Registrato presso i Polar Studios di Stoccolma (quelli resi celebri dagli Abba, per intenderci), In Through The Out Door
è l’ottavo e ultimo album in studio dei Led Zeppelin (il successivo
Coda, datato 1982, è da considerarsi un disco antologico). La band,
infatti, si scioglierà, di lì a poco, in seguito al decesso del
batterista John Bonham, avvenuto il 25 settembre del 1980. In realtà,
però, gli Zep non esistono più già da un po’. Esiliati all’estero da due
anni per problemi riguardanti il fisco (da qui il titolo: attraverso la
porta sul retro, per indicare un ritorno sulle scene complicato e di
basso profilo), i quattro vivono il momento peggiore (ed esiziale) della
loro carriera: i rapporti all’interno del gruppo sono freddini (tanto
per usare un eufemismo), Page sta combattendo la propria battaglia
personale per disintossicarsi dall’eroina e Bohnam è ormai in balia
completa dell’alcolismo, che lo porterà prematuramente nella tomba.
Vista
la condizione dei due, in studio lavorano quasi esclusivamente Robert
Plant e John Paul Jones, il quale fa gran uso del sintetizzatore
polifonico Yamaha GX-1, dando al suono del nuovo album una svolta
pesantemente sintetica. Il disco, che risente di tutti questi problemi
oltre che di un irreversibile calo d’ispirazione, è il punto più basso
di una discografia fino a lì quasi ineccepibile: un lavoro frastagliato e
incongruente, una via di mezzo tra un passato che è lontano ricordo e
tentativi di imboccare nuove vie.
In una scaletta invero assai modesta, spunta però un piccolo gioiello a firma Plant/Page: è All My Love,
una struggente ballad dedicata al figlio di Robert Plant, Karac, morto
nel 1977, a soli cinque anni, per un’infezione intestinale. Un dolore
immenso che non guarda in faccia nessuno: puoi essere una famosa
rockstar, vivere nell’agio e nel mondo rutilante dello showbiz, ma il
peso dello smarrimento continua a opprimerti e l’angoscia per quella
morte immeritata non smette di cercare la strada del tuo cuore ferito.
Le liriche di All My Love sono poetiche e struggenti: “Lui è una piuma nel vento/ Tutto il mio amore per te adesso”,
canta Robert con la voce quasi strozzata dal pianto. E poi, quel verso
finale, così desolato e arreso, presa di coscienza che nulla tornerà
come prima e che quel figlio, tanto amato, se n’è andato per sempre
lasciando un vuoto incolmabile: “I Get A Little Bit Lonely”.
Leggenda
vuole che la canzone fu eseguita solo una volta: troppo destabilizzante
per la fragilità emotiva di Plant, ancora troppo stordente il dolore
per una perdita assurda.
I Band of Horses annunciano il loro sesto album in studio, il loro primo disco dopo una pausa di più di cinque anni: Things Are Great uscirà il 21 gennaio 2022, via BMG.
Ad accompagnare l'annnuncio di Things Are Great, la pubblicazione di “Crutch”,
primo singolo estratto: con un'iconografia simbolica tanto quanto una
litografia di Frida Kahlo, la traccia è uno splendido capolavoro in cui
la chitarra è protagonista e che cattura alla perfezione il motivo per
cui sono ancora una delle band più importanti della loro generazione. Il frontaman Ben Bridwell ha affermato: “I
think like a lot of my songs, ‘Crutch’ starts with something from my
real life. Obviously ‘Crutch’ means some of the things that I was
dependent on. My relationship for one. I think I wanted to say, ‘I’ve
got a crush on you,’ and I thought it was funny how relationships also
feel like crutches. I feel like everybody has had a time when nothing
goes right and you still have to carry on. I think that feeling hits you
in this song even if you don’t know what the specifics are.”. Questa volta Bridwell ha avuto un ruolo più importante nella produzione di quanto non avesse mai fatto in precedenza, producendo o co-producendo ogni canzone dell'album. Ha chiamato alcuni storici collaboratori e amici tra cui Jason Lytle di Grandaddy, Dave Fridmann e Dave Sardy,
ma non sono stati solo loro ad aiutarlo a ottenere il suono che aveva
in mente: per la prima volta ha lavorato con l'ingegnere Wolfgang "Wolfie" Zimmerman. I due si sono capiti immediatamente e questa istintiva empatia la si può notare in tutte le tracce del disco.
Emozionalmente intense le canzoni sono state scritte per la maggior
parte prima che il mondo si chiudesse a causa della pandemia, quando
tutti noi abbiamo dovuto affrontare la nostra mortalità e abbiamo
iniziato a fare il punto della nostra vita. Things Are Great ci
mostra un Bridwell più autobiografico di quanto non sia mai stato,
raccontandoci nel dettaglio le nebulose frustrazioni e le silenziose
umiliazioni che arrivano quando una relazione cambia e ciò che una
persona può fare per sistemare le cose. E cosa fare quando, invece, non
puoi.
Per
buona parte degli ultimi 40 anni, Lindsey Buckingham ha dovuto dividere
il suo tempo tra i Fleetwood Mac e una carriera da solista, che a
tutt’oggi vanta otto album in studio, oltre a un paio di ottimi live. In
alcuni casi, come avvenne per l’ultimo disco in studio dei Mac (Say You Will del 2003), le due carriere si sono inevitabilmente intersecate, se non
scontrate, dal momento che il cantante, compositore e chitarrista, ha
rinunciato al materiale destinato ai propri dischi per mettere il suo
songwriting al servizio della band e migliorar ne lo spessore artistico.
Tuttavia,
dalla sua espulsione dal gruppo nel 2018 (l’acredine con Stevie Nicks
continua ad appiccare incendi) e il successivo attacco di cuore,
Buckingham ha apparentemente avuto più tempo a disposizione per lavorare
sulla musica da solista. In qualche modo, questi recenti cambiamenti
riflettono un nuovo inizio, e in tal senso, il titolo omonimo del suo
settimo album, ne è una esplicita indicazione. Si tratta però di una
ripartenza, dell’ennesimo abbrivio di una storia ormai leggendaria, non
certo di un cambiamento estremo nella direzione musicale intrapresa: lo
scintillante tocco chitarristico è il medesimo, così come l’estro
compositivo con cui Lindsey Buckingham ci consegna lo stesso pop
stravagante che ha illuminato dischi straordinari come, per citare il
più completo, Tusk del 1979.
A
partire dalla pimpante Scream, le sue canzoni vestono solo vestiti più
leggeri, possiedono un’architettura più scarna, ma non sono dissimili
dai suoi contributi alla serie di dischi classici dei Fleetwood Mac
degli anni '70 e '80. Ci sono armonie vocali ping-pong (la deliziosa I Don't Mind), ballate ispirate al doo-wop (Blind Love), echi del passato levigati dal synth, che ricordano il suo debutto solista del 1981, Law and Order (Blue Light), e odi malinconiche all’amata California (Santa Rosa).
Buckingham trova anche il tempo per rivolgersi ai suoi vecchi compagni di band con le parole amare di On the Wrong Side: "Ogni
tanto cado, Ogni tanto mi alzo… Il tempo scorre lungo il strada,
L'amore va su un carro funebre, Eravamo giovani e ora siamo vecchi". Quasi una pietra tombale sui momenti più gloriosi della sua storia e pungente stoccata al suo ex grande amore.
C'è un senso di nuova libertà in questo Lindsey Buckingham, che mancava a Seeds We Sow
del 2011 e al disco di collaborazione con Christine McVie del 2017, che
in realtà doveva essere un album dei Fleetwood Mac, prima che Stevie
Nicks mandasse tutto a monte. Il fatto è che Buckingham, lavorando sa
solo, non deve tenere a freno nessuno dei suoi impulsi più estremi, fa
quel che gli pare, senza dover rispettare rodati clichè. Gli manca,
forse, forse un po' dell'astuzia commerciale che era uno dei motori
propulsivi del successo dei Fleetwood Mac. Ma poco importa: questa
dimensione, più artigianale, dimessa e aggraziata, gli dona egualmente.
Il disco è bello, e questo è ciò che conta, più di ogni altra cosa.
C’è
un film bellissimo, crudo ed estremamente drammatico, che tutti
dovrebbero guardare, perché induce a importanti riflessioni
sull’accettazione della diversità sessuale, un film che parla di odio
per insegnare la tolleranza e l’amore verso il prossimo. S’intitola Boys Don’t Cry
(esattamente come la bella canzone dei Cure, che compare nella colonna
sonora), è opera della regista Kimberly Peirce ed è interpretato da una
strepitosa Hilary Swank, che l’anno successivo all’uscita, nel 2000, si
aggiudica il premio Oscar come miglior attrice. La pellicola è ispirata
alla vera storia del giovane Brandon Teena, transgender biologicamente
femmina, stuprato e ucciso, il 31 dicembre del 1993, da due ex detenuti,
John Lotter e Tom Nissen.
Brandon
Teena nasce, nel 1972, a Lincoln (Nebraska), con il nome di Teena Renae
Brandon. Cresce in un ambiente degradato, ai margini della società. Il
padre, Patrick, muore poco dopo la sua nascita, per cui Brandon viene
cresciuto prima dalla nonna e, dall'età di tre anni, dalla madre JoAnn,
insieme alla sorella Tammy. Nella casa materna, sia Brandon che Tammy
vengono ripetutamente violentate da uno zio, eventi che lasceranno
ferite profonde nell’anima di Brandon, che proprio in quegli anni
dell’adolescenza inizia a vestirsi da uomo e a farsi chiamare Brandon
Teena.
Quella
vita allo sbando e alcuni problemi con la legge, portano il giovane a
fuggire da casa per trasferirsi Falls City, nella contea di Richardson,
dove fa amicizia con Lisa Lambert, Phillip DeVine, Lana Tisdel, e due ex
detenuti, John Lotter e Tom Nissen. Nissen è sposato e ha due figli,
mentre Lana Tisdel e John Lotter sono amici sin dall'infanzia e in
passato sono stati fidanzati.
Brandon,
il 15 dicembre del 1993, viene arrestato per contraffazione e poi
rilasciato su cauzione, pagata da Lana Tisdel, che scopre che l’amico è
in realtà una donna. Dovrebbe mantenere il segreto, ma evidentemente si
lascia sfuggire qualcosa. Durante la festa di Natale del 1993, Nissen e
Lotter denudano e umiliano Brandon, poi lo portano a forza in auto e lo
stuprano. Brandon riesce a fuggire e a denunciare i due, ma la polizia
non prende seriamente il caso. Il 31 dicembre, Tom Nissen e John Lotter
si recano, quindi, a casa di Lisa Lambert, dove Brandon si è rifugiato, e
lo uccidono assieme a Philip DeVine e alla stessa Lambert.
Nissen,
in seguito, testimonierà contro Lotter, ottenendo così l'ergastolo.
Lotter, invece, viene condannato alla pena di morte. Le vicende
processuali dei due, dopo ritrattazioni e appelli, si sono concluse nel
2018, con la conferma delle condanne.
La storia tragica e il destino crudele del povero Brandon hanno ispirato anche i Pet Shop Boys, chequando pubblicano Fundamental
(2006), splendido disco che dà corpo a storie e riflessioni su temi
importanti, quali l’immigrazione, il fondamentalismo religioso (il disco
è dedicato alla memoria di due giovani iraniani omosessuali impiccati
dal regime) e il terrorismo, inseriscono, come B-side del singolo "I’m
With Stupid, Girls Don’t Cry", brano avvolto da malinconia e ricche
partiture dal sapore orchestrale, con cui Neil Tennant e Chris Lowe
omaggiano Brandon Teena.
I versi della canzone sono poetici e toccanti: “Nel
suo cuore, non è nemmeno una rinnegata, dall'inizio sapeva perché non
sarebbe stata salvata, tutto il suo istinto conduce verso una strada
diversa. Nella tasca vicino al suo cuore c'è una polaroid con le
orecchie da cane, una foto di una ragazza con il braccio intorno a un
ragazzo che è scomparso…”.
La
morte di Brandon Teena e quella successiva, e ancora più assurda, di
Matthew Shepard, non furono però vane. Nel 2009, l’amministrazione
americana ha esteso le misure previste dal “1969 United States federal hate-crime law”
ai delitti che hanno alla base l’odio verso l’orientamento o
l’identità sessuale o la condizione di disabilità delle vittime.
Alla
luce delle numerose uscite di quest’anno, alcune delle quali, è fuor di
dubbio, con un taglio fortemente retrò, l’affermazione che il rock è
morto e la chitarra elettrica è finita nello sgabuzzino, suona
decisamente debole. Anzi, il ritorno ai suoni del passato e il recupero
della forza propulsiva di sonorità graffianti sembrano essere tornate
prepotentemente a far breccia nel cuore di band dalla giovane età
anagrafica.
E’ il caso anche di questi cinque ragazzi inglesi, prevenienti da Cambridge, che con Tricks On My Mind
si affacciano sulle scene, dando solida prova di quanto il passato
possa essere riletto, se non con innovazione, quanto meno con fresca
intensità. Tricks On My Mind è l'album che il frontman della
band, il vocalist Leo Roberts, e il chitarrista Piers Mortimer, avevano
in animo di pubblicare fin dal primo giorno in cui gli Sweet Crisis
videro la luce, nel lontano 2015.
Il
percorso è, però, stato più lungo del previsto del previsto, e solo nel
2019, con l’entrata nella line up di Dom Briggs-Fish (tastiere), Matt
Duduryn (basso) e Joe Taylor (batteria), la formazione si è fatta forte e
coesa, le idee più chiare, la volontà più determinata. Il materiale,
certo, non mancava: sei anni di gavetta, oltre a temprare il gruppo alle
fatiche del live act, hanno prodotto un songbook corposo, che in parte
ha visto la luce in alcuni Ep e in parte è confluito in questo primo,
intrigante album in studio.
Un
background solido, nel quale si fondono influenze classiche e moderne
che vanno dai Led Zeppelin, Free and Humble Pie fino a Lenny Kravitz,
The Black Keys e Jack White, solo per citarne alcune. Nonostante le
numerose canzoni pronte all’uso, i ragazzi hanno optato, però, per una
scelta ragionata, evitando di mettere troppa carne al fuoco, ma
allestendo una scaletta di dieci brani che mescola vecchi pezzi,
rimaneggiati, e altri, nuovi, scritti per l’occasione.
Loosen Up
è un’aperura intensa e di grande impatto, trainata da un groove rock
blues potente e psichedelico, che mette subito in luce in luce
l’affiatamento di un band rodatissima. La successiva, più lenta ma più
heavy, One Way Traffic è ugualmente impressionante:
contemporanea, nella sua spavalderia ritmica (Joe Taylor è un batterista
davvero fantasioso) e classicissima nel suo rimando agli Zep, evidente
nel cantato di Roberts e nel tappeto di tastiere in stile John Paul
Jones (e che assolo di chitarra di Piers Mortimer, che ci dà dentro alla
grande con il pedale wah wah). Le atmosfere soul blues di Ain't Got Soul
sono uno dei momenti migliori dell’album, rallentano il passo della
scaletta, mettendo in mostra gustosi effetti d’archi, spigliatezza
melodica e un assolo finale di Mortimer davvero centrato per suono e
intensità.
Se This Guitar, costruita su una nervosa linea di basso, possiede una scintillante anima funky, Karma Will Come riesce a fondere Free, blues sudista e un tocco di gospel, mentre la title track scorre rapida, densa e sporca, su un riff in quota Hendrix. Se i sei minuti e mezzo di Misty Haze,
inseriti nel cuore del disco, partono bluesy e atmosferici e poi
evocano ancora i Led Zeppelin nel concitato finale, il disco si chiude
con altri due brani che danno ulteriore lustro a una scaletta
impeccabile: le atmosfere soul anni ’70 di Love Me Like Sugar, che suggerisce echi Steely Dan, e l’incredibile muro sonoro di Living Life On The Edge,
un groove ossessivo in cui gli Sweet Crisis dimostrano di saperci fare
sia nell’approccio squisitamente strumentale sia nella costruzione dei
brani, con vista su un’ipotetica live jam.
Davvero
una bella realtà, questi ragazzi inglesi, che si sono riappropriati di
un suono dato per morto, fondendo rock, blues, soul e funk, in un mix
fresco, colorato e seducente, ritagliandosi così, tra le giovani rock
band più intriganti del momento, un posto di prestigio. Da seguire con
attenzione.
Ci
sono canzoni così belle che sembra impossibile farne una cover
dignitosa senza danneggiarle. E' quello che deve avere pensato Trent
Reznor, geniale e bizzarro leader dei Nine Inch Nails, quando prestò la
sua Hurt (da The Downward Spiral del 1994) a Johnny Cash, che aveva intenzione di reinterpretarla nel suo progetto American Recording (la trovate nel volume IV, The Man Comes Around).
Evidentemente Reznor, consapevole del fatto che nessuno sarebbe mai
riuscito a dare nuova anima a un brano così intimo e
malinconico, non temeva il confronto con il vecchio musicista, ormai sul
viale del tramonto. Anzi, inizialmente espresse qualche perplessità,
proprio in considerazione della diversità di linguaggio fra le sonorità
industrial proposte dai NIN e quelle di Cash, istituzione nazionale del
più classico roots a stelle e strisce.
Incredibile ma vero, Cash trasformò, invece, Hurt
in quella che, attraverso un referendum tenuto dalla radio BBC 6, fu
votata come la più grande cover di tutti i tempi. Cash, che definì Hurt
la miglior canzone mai scritta contro le droghe, oltre a vestire il
brano di un abito acustico, cambiò una parola del testo al fine di
renderlo meno prosaico e più mistico: invece di pronunciare "I wear this crown of shit " ("Indosso questa corona di merda"), cantò "I wear this crown of thorns" ("Indosso questa corona di spine") con ovvio riferimento alla crocefissione di Gesù Cristo.
Le
liriche del brano introducono una riflessione drammatica sulla
dipendenza e l’annichilimento procurato dall’eroina, che azzera ogni
possibilità di percezione verso l’esterno e un totale straniamento nei
confronti della propria fisicità, mentre in sottofondo, “come un vecchio rimorso o un vizio assurdo” (Cesare Pavese), riaffiora costantemente la consapevolezza di un destino segnato. “Oggi
mi sono ferito, per vedere se provo ancora qualcosa, mi concentro sul
dolore, l'unica cosa reale, l'ago scava un buco, la solita vecchia
puntura, cerco di eliminare tutto, ma ricordo ogni cosa”: la droga
porta via tutto, resta solo il dolore, unico e miserabile appiglio alla
realtà, ultimo ed esiziale afflato di una vita irrimediabilmente
segnata.
La
struggente interpretazione che della canzone ne fa Cash è esaltata
anche dallo splendido video che l'accompagna (fu girato in un solo
giorno dal regista Mark Romanek), una sorta di testamento spirituale di
Johnny Cash, che morì l'anno successivo, nel 2003, poco dopo la sua
amata compagna June Carter. Nel video, un vecchio e provato Man In Black
suona la chitarra acustica e canta con voce grave, mentre scorrono
immagini di repertorio della sua vita e della sua carriera. Una tavola
imbandita evoca le gioie di una vita vissuta intensamente, il vino
versato accentua la spiritualità dell’interpretazione, la presenza
silente di June ricorda la gioia più grande vissuta dal grande musicista
americano.
Nel
finale, mentre anche l’ultima nota evapora, Cash chiude il pianoforte,
come a voler simboleggiare che tutto è finito, la musica e l’esistenza.
Un gesto che racchiude mestizia, nostalgia e consapevolezza, aprendo
l’anima dello spettatore a un fiume di lacrime di vera commozione.
Il
nuovo album di Neil Young & Crazy Horse dal titolo “BARN” uscirà il
10 dicembre 2021 su etichetta Reprise Records, la loro casa fin dagli
inizi. L'album di debutto della band “Everybody Knows This is Nowhere” è
uscito nel maggio 1969. Oggi i Crazy Horse hanno Ralph Molina alla
batteria, Billy Talbot al basso elettrico e il polistrumentista Nils
Lofgren. Lofgren, membro fondatore dei Crazy Horse, ha suonato negli
album “Tonight's The Night”, “After The Gold Rush” e “Trans”.
“Barn” è qui!
Dieci
nuovi brani che catturano lo spirito rock and roll grezzo e
idiosincratico e la bellezza lirica che incarna una classica
collaborazione dei NYCH. Registrato quest'estate sotto la luna piena, in
un fienile restaurato del XIX secolo sulle Montagne Rocciose, la band
era proprio a casa e le splendide canzoni d'amore dell'album, le ballate
riflessive e i rocker potenti hanno preso vita in modo naturale.
Prodotto da The Volume Dealers – Neil Young e Niko Bolas, l'album sarà pubblicato su vinile, CD e versione digitale, incluso l'audio ad alta risoluzione su Neil Young Archives(NYA). Sarà disponibile anche una versione deluxe che include un LP, un CD e un film in Blu-ray
Il film con lo stesso titolo “BARN”
cattura questa leggendaria band nel suo elemento naturale – la natura
selvaggia, il loro umorismo facile, la loro fratellanza, la loro umanità
e naturalmente la musica live, registrata nel loro modo unico e
spontaneo. Un Blu-ray del film diretto da Daryl Hannah sarà disponibile
come versione stand-alone.
A un primo ascolto, si potrebbe essere tratti in inganno e pensare che questo Awakening,
complice anche il nome della band, sia stato partorito nella selvaggia
fauna, magari infestata da coccodrilli, di qualche zona paludosa del sud
degli Stati Uniti. Invece, questi cinque ragazzi (Bjørn Bølling Nyholm,
voce, Jan Geert, chitarra, Thomas Roland, chitarra, Jeppe Birch Friis,
basso, e Kim Langkjær Jensen, batteria), nelle cui vene scorre lo stesso
sangue che corrobora il più duro hard rock di matrice sudista,
arrivano, guarda un po’, dalla Danimarca.
Giunti
al terzo album in studio, i Black Swamp Water ribadiscono di essere una
delle band più cazzute provenienti dal Nord Europa, da tempo vera e
propria fucina di suoni estremi. Il disco parte a cento all’ora con la
cazzutissima "Roll Over", bordata ai confini del metal, che reclama la
paternità dei leggendari Corrosion Of Comformity, con un pizzico di
melodia in più. Una partenza a razzo, seguita dal riff alla Guns di
"Showdown" e dalla sventagliata thrash metal dell’inquietante "Endless
War". I Black Swamp Water sanno, però, rallentare anche il passo, e
scrivere una ballata southern intrisa di blues e testosterone come
l’ottima "Send Me Away".
E’
una breve pausa per rifiatare, prima che il piede pigi ulteriormente
l’acceleratore con "Better Days", in quota punk rock, e col groove
sferragliante dell’ottima "Disappoint Me", brano che, ancora una volta,
richiama alla memoria il sound della band capitanata da Mike Dean.
Che
i cinque danesi guardino anche all’hard rock anni ’70 è del tutto
evidente, come lo è il fatto che sappiano anche maneggiarlo con cura
filologica e appassionata dedizione. Ecco, allora, la splendida cover di
"Children Of The Grave", oscuro doom metal targato Black Sabbath e
pescato dal mitico Master Of Reality (1971), che i cinque ragazzi gestiscono con baldanzosa autorevolezza.
Chiudono
due brani, forse i migliori del lotto, in cui si capisce quanto i Black
Swamp Water, siano in grado di costruire groove irresistibili: "Now
That I Know" e, soprattutto, la conclusiva "Hammer You Down", aggressivo
hard rock blues, che sfocia in un finale a chitarre spiegate, che dal
vivo potrebbe srotolarsi in una sbrigliata jam.
Questi
ragazzi danesi non mettono certo nell’occhiello il fiore della
creatività, eppure compensano con un arsenale di fuoco che ha ben poco
da invidiare a band più titolate. Pertanto, se amate dischi ruggenti e
senza fronzoli, e vi piace il tiro alzo zero delle chitarre elettriche,
questo Awakening fa decisamente al caso vostro.
Villaggio
di Aberfan, Galles. Sono le 9:05 del 21 ottobre 1966, quando una colata
di fango e detriti, provenienti dagli scarti di lavorazione
dell'estrazione del carbone e accumulati sulle colline circostanti,
travolge il centro abitato, uccidendo 144 persone di cui 116 bambini e
28 adulti, quasi tutti all'interno della scuola elementare Pantglas
Junior School.
La
miniera è di proprietà della National Coal Board, l’ente pubblico che
ai tempi gestiva l’industria mineraria del carbone. Lord Alfred Robens,
presidente dell’ente, nega ogni addebito di responsabilità, rilascia
dichiarazioni fuorvianti, occulta insistentemente la verità, che, come
spesso succede in simili tragedie, ha a che fare con l’incuria e
l’incompetenza: enormi cumuli, di roccia sbriciolata e scarti di
lavorazione furono eretti su uno strato di arenaria altamente porosa che
conteneva numerose sorgenti sotterranee, e diversi cumuli furono
addirittura eretti direttamente sopra a delle fonti.
Dopo
alcuni giorni di pioggia battente, centocinquantamila metri cubi di
detriti saturi d’acqua si staccarono da crinale e scesero a velocità
folle verso il villaggio, sommergendolo sotto uno strato di dodici
metri. Nonostante le indagini acclararono le responsabilità dell’ente,
l’azienda non venne multata e nessun funzionario fu perseguito
penalmente.
Questa
tragedia, evitabile e dalle conseguenze esiziali, colpi profondamente
Barry e Robin Gibb, i quali, ispirati dai quei terribili fatti, l’anno
successivo, scrissero New York Mining Disaster 1941. La
canzone, il cui titolo è frutto di pura fantasia, visto che a New York,
nel 1941, non vi fu alcun disastro minerario, immagina la storia di un
minatore che, a causa di una frana, si trova intrappolato nelle viscere
della terra, nella vana attesa di soccorsi che non arriveranno mai.
Rassegnato
a morire, mentre l’ossigeno viene progressivamente a mancare, il
protagonista, alla fioca luce di una lampada a olio, mostra a un
compagno di sventura la foto della moglie che non rivedrà più. “Nel
caso mi succedesse qualcosa, c'è qualcosa che vorrei che tutti voi
vedeste. È la fotografia di qualcuno che conoscevo. Ha visto mia moglie,
signor Jones? Sai com'è fuori? Non parlare troppo forte, causerai una
frana, signor Jones.” Versi che esprimono il disperato bisogno di
aggrapparsi al pensiero della persona più cara, il terrore di perderla
per sempre, la foto come ultimo anelito d’amore prima di essere
inghiottito per sempre nel ventre scuro della terra.
Perché ormai il destino è segnato e le speranze di salvezza sono ridotte al lumicino: “Continuo
a tendere le orecchie per sentire un suono. Forse qualcuno sta scavando
sottoterra, o si sono arresi e sono andati tutti a casa nel loro letto,
perché pensano che quelli che una volta erano vivi ora devono essere
morti.”
Leggenda
vuole che la canzone, contenuta nell’album di debutto del gruppo
australiano, fu scritta da Barry e Robin, mentre erano seduti su una
scala buia alla Polydor Records, a seguito di un'interruzione di
corrente. La circostanza particolare e il ricordo dei tragici fatti di
Aberfan, furono lo spunto per raccontare la triste storia di un minatore
disperato e in punto di morte, mentre il riferimento a New York fu
inserito perché il titolo del brano fosse geograficamente comprensibile a
tutti.
Un
ultimo appunto, che rende più suggestivo l’ascolto della canzone: nella
seconda e nella terza strofa, le linee vocali diventano più lente, come
a voler sottolineare come, ormai, la vita dei minatori fosse giunta al
termine.
Nonostante
le mille difficoltà vissute in questo infausto periodo, il Covid, la
pandemia e il lockdown non sono riusciti a interrompere la sorprendente
traiettoria di questi quattro ragazzi di Wigan, che in una sola
settimana dalla pubblicazione del loro album d’esordio sono saltati in
cima alle classifiche inglesi. Il coronamento, questo, di un anno
vissuto intensamente, passato a raccogliere consensi di artisti del
calibro di Paul Weller e Elton John, e fondi per la squadra di calcio
locale, tolta dagli impicci di una situazione finanziaria complessa,
grazie ai profitti di un concerto a cui hanno assistito più di
cinquemila spettatori (numeri notevoli se si pensa alla breve storia
artistica della band).
Ovviamente,
i Lathums, hanno anche portato a termine il loro album d’esordio,
levigando e perfezionando un pugno di canzoni fresche, divertenti e
godibilissime. Un’ascesa repentina, che qualcuno, non a torto, ha voluto
paragonare a quella degli Arctic Monkeys (che nel 2006, prima ancora di
pubblicare il loro esordio, Whatever Peaople Say I Am,. That’s What I’m Not,
si erano già costruiti un hype da paura), e che vede il quartetto
inglese cimentarsi con un retrò pop che guarda agli anni ’80, quando gli
alfieri di quel suono erano band come gli Smiths e gli Housemartins:
chitarre sbarazzine, melodie irresistibili e la capacità, non da tutti,
di creare irresistibili inni da stadio.
Il disco si apre con Circles Of Faith,
che scorre rapida su una linea di chitarra rubata a Johnny Marr, mentre
il cantante Alex Moore, come novello Morrissey, s’interroga sul senso
dell’esistenza (“All Of These Things They Are Just A Part Of Life, No Matter What You Do, Well The Word Is Turning, Who Am I”). Gli Smiths sono evocati anche nella superba The Great Escape (potreste addirittura prenderla per un inedito della grande band mancuniana) o nella saltellante Oh My God, mentre gli Housemartins vengono evocati nella volatile leggerezza di I’ll Get By o nell’innodica title track.
Passatismo
e nostalgia, certo, ma anche devozione nei confronti di tanti illustri
riferimenti artistici, e, soprattutto, un approccio corroborato da
giovanile entusiasmo, che rende frizzanti e freschissime queste dodici
canzoni dal soffio vitale rinfrancante.
Sa
scrivere, eccome, il leader Alex Moore (autore esclusivo di quasi tutti
i brani in scaletta), e lo fa anche al di fuori di quella che potremmo
definire la comfort zone dei Lathums: il giro di basso che attraversa I See Your Ghost apre le porte dell’ascolto a un inaspettato e salmodiante ska, I'll Never Forget The Time I Spent With You affronta il tema della perdita sul velluto acustico di una melodia zuccherina, Fight On, momento clou dei live act della band possiede la potenza di un vero e proprio inno da stadio, i riff sporchi e distorti di Articial Screens mostrano il lato più rock dei Lathums, mentre la conclusiva The Redemption Of Sonic Beauty è una commovente ballata per pianoforte che sembra uscita dal songbook dei Queen.
Non
è un caso, quindi, che i quattro ragazzi di Wigan, in pochissimo tempo,
siano balzati in cima alle preferenze degli ascoltatori inglesi: questo
è brit pop dal nobile pedigree, declinato con consapevolezza filologica
e restituito alla sua originaria bellezza grazie a una rilucente
scrittura. Per tutti coloro che hanno vissuto in prima persona quella,
ormai lontana, ma leggendaria stagione, l’attrazione verso i Lathums
sarà fatale; tutti gli altri, invece, si troveranno per le mani uno dei
dischi pop rock più divertenti e intensi dell’anno. Non fatevelo
sfuggire.
Sono
tante le canzoni che decantano le gioie dell’amore e l’emozione
dell’innamoramento, ma ce ne sono ancor di più che parlano di amori
agonizzanti o finiti. Questo, perché, spesso, è proprio dal dolore che
si genera l’arte, spinta da quel moto dell’anima che Petrarca chiamava
voluptas dolendi, o creata per arginare, comprendere e rielaborare una
sofferenza che altrimenti non avrebbe altro sbocco che rodere l’anima.
Non è un caso, quindi, che, solitamente, sono proprio gli amori infelici
o impossibili quelli che si ricordano in eterno, mentre le relazioni
che filano lisce, quelle certificate dell’happy ending, sovente
imboccano la strada dell’abitudine e si vestono inevitabilmente di
grigio. Soffrire per amore, evita l’oblio del sentimento, che finisce
per essere cristallizzato in un ricordo imperituro o in un’espressione
artistica, che ha la possibilità di diventare universale e perenne.
Lo
sapeva bene Ian Curtis, il cui amore per Deborah Woodruff, all’inizio
così totalizzante, si trasformò col tempo in un menàge claudicante,
azzoppato dal passo lento dell’abitudine e da quell’artrite feroce che
si chiama male di vivere. Un disagio che per Curtis era aggravato, in
primo luogo, dalle continue crisi epilettiche, un male oscuro che gli
prosciugava le forze, che deformava la sua visione della realtà e lo
inchiodava a un destino di indeterminatezza, e, poi, messo in crisi da
una liason, probabilmente del tutto platonica, con la giornalista belga,
Annik Honorè.
L’amore
per Deborah, che un tempo era in grado di lenire le ferite dell’anima,
era divenuto, a un certo punto, un sentimento ingestibile e ingombrante,
e quel rapporto che aveva sempre posseduto un potere taumaturgico, ora
per Ian traboccava d’astio e di malevoli risentimenti, era solo fonte di
dolore, di incomprensioni e recriminazioni.
“Scorre
aridissimo il nostro rispetto. Eppure c’è ancora questa attrazione che
abbiamo mantenuto nelle nostre vite…E ho un sapore in bocca, mentre mi
attanaglia la disperazione per qualcosa di tanto bello che proprio non
può più funzionare. Ma l’amore, l’amore ci farà a pezzi di nuovo”.
Sono
parole amare, quelle che usa Curtis per raccontare che il suo sogno
d’amore si è infranto e che nulla potrà mai rimettere a posto i cocci
della relazione con Deborah. E’ una dichiarazione di resa di fronte
all’impossibilità di amare e, in definitiva, anche di vivere.
Love Will Tear Us Apart
venne pubblicata postuma alla sua morte e solo come singolo
(successivamente trovò posto in Substance, raccolta datata 1988),
regalando, però, ai Joy Division quel successo commerciale che non
avevano mai raggiunto quando Curtis era in vita. Nel 2002, New Musical
Express, autorevole testata musicale britannica, definisce la canzone il
più bel singolo di tutti i tempi.
Ian
Curtis morì suicida il 18 maggio del 1980, poco dopo aver scritto la
canzone, impiccandosi a una rastrelliera nella cucina della propria
casa, situata al numero 77 di Barton Street a Macclesfield. Lasciò la
moglie Deborah, dalla quale si era ormai separato, e la figlioletta
Nathalie. Aveva solo 23 anni.
È tornato Miles Kane con “Don’t Let It Get You Down”, primo singolo estratto dal nuovo album Change The Show, in uscita il 21 gennaio 2022 su BMG.
Il nuovo singolo ci mostra un Miles Kane al top, energico e contagioso,
e viene accompagnato da un video diretto da James Kelly che vede la
partecipazione di Jimmi Simpson (Black Mirror, It’s Always Sunny In
Philadelphia, Westworld, House Of Cards), attore nominato agli Emmy
Awards.
L’album, che si apre con “Tears Are Falling”, è un viaggio allegro a cui prende parte anche la cantante nominata ai Grammy Corinne Bailey Rae in “Nothing’s Ever Gonna Be Good Enough”.
“Questo nuovo lavoro nasce da un intenso periodo di riflessione, perché
improvvisamente mi sono ritrovato con molto tempo a disposizione”, ha
detto Miles. “Ho scritto brani che parlano di alti e bassi, sogni a
occhi aperti, amici veri e sentimenti profondi. Ho imparato a lasciare
che le cose facciano il loro corso, ma sempre rimanendo fedele a me
stesso”. Change The Show
è un album autentico e affascinante, proprio come lo stesso Miles Kane,
ed è quello che tutti stavamo aspettando. L’apoteosi di tutti i suoi
lavori precedenti, che non mette da parte le influenze del glam e del
rock classico, ma si focalizza anche su Motown, sul soul e sull’R&B
anni ’50.
Mentre
è tutt’ora in corso il reunion tour del trio britannico (al momento
sospeso per problemi legati al covid), i Genesis rilasciano anche
l’ennesima raccolta, la cui scaletta rispecchia in toto la setlist
presentata dal vivo.
Difficile
dare un senso a questa operazione che, alla luce della corposa
discografia della band capitanata da Phil Collins e della sua
leggendaria storia, rappresenta una sorta di gadget celebrativo e nulla
più. Intendiamoci, il giudizio non è relativo al contenuto dei due cd di
cui si sostanzia l’opera, ma all’inutilità dello stesso, visto che di
raccolte, i Genesis, fino ad oggi, ne hanno pubblicate ben nove.
Considerato che, salvo rare apprezzabili eccezioni, il prog è poi un
genere concettualmente troppo lontano dalle nuove generazioni (come,
peraltro, il pop rock da stadio della seconda vita del gruppo), The Last Domino?
è un disco che si rivolge principalmente ai completisti (come il
sottoscritto) o a quei tiepidi appassionati, un po' nostalgici, che non
possedendo dischi della band, colgono così l’occasione per rinverdire i
propri ricordi di gioventù.
Per
quanto riguarda, poi, il contenuto di questi due cd, elegantemente
confezionati in un packaging ricco di foto, si rimane spiazzati
dall’ordine in cui le canzoni sono inserite in scaletta, che è
probabilmente quello tenuto durante i live act, ma che su supporto non
ha alcun senso (meglio sarebbe stata una sistemazione cronologica, per
far capire l’evoluzione artistica del gruppo).
Dalla raccolta, inoltre, sono stati esclusi completamente i primi quattro album (From Genesis To Revelation, Trespass, Nursery Crime e Foxtrot) e l’era Gabriel è rappresentata solo da Selling England By The Pound ("Firth Of Fifht", "I Know What I Like", "Dancing With The Moonlit Knight") e The Lamb Lies Down On Broadway (la title track e "The Carpet Crawlers"), mentre sorprende la totale esclusione di canzoni da The Trick Of The Tail, la prova migliore dei Genesis capitanati da Collins.
Nonostante
un certo rammarico, e non potrebbe essere diversamente, è comunque
piacevole riascoltare questi brani tirati a lucido da un notevole lavoro
di rimasterizzazione, e anche se mancano tante canzoni che i vecchi fan
avrebbero apprezzato, la raccolta ha comunque il senso di mettere in
luce una seconda parte di carriera, decisamente meno brillante, ma
egualmente interessante. Anzi, riascoltando, dopo anni, i brani in cui
la mano pop di Collins ha inciso maggiormente, ci si rende conto che
certi dischi venivano ingiustamente sottovalutati, non tanto per il loro
oggettivo contenuto, quanto per un’inevitabile paragone con gli anni
d’oro della band.
Oggi, col filtro della storia e dei decenni trascorsi (l’ultimo album in studio, Calling All Stations, con Ray Wilson alla voce, risale al 1997), viene da dire che album come Duke, Genesis e, perché no, Invisible Touch,
erano comunque lavori ispirati e ben confezionati, che tante
contemporanee giovani band farebbero carte false per poterli pubblicare a
proprio nome. Così, canzoni come "Mama", e il suo incredibile schema
ritmico ossessivo, "Tonigh Tonight Tonight", "Abacab" o "Domino" suonano molto meglio di quanto ricordassimo.
Matthew
Shepard è un giovane brillante e intelligente, ha ventun anni e
frequenta l’Università del Wyoming. Potrebbe avere un futuro radioso e
ricco di soddisfazioni, ma così non è. Matthew è gay e fatica a
convivere col disprezzo altrui. Matthew, a soli diciannove anni, durante
una vacanza in Marocco è stato aggredito e stuprato, e quell’esperienza
lo ha segnato profondamente, provocandogli depressione e continui
attacchi di panico. Matthew prova a reagire, a trovare la forza per
vivere, ad avere un’esistenza “normale”: esce con gli amici e
frequenta locali, come fanno tutti i giovani della sua età. Ma non può e
non vuole nascondere la propria natura omosessuale, anche se sa bene
che, spesso, la gente è malvagia e ostile verso i presunti “diversi”.
Il
6 ottobre 1998, Matthew conosce due ragazzi in un pub di Laramie. Si
chiamano Aaron McKinney e Russell Henderson, sono simpatici e
amichevoli. I tre fanno amicizia, chiacchierano e scherzano come succede
in quelle serate in cui si è alzato un po' il gomito e anche un
incontro occasionale prende le sembianze di un’amicizia di lunga data.
I
due si offrono di riaccompagnarlo a casa e Matthew, ingenuamente,
accetta. La destinazione, invece, è un posto isolato, un campo appena
fuori città, dove quelli che sembrava due amichevoli ragazzi, si
trasformano in bestie. Non solo lo derubano, ma siccome è uno “sporco frocio”,
lo seviziano atrocemente e lo massacrano di botte, lasciandolo
agonizzante su uno steccato. Qualche ora dopo, un ciclista passa davanti
al campo e vede in lontananza una sagoma che gli sembra quella di uno
spaventapasseri. Prosegue la sua strada, ma poi ci ripensa, perché la
posa innaturale della sagoma gli ha fatto venire un sospetto, e quando
torna sui suoi passi capisce che quello è il corpo di un uomo. E’ il
corpo di Matthew Shepard, che morirà il 12 ottobre, senza aver mai più
ripreso conoscenza.
La
storia, però, non finisce qui, perché non c’è limite all’imbecillità
umana. Il giorno del funerale del povero Matthew, infatti, un gruppo di
omofobi, appartenenti a una chiesa battista della zona, si presenta al
cimitero innalzando cartelli con su scritto: “Matt Shepard marcisce all'inferno” e “Dio odia i froci”.
Quegli stessi fanatici, diventarono, poi, una presenza costante al
processo a carico di Aaron McKinney e Russell Henderson, sostenendo
senza vergogna i due feroci assassini. Ci pensarono gli amici di Matthew
e alcuni militanti delle associazioni per i diritti dei gay, a metterli
a tacere: si vestirono da angeli con grandi ali bianche, e li
circondarono, in modo da renderli invisibili alle telecamere e al
pubblico.
Per
la cronaca, Aaron McKinney e Russell Henderson sono stati condannati a
due ergastoli ciascuno senza possibilità di riduzione della pena.
Melissa
Etheridge, cantante e songwriter americana, nonché appassionata
attivista per i diritti omosessuali e icona della comunità lesbica, fu
colpita profondamente da quel fatto di sangue, tanto da voler dedicare
allo sfortunato Shepard una canzone, che inserirà nel suo sesto disco in
studio, intitolato Breakdown, uscito esattamente un anno dopo la terribile vicenda. Il brano, un ruvido rock in perfetto stile Etheridge, s’intitola Scarecrow,
spaventapasseri, riferendosi al particolare inquietante relativo al
ritrovamento del corpo di Matthew. Le liriche sono crude e dirette,
militanti e rabbiose, quando puntano l’indice contro lo Stato e la
società, straordinariamente poetiche, quando parlano dell’agonia del
povero ragazzo.
L’incipit appassionato è un j’accuse diretto verso le istituzioni: “Il
tuo sangue cremisi filtra come un diluvio su una nazione di menti
ristrette, che legiferano intolleranza sottilmente velata, bigottismo e
odio”. Un’accusa esplicita e scevra da fraintendimenti, ribadita nella seguente strofa intrisa di amara ironia: “Ma
ti hanno torturato e bruciato, ti hanno picchiato e ti hanno legato, ti
hanno lasciato freddo ma ancora vivo, per amore ti hanno crocifisso”.
E’ questa ultima immagine, un ragazzo crocefisso, a riempire gli occhi di sgomento e dolore:” Non
posso dimenticare…questa silhouette contro il cielo, spaventapasseri
che piange, in attesa di morire, chiedendosi perché…Gli angeli
porteranno via la tua anima”. Alla rabbia, segue l’incredulità per
un fatto di sangue tanto orribile, e l’empatia e l’immedesimazione verso
quel povero ragazzo, ucciso solo per immotivato odio: “Questo era
nostro fratello, Questo era nostro figlio Questo pastore giovane e mite,
Questo (ragazzo) senza pretese. Siamo tutti senza fiato, questo non può
succedere qui. Siamo tutti troppo civilizzati. Dove possono nascondersi
questi mostri?”.
E ancora. “Cerco la mia anima, il mio cuore e nella mia mente, per cercare di trovare il perdono…Posso perdonare ma non dimenticherò”.
Esiste una strada per il perdono, si domanda la Etheridge? Forse si, ma
ciò che importa, perché questa morte atroce non sia stata vana, è non
dimenticare. Mai.
La
storia è nota a tutti. A Manhattan, zona Lower East, nel 1965, Lou Reed
e John Cale danno vita ai Velvet Undergound, trovando sponda nella
genialità di Andy Warhol, straordinario artista che anima la scena
sotterranea della cultura newyorkese d’avanguardia. Quando nel 1967, con
un anno di ritardo sulla tabella di marcia, la band pubblica il primo
album, nulla sarà più lo stesso. Velvet Underground & Nico è,
infatti, un disco spartiacque e seminale, figlio degli esperimenti
multimediali di Warhol e di un’ispirazione compositiva che guarda al
futuro con inusitata genialità. La copertina straordinariamente iconica e
un filotto di canzoni strepitose portano la band capitanata da Lou Reed
nella leggenda e il disco diviene punto di riferimento per tutte le
generazioni di appassionati che seguiranno.
Nel
2017, al grande produttore Hal Wilner, che fu anche legato da una
profonda amicizia con Lou Reed, viene l’idea di pubblicare un remake di
quel disco tanto leggendario, coinvolgendo un filotto di artisti a cui
affidare la reinterpretazione delle canzoni in scaletta. Tanti i
musicisti coinvolti: dai veterani Michael Stipe, Iggy Pop e Thurston
Moore, alle più giovani leve rappresentate da Fontaines DC, St. Vincent,
Sharon Van Etten e Kurt Vile, come a voler dimostrare l’universalità di
un disco che lega come un fil rouge decenni di storia della musica. Il
progetto vede oggi la luce anche se, purtroppo, Wilner, non ha potuto
assistere alla sua definitiva realizzazione, essendo morto di Covid lo
scorso anno.
Assodato
che non è possibile replicare il suono e la visione di uno dei dischi
più seminali e iconici della storia, ogni paragone con l'originale
diventa una forzatura inutile e oziosa. Se invece si legge questo
tributo come un omaggio all'opera che ha cresciuto generazioni di
appassionati, il risultato è centrato. Gli artisti chiamati all'arduo
compito reinterpretano con rispetto le undici canzoni della scaletta e
ognuno mette qualcosa di suo per tornare a far risplendere quello che è
giustamente considerato uno spartiacque della letteratura rock.
Qualche
episodio risulta un po' insipido, è vero (Matt Berninger e la sua
rilettura di "I’m Waiting For My Man"), ma prevalentemente siamo di
fronte a un lavoro ben fatto e godibilissimo. Apre Michael Stipe che
offre una "Sunday Morning" meravigliosamente fragile, punteggiata di
svolazzi e turbinii elettronici, Sharon Van Etten rilegge "Femme
Fatale", ammorbidendo l'interpretazione originale di Nico in trame
country lente e ambientali, Andrew Bird, con la complicità dei Lucius,
non sfigura nella sua versione di "Venus In Furs" (privata
della leggendaria linea di viola elettrica di John Cale), eccitandone i
contorni gotici, Thurston Moore e Bobby Gillespie consegnano una
"Heroin" fedelmente graffiante, mentre St. Vincent e il compositore
Thomas Bartlett, azzardano il più possibile, stravolgendo "All
Tomorrow's Parties" in un'interpretazione bizzarra e lontanissima
dall’originale. Chiudono Iggy Pop e il chitarrista Matt Sweeney, che
spingono l’art rock conclusivo di "European Son" verso derive di
febbrile rumorismo.
In
fin dei conti, come si diceva, il risultato è apprezzabile, e la cosa
che più risalta di questo "Specchio" è la capacità di riflettere
l'essenza oscura e sperimentale dell'originale, senza inutili
scimmiottamenti. Ed è incoraggiante sentire che, più di 50 anni dopo, The Velvet Underground & Nico
trova discendenti altrettanto avventurosi e intrepidi, che ne
alimentano ancora lo spirito immortale. Il consiglio, per chi,
inopinatamente, non conoscesse l’opera originale, è di andarla subito a
riscoprire, perché davvero patrimonio dell’umanità. Per tutti gli altri,
questa compilation, è un modo per riavvicinarsi a quel disco
straordinario e stupirsi di come quelle canzoni stiano ancora
meravigliosamente bene, anche se vestite di questi nuovi abiti moderni.
Mike
Mc Cready è il funambolico chitarrista di una delle band di maggior
successo della scena grunge. Con i suoi Pearl Jam ha firmato, infatti,
due capolavori, Ten (1991) e Vs (1993) destinati a
diventare pietre miliari, non solo del Seattle Sound, ma dell’intera
storia del rock. Mike, però, non riesce a gestire un successo così
travolgente e si fa prendere la mano dall’alcol (molto) e dall’eroina
(moltissima). Cammina sull’orlo di un precipizio, Mc Cready, e sono in
molti a scommettere che a breve nel cimitero dei maledetti del rock
verrà piantata un’altra croce. La scimmia dell’eroina è una brutta
bestia e non fa sconti a nessuno, soprattutto a coloro che sono troppo
indulgenti con i propri vizi. Mike, però, è ben consigliato, è
circondato da amici e probabilmente, mi permetto un briciolo di cinismo,
è una risorsa troppo importante per la band di Eddie Vedder per essere
abbandonata al proprio destino.
Così,
sul finire del 1994, Mc Cready parte per Minneapolis ed entra in un
centro per il recupero di alcolisti e tossicodipendenti. Qui, incontra
un altro musicista, un bassista originario di Chicago, chiamato John
Philip Saunders (The Walkabouts), e i due diventano amici. Ripulirsi,
tornare alla normalità, non è affatto semplice. Ma John e Mike hanno
dalla loro la passione per la musica. Così, tra una terapia e l’altra,
si ritrovano nelle loro stanze a suonare e a comporre canzoni. Ai due
nuovi amici, si aggiunge quasi per caso un altro enfant prodige della
scena di Seattle, il cantante degli Alice In Chains, Layne Staley, che
di quel centro è un affezionato ospite da tempo. Se Mike è messo male,
Layne sta molto peggio, visto che di affetti ne ha davvero pochi e la
droga, peraltro, gliela fornisce il padre. Staley, quindi, a Minneapolis
è di casa, da quel centro entra e esce con una continuità sconcertante.
Eppure, quando sta bene, di cantanti come lui, con quella voce
potentissima e quel timbro inconfondibile, in circolazione ce ne sono
pochissimi.
I
tre, potere della redenzione, si prendono subito in simpatia,
umanamente e artisticamente, tanto che in pochi mesi decidono di dare
vita a un progetto musicale. E siccome manca il batterista. Staley, che è
legatissimo a un altro tossico d’antan, Mark Lanegan, leader degli
Screaming Trees, si fa presentare da quest’ultimo Barrett Martin, il
drummer di quella band. Il (super)gruppo con l’entrata di Martin è al
completo e il quartetto si mette alacremente al lavoro. Inizialmente, si
fanno chiamare, con cinica ironia, Drugs Addicts And Alcoholics (un
nome, un programma) e cominciano a suonare al Crocodile Cafè di Seattle,
il locale gestito dalla moglie di Peter Buck, chitarrista dei REM. Ma
quando la Colombia li mette sotto contratto e pianifica l’uscita di un
disco, Mc Cready e compagni devono trovare un nome che sia più
politically correct. Scelgono quindi di chiamarsi Gacey Bunch, nome che,
poco prima dell’uscita dell’album, si trasforma però nel più appetibile
Mad Season.
Above,
viene dato alle stampe il 14 marzo del 1995, e il 1 aprile dello stesso
anno è già al 24esimo posto di Billboard 200, ove permarrà per 27
settimane consecutive. Sarà il primo e ultimo disco di una band
fenomenale, il cui futuro, però, è da tempo già scritto: troppi gli
impegni dei musicisti con i gruppi di provenienza per durare, troppo
tossico Layne Staley per reggere il peso di una doppia militanza.
Nonostante il carattere di opera estemporanea, Above possiede
però le stigmate del capolavoro, e soprattutto oggi, con lo sguardo
distaccato di chi giudica, alla luce dei ventisei anni trascorsi,
quell’epoca musicale nel suo complesso, può essere definito uno dei
vertici del movimento grunge. Forse, addirittura, uno dei più belli, uno
di quelli che condivide il podio della leggenda con Superfuzz Bigmuff dei Mudhoney, Ten dei Pearl Jam, Dirt degli Alice In Chains e, ovviamente, l’acclamatissimo Nevermind dei Nirvana.
Eppure, a ben ascoltare, Above
non è un disco propriamente grunge. L’avventura di Seattle è ormai agli
sgoccioli e si delineano in lontananza le prime fila di quel pessimo
rigurgito radiofonico che porterà il nome di post grunge. Soprattutto,
però, l’alfiere del movimento, Kurt Cobain, si è tolto la vita l’anno
prima, mettendo fine, senza appello, ai sogni di quella generazione di
belli e dannati, che prende il nome di generation X.
Above
è quindi il disco del tramonto di un’epoca, una pietra tombale,
un’orazione funebre o un canto del cigno. Chiamatelo un po’ come volete,
ma il senso è questo. I Mad Season sono già oltre il grunge eppure ne
declamano ancora le gesta con il verbo crepuscolare e nostalgico di chi
sta conoscendo la decadenza.
Una scaletta breve ma intensissima, i cui picchi memorabili sono il blues maligno di Artificial Red, in cui si compie un incestuoso amplesso fra Muddy Waters e i Black Sabbath, le abrasioni rock seventies di I’m Above, con Mark Lanegan al controcanto baritonale, Layne che ringhia rabbioso e Mc Cready che prima cita Ten e poi delizia le orecchie con un arpeggio acustico di straniante bellezza, e il jazz sfocato e sonnambulo dell’immensa Long Gone Day,
in cui le voci di Lanegan e Staley si fondono in un abbraccio di
sulfurea intensità. Il contorno a questi capolavori è comunque di ottima
qualità (a parte l’inconcludente finale di All Alone), e un singolo a presa facile come River Of Deceit regalerà alla band non poche soddisfazioni anche in termini commerciali.
E poi, c’è lei, Wake Up,
canzone che apre il disco e suggerisce il senso di tragedia (artistica)
imminente che permea l’intero disco. Layne, mai così intenso, recita la
propria dichiarazione d’amore all’eroina: “Sveglia giovane uomo, è tempo di svegliarsi, la tua storia d’amore deve andare avanti, da dieci anni, da dieci lunghi anni”.
La dipendenza come una lunga storia d’amore, dalla quale è impossibile
retrocedere, nonostante la consapevolezza che quella dell’eroina è una
strada che porta dritta all’inferno (“Il lento suicidio non è la via, il lento suicidio non è la via da percorrere”).
L’incedere
del brano è lento e avvolto da una nebbia ipnagogica, ma presto
accelera, conducendo i languori agrodolci dell’inizio verso il torrido
climax centrale che rimastica antiche scorie grunge e sublima per
l’ultima volta la gloria che fu.
Il
testo premonitore è solo uno dei tanti in cui Staley affronta i
fantasmi della propria dipendenza e la sua intrinseca debolezza: da un
lato, la volontà di vivere, dall’altro, l’incapacità di essere
abbastanza forte per farlo. Un tormento che lo accompagnerà per gli anni a venire, fino a quel 5 aprile 2002, quando un’ultima dose di eroina mise
fine alle sue sofferenze, spingendolo verso un sonno eterno dal quale
non si risveglierà mai.
I Parcels annunciano oggi l’attesissimo secondo album Day/Night, in uscita il 5 novembre su Because Music. Guarda il video di "Somethinggreater".
L’ambizioso
doppio album è stato registrato ai La Frette Studios di Parigi e
prodotto dagli stessi Parcels, con gli arrangiamenti curati da Owen
Pallett e James Ford al mixer. Day/Night, che
include gli ultimi singoli “Free”, “Comingback” e “Somethinggreater”,
sarà disponibile su tutti gli store digitali, su doppio CD e doppio
vinile.
Il
nuovo cinematografico lavoro intreccia western folk e pop classico e il
risultato è un sound del tutto nuovo che la band descrive come “cowboy
disco”. Day/Night
affronta tematiche in netta contrapposizione, come l’identità e
l’anonimia, la famiglia e l’indipendenza, il senso di appartenenza e
l’isolamento, la nostalgia e la proiezione verso il futuro. È un album
perfettamente ciclico che rappresenta l’interiorità, l’esteriorità e la
costante evoluzione del mondo naturale. Comporlo, per la band, è stato
un “viaggio emotivo”, anche perché i Parcels avevano ben 150 demo su cui
lavorare. “La prima cosa che abbiamo fatto è stata tornare in sala
prove per tre mesi e reimparare a suonare gli strumenti. Stando in tour e
suonando ogni sera gli stessi pezzi ci stavamo irrigidendo, non
comunicavamo più con i nostri strumenti. Una volta tornati in sala
prove, abbiamo ascoltato i brani che ci piacevano e parlato dei diversi
elementi che li componevano, poi abbiamo imparato a suonarli: c’era
blues classico, soul, folk, funk e heavy metal”.
Sono partiti da uno scrigno magico di registrazioni grezze per
scegliere quelle da portare ai La Frette Studios di Parigi. “Siamo
arrivati a 40, e poi abbiamo creato una tracklist che avesse un senso.
Abbiamo fatto la scelta più giusta. Lavorando su ‘Overnight’ con
Guy-Manuel e Thomas dei Daft Punk abbiamo imparato che bisogna mettere
energia nella musica. Non si tratta di individui, ma della somma delle
nostre parti”.