazione di White On Blonde
ritrovati nel 2018 da Sharleen Spiteri e dal bassista Johnny McElhone,
che inizialmente pensavano di farne una raccolta di brani “perduti” ma
hanno poi trovato l’ispirazione per scrivere del nuovo materiale. Hi è
uno sguardo al passato, ma con gli occhi puntati al futuro. Tre brani
sono stati composti in lockdown tra la Scozia, il Galles, Los Angeles e
la Svezia. Le collaborazioni includono “Dark Fire”, scritta con Richard Hawley,
una traccia dolce che richiama alla mente l’immagine di un lento al
ballo della scuola, e “Look What You’ve Done”, un duetto classico e
inebriante in cui Sharleen viene affiancata da Clare Grogan (Altered Images).
L’accoppiata
Morrissey/Marr ha prodotto alcune della pagine più importanti del pop
rock inglese, creando un suono che ha fatto scuola e generato schiere di
proseliti e imitatori. Detta in soldoni (non è questa la sede per
approfondire), la premiata ditta era in grado di imbastire impianti
melodici irresistibili (l’inarrivabile tocco della chitarra di Marr), su
cui la voce monocorde e salmodiante di Morrissey declinava testi
profondi, colti, militanti, che scartavano l’ovvio e la banalità, per
tratteggiare con acume e anticonformista lucidità la società britannica
nel decennio buio della macelleria sociale di Margareth Thatcher.
Tra le tante, grandi canzoni pubblicate dagli Smiths in cinque anni di carriera, Still Ill
rappresenta uno dei vertici del songwriting di Morrissey, che parte dal
privato della propria omosessualità e dei propri sentimenti, per fare
un punto, attraverso il filtro della nostalgia, sulla difficile
situazione in cui versa il proprio paese.
Scritta
dal chitarrista e dal cantante, inserita nel folgorante e omonimo album
d’esordio uscito nel febbraio del 1984, e poi, nuovamente, nella
compilation Hatful Of Hollow, pubblicata nel novembre dello stesso anno, Still Ill
racconta lo stato d’animo di chi si trova a vivere in un mondo che lo
respinge, un mondo di cui non comprende più le dinamiche, un mondo il
cui presente è ostile e la cui prospettiva verso il futuro è gretta e
utilitarista.
La
sintesi fra l’intimo dei propri sentimenti e il pubblico dell’analisi
politica trova equilibrio in versi lucidi e toccanti, tra immagini
poetiche e un mordace j’accuse alla società del tempo. Il tema centrale è
quello della nostalgia, il desiderio di fare retromarcia, e trovare nel
passato un’Inghilterra più umana, aperta, compassionevole.
L’incipit, in tal senso, è fulminante: “I decree today that life, Is simply taking and not giving, England is mine, it owes me a living “. La presa di coscienza è definitiva (I Decree)
e non c’è appello, c’è, invece, l’amarezza per i fallimenti politici e
sociali di un paese che sa solo prendere senza restituire alcunchè.
L’inghilterra è mia e mi deve una vita, quella vita che le politiche
della Thatcher stanno rendendo impossibile, non solo agli ultimi e alle
classi sociali più deboli, ma anche a coloro, che come Morrissey (tema
questo ricorrente in tante liriche del cantante) vive con difficoltà la
propria condizione di omosessuale.
Morrissey è solo in una società che lo mette alla berlina o che nel migliore dei casi è totalmente indifferente: “Chiedimi perché”, canta Morrissey nella seconda strofa, “e io ti sputerò in un occhio”.
Come a dire: se non lo sai, se non capisci perché l’Inghilterra, a me, a
te, a tutti, deve una vita, allora sei un indifferente, a cui non devo
alcun rispetto.
Lo
sguardo sul proprio paese e sul presente è arreso, la constatazione del
fallimento è totale, la nostalgia per il passato invasiva. “Ma non possiamo più aggrapparci ai vecchi sogni, No, non possiamo aggrapparci a quei sogni”: tutto è finito, il mondo e la società hanno preso una direzione e non si torna indietro.
Un ulteriore riferimento sociale lo si trova nel verso: “And
if you must, go to work tomorrow Well…For there are brighter sides to
life, And I should know, because I've seen them, But not very often”.
Con la consueta arguzia, Morrissey punta il dito su un’umanità che vive
costretta in un circolo vizioso, in cui ciò che conta è il lavoro, e
non si accorge che ci sono aspetti più luminosi nella vita, che il
cantante ha già vissuto, anche se non troppo spesso. Era l’amore a
salvarci l’anima, ma adesso, in questi tempi bui, anche il più sublime
dei sentimenti ha perso il suo slancio e la sua naturalezza. Lo racconta
Morrissey, con l’immagine più toccante del brano: “Ci siamo baciati
sotto il ponte di ferro, E anche se ho finito con le labbra doloranti,
Semplicemente non era più come ai vecchi tempi, No, non era come quei
giorni. Sono ancora malato?” E’ l’anima ad essere malata, a creare
uno spaesamento interiore, a mettere in dubbio ciò che davvero siamo, a
perderci in un labirinto di domande, alle quali non sappiamo dare
risposta: “Does the body rule the mind Or does the mind rule the body? I don't know”.
Still Ill
è una canzone nostalgica e cupa, un’amara riflessione sul presente che
ferisce e il passato che se n’è andato per sempre. Non c’è un briciolo
di speranza, solo un’ineluttabile presa di coscienza di una società
morente. Eppure, nonostante il mood depresso del tema affrontato, la
canzone possiede uno slancio appassionato e un andamento scattante
grazie al clamoroso riff della chitarra di Marr e all’intricata linea di
basso di Andy Rourke, qui in una delle sue migliori performance di
sempre.
Il
brano resta, a tutt’oggi, uno dei più amati degli Smiths, pur avendo
perso, perché ormai decontestualizzata, la sua forza innodica, quella
capacità, cioè, di fare proprie le istanze di una gioventù britannica
disamorata, e convogliare, con empatia, un malessere, ai tempi, diffuso,
soprattutto nelle quelle classi meno abbienti del paese.
Formatisi a Stoccolma, in Svezia, nel 2006, i Sister hanno debuttato tre anni più tardi con l'EP Deadboys Making Noise, seguito poi da Hated,
il primo album in studio della band, pubblicato nel 2011. Ora, un
decennio dopo, la band svedese rilascia il suo quarto full length, dal
minaccioso titolo Vengeance Ignited. Dall'ultimo album, Stand Up, Forward, March!
(2016), i Sister hanno perso il bassista Martin Sweet che è stato
sostituito da Freddan Hiitomaa (ex Dust Bowl Jokies). Per il resto nulla
è cambiato nella rocciosa line up della band, composta da da Jamie
Anderson (voce), Cari Crow (batteria) e Phil Armfelt (chitarra).
I
Sister vengono spesso etichettati come un gruppo di sleaze metal, ma
questa definizione, pur essendo calzante per parte del loro repertorio,
risulta essere però troppo riduttiva per una band che ha decisamente
molte più frecce al proprio arco. Per dire: il nuovo album Vengeance Ignited
è stato prodotto da Jona Tee, tastierista degli H.E.A.T (una sorta
d’istituzione dell’hard rock svedese), mentre manager della band è l’ex
cantante degli H.E.A.T., Erik Grönwall. Una parentela che ha
evidentemente lasciato qualche influenza, visto che i Sister talvolta
suonano proprio come una versione più rozza e feroce degli H.E.A.T.
Ci
sono anche accenni ad altre band svedesi, come i più celebri Hardcore
Superstar (specialmente nel ritornello della title track Vengeance Ignited)
o dei Crashdiet, ma i Sister sono abbastanza bravi a mescolare le carte
in tavola, mantenendo uno stile che è decisamente peculiare. Hanno il
coraggio di uscire da schemi prefissati, infatti, evitano di rimanere
bloccati in una nicchia musicale predefinita e, pur mantenendo fede alla
loro fama di bad boys, cercano di scartare da dinamiche prevedibili.
Questa band possiede sicuramente un'attitudine punk (Spitfire,
ad esempio, ne è la più lampante dimostrazione) e una propensione a
picchiare duro senza troppi compromessi, ma ci sono anche melodie
fantastiche. Whispering Winds, per dire, è una grande ballata, ruvida e malinconica, mentre brani come Psycho Thrilling e Scream For Pleasure
sono canzoni metal moderne e orecchiabili (prendete l’aggettivo con le
pinze), spinte da ritornelli che si fanno largo fra muri di chitarre e
ritmiche indemoniate. Altre volte ci viene servito uno sleaze rock
classicissimo in stile americano, tuttavia declinato con un approccio
meno cazzaro e più oscuro, che è l’elemento distintivo di una band che
evita banali copia incolla.
Trentasette minuti di adrenalina pura, intervallati da una sola ballata (la già citata Whispering Winds),
che non risparmiano proprio nulla in termini di decibel e di sudore.
Quindi, se fate finta di nulla di fronte alla copertina più tamarra
dell’anno, vi assicuro che troverete in Vengeance Ignited, ottimo pane per la vostra bocca affamata di metal.
Sull’onda del successo dell'album di debutto Forever Blue, infuso di dreampop, post rock e atmosfere crepuscolari, A.A. Williams ritorna con Songs From Isolation,
una raccolta di cover essenziali, in cui la dark lady porta al centro
della scena la sua voce ipnoticamente strutturata e malinconica,
accompagnandosi principalmente al piano. Una rilettura personale, cupa e
scarna, che riflette il periodo tragico in cui queste rielaborazioni
sono state concepite e suonate.
Il progetto inizia con una suggestiva interpretazione di Lovesong
dei Cure, e se nell’originale il tema della lontananza era mitigato
attraverso la dolcezza di un approccio smaccatamente pop, la Williams
mette a fuoco in modo austero il senso di perdita, offrendo
un'esposizione disadorna in cui il dolore della solitudine e
dell’abbandono si fa lancinante.
Where Is My Mind, dal debutto dei Pixies, Surfer Rosa,
è, nella sua forma originale, un esempio del proto-grunge-pop che ha
ispirato il movimento nato a Seattle. Williams elimina, però, il
pirotecnico tiro strumentale e la spavalderia autoironica, incarnando
invece un inquietante senso di dislocazione e confusione.
La Williams trasforma in modo innovativo anche il folk di If You Could Read My Mind di Gordon Lightfoot, come fosse un manifesto neo-noir, e rilegge Creep dei Radiohead rallentandola in modo ipnagogico, per spingere il mood depresso in una stretta claustrofobica.
Qualcosa manca alla sua versione di Knights in White Satin di The Moody Blues, eccessivamente lenta rispetto all’originale e quasi esercizio di stile, mentre la cover Be Quiet and Drive
dei Deftones (band che la Williams porta nel cuore) dà vita alla
rilettura esteticamente radicale e decisamente più intrigante
dell'album.
Quasi impossibile che, parlando di isolamento e di lockdown, non comparisse in scaletta anche una versione Every Day Is Exactly the Same
dei Nine Inch Nails, originariamente proto industrial e nichilista, che
invece la Williams veste di nuovi abiti, evidenziando brillantemente il
senso di insicurezza che sta alla base della canzone, flagellandosi per
i propri fallimenti invece che offrire un ironico commento
sull'insipidezza della vita contemporanea. E’ l’universale che si fa
personale, intimo, privato.
Se Into My Arms di Nick Cave è sospesa in uno sfarfallio atemporale, a cui forse manca il pathos dell’originale, Songs From Isolation si chiude con una versione di Porcelina of the Vast Oceans
degli Smashing Pumpinkins (nove minuti e mezzo l’originale, qui ridotti
alla metà) la cui struttura prog viene smantellata e trasformata in una
dolcissima litania, capace di toccare vertici emotivi inaspettati.
La maggior parte delle cover di Songs From Isolation
risultano davvero spiazzanti, decisi cambi di direzione rispetto agli
originali, figli di una visione e uno stile che stravolgono
clamorosamente ciò che avevamo imparato a conoscere e ad amare. Alcune
sono centratissime, altre meno, ma nel complesso rappresentano
un’impresa ambiziosa e decisamente riuscita. Forse, per qualcuno, questa
scelta intimista, estremamente manichea, potrà risultare troppo pesante
e monocorde. Se si entra, però, nel mood del disco, in questa disperata
narrazione che riflette il buio dei nostri giorni, e ci si abbandona
anima e corpo alla musica, il senso di immedesimazione emotiva risulterà
totale.
I Garbage annunciano il loro settimo album in studio No Gods No Masters, in uscita l’11 giugno su Stunvolume/Infectious Music. La band condivide anche il singolo “The Men Who Rule The World”, il primo estratto dal nuovo lavoro. Il video è stato diretto dal regista, animatore e pittore cileno Javi.MiAmor.
“The Men Who Rule The World”
è un’accusa e una chiamata alle armi, un brano potentissimo che ben
rappresenta la ferocia del nuovo album della band. Una critica
all’ascesa del capitalismo, al razzismo, al sessismo e alla misoginia
che ci circondano ogni giorno, un brano di protesta e una chiara
dichiarazione di intenti di una band che crede ancora nel potere del
dissenso. “Questo
è il nostro settimo album, e il suo contenuto è stato altamente
influenzato dalla numerologia: le sette virtù, i sette dolori e i sette
peccati capitali”, svela la frontwoman dei Garbage Shirley sul nuovo album della band No Gods No Masters, le cui tematiche toccano capitalismo e lusso ma anche perdita e sofferenza. “È
il nostro tentativo di trovare un senso al mondo caotico in cui
viviamo. È l’album che sentivamo di dover incidere in questo momento”. Prodotto dai Garbage e dal collaboratore di lunga data Billy Brush, No Gods No Masters
è nato nell’estate del 2018 nel deserto a Palm Springs. La band si era
riunita in una casa che apparteneva ad alcuni parenti di Steve Marker e
da lì, in due settimane, aveva iniziato a dare una prima struttura
all’album, tra jam session e sperimentazioni. Poi i quattro avevano
preso le demo e avevano iniziato a lavorarci singolarmente, prima di
ritornare a Los Angeles per chiudere insieme il nuovo disco. I Garbage pubblicheranno anche una versione deluxe su CD e in digitale di No Gods No Masters
che include delle cover di brani classici, tra cui “Starman” di David
Bowie e “Because The Night”, scritto da Patti Smith e Bruce Springsteen.
Nella loro versione di “Because The Night”, ai Garbage si unisce anche
la band punk rock americana Screaming Females.
La
versione deluxe contiene inoltre alcuni brani rari dei Garbage come “No
Horses”, “On Fire”, “Time Will Destroy Everything”, “Girls Talk”, “The
Chemicals” e “Destroying Angels”, gli ultimi di quali vedono
rispettivamente la partecipazione di Brody Dalle, Brian Aubert e John
Doe ed Exene Cervenka.
Il vinile standard sarà verde neon, ma saranno disponibili anche il
vinile bianco in edizione limitata sullo store della band e su HMV e
quello rosa in edizione limitata in occasione del Record Store Day di
quest’anno, in uscita il 12 giugno.