martedì 31 maggio 2022

SPIRAL SKIES - DEATH IS BUT A DOOR (AOP Records, 2022)

 


A distanza di quattro anni dall’ottimo esordio Blues For A Dying Planet, tornano gli svedesi Spiral Skies, con un disco che, pur ricalcando le sonorità contenute nel primo lavoro, ne accentua decisamente gli spigoli più hard. Se la base portante del suono della band è la psichedelia degli anni ’70, declinata sul confine che separa rock e folk, Death Is But A Door mescola maggiormente le carte, inserendo elementi hard rock, metal (con riferimento alla NWOBHM) e doom.

L'album si apre con "The Endless Sea", che inizia con un arpeggio sognante e la calda voce di Frida Eurenius (il cui timbro è una via di mezzo fra quello di Grace Slicks e quello di Annie Haslam dei Renaissance) e che poi si sviluppa su riff di chitarra elettrica granitici e una massiccia sessione ritmica. Arricchito dai cambi di tempo, il brano mescola sonorità anni '70 con il tocco personale della band, esaltando il talento della cantante e mettendo in evidenza la capacità degli Spiral Skies di creare atmosfere coinvolgenti con passaggi stilistici raffinati.

Riff di chitarra fuzzy aprono “While the Devil Is Asleep”, un brano caratterizzato da continui cambi di tempo, che apre nuovamente una finestra temporale sui primi anni '70. Qui, le parti più delicate si intrecciano con quelle più dure, e la voce della Eurenius e la chitarra offrono un buon inserto solistico nell’incedere strumentale. "Into the Night" inizia con una batteria galoppante e una linea di basso accelerata, mentre i ruvidi riff di chitarra evocano l'energia del Metal anni '80 con un tiro energico e coinvolgente.

La traccia più breve dell'album, "Somewhere in the Dark", possiede un approccio più moderno, con ritornelli corali coinvolgenti e un buon piglio melodico, mentre "Heart of Darkness" presenta riff di chitarra ispirati al doom, e un mood più oscuro, che ricorda i maestri del genere dei primi anni '70 (ogni riferimento ai Black Sabbath è puramente casuale). Un brano molto intenso, che esalta le doti vocali della Eurenius e si sviluppa attraverso riff pesanti e coinvolgenti, mentre il ritmo, in continuo mutamento, è caratterizzato da improvvise accelerazioni che aumentano l'intensità del brano.

Se “Nattmaran” prosegue su una cupa scia doom con accenti fortemente psichedelici, "Time" si apre, invece, con un morbidissimo arpeggio di chitarra, parte lenta, avviluppata nel cantato pieno di pathos di Frida e poi cresce d’intensità in una seconda parte più acida, in cui sono ancora i cambi tempo a farla da padrone. “Mirage” mescola psichedelia e rock, evocando gli anni ’60 e un vago clima far-west, mentre la conclusiva “Mirror Of Illusion”, con il suo incedere epico e bluesy riporta ai giorni nostri atmosfere rock anni ’70, con ottime trame di chitarra e la consueta voce calda ed espressiva.

Death Is But A Door è chiaramente un disco per nostalgici, completamente immerso in atmosfere antiche e citazioni continue, che suscitano spesso la sensazione del deja vù. La mancanza di originalità è comunque compensata dalla capacità della band di gestire ogni singolo brano con abili cambi tempo e un apprezzabile lavoro sulle chitarre elettriche, esaltati dalla straordinaria voce della Eurenius, che è l’elemento distintivo di un suono prevedibile ma plasmato con sapienza e passione.

VOTO: 7

 


 

Blackswan, mercoledì 31/05/2022

lunedì 30 maggio 2022

EASY LOVER - PHILIP BAILEY feat. PHIL COLLINS (Columbia, 1984)

 


E’ il 1984, quando Phil Collins, che vive un momento d’oro della carriera grazie all’exploit dei suoi dischi solisti (Face Value e Hello, I Must Be Going!), viene chiamato a produrre il nuovo disco di Philip Bailey, musicista noto per essere la voce degli Earth, Wind And Fire. Il disco, che s’intitola Chinese Wall, grazie anche all’apporto del leader dei Genesis (che vi suona anche batteria e tastiere), ha un ottimo riscontro commerciale e di critica, e si guadagna anche una nomination ai Grammy per la miglior interpretazione vocale R&B maschile. E' però il singolo Easy Lover, cantato da Bailey proprio in duetto con Collins, a fare sfracelli, diventando disco d'oro e piazzandosi alla posizione 2 di Billboard 200, subito dietro a I Want To Know What Love Is dei Foreigner.

L’idea per la canzone venne a Bailey che, verso la fine delle sessioni di registrazione, chiese al batterista di provare a incidere qualcosa insieme. Detto, fatto. I due si attardano in studio ben oltre l’orario di lavoro e cominciano a jammare, fino a quando, piano piano, si trovarono ad avere in mano una strofa, poi, un’altra, quindi, un ritornello e un groove irresistibili. Che il clima fosse rilassato e divertito, e che i due, dopo aver lavorato insieme parecchie settimane, avessero trovato una perfetta sintonia, è del tutto evidente nel tiro melodico del brano, così sbarazzino, leggero, eppure carico di una vibrante adrenalina, e nel video che lo accompagna, in cui i due musicisti gigioneggiano come amici di lunga data.  

E fu proprio il feeling fra Bailey e Collins a far scattare la scintilla per le liriche del brano, in cui viene rappresentato l’immaginario dialogo fra due amici riguardo a una Easy Lover, espressione gergale per indicare una mangiatrice d’uomini, una donna che gioca con i sentimenti dei suoi innamorati, per poi scaricarli senza pietà. Uno dei due, che è stato appena lasciato da questa splendida ragazza, e ha evidentemente il cuore in pezzi e il morale a terra, cerca di avvertire l’altro che, a sua volta, se ne è innamorato, e lo mette in guardia, lo invita a desistere dal fare stupidaggini: “Prima che tu te ne accorga, sarai in ginocchio…Ti prenderà il cuore, ma tu non lo capirai. Nessun altra è come lei. E sto solo cercando di farti vedere, è il tipo di ragazza che sogni, che sogni di tenerti stretta. Faresti meglio a dimenticarla. Non lo capirai mai, lei giocherà e ti lascerà. Lasciarti e ingannarti…”.

E ancora: “Faresti meglio a dimenticarla, Non lo capirai mai Perché lei dirà che non c'è nessun altro, Finché non ne troverà un altro. Meglio dimenticarla, o te ne pentirai. E non cercare di cambiarla, lasciala, lasciala”. Cosa, poi, sarà successo non si sa: l’amico non risponde e non è dato sapere se abbia seguito il consiglio del suo interlocutore o se, nonostante tutto, abbia preferito seguire il suo istinto. Poco importa, vien da pensare, uomo avvisato, mezzo salvato, affari suoi.

Quel che importa, invece, è che Easy Lover resta una divertentissima canzone, di quelle che alzano il tono dell’umore e insufflano l’anima di vibrante energia, grazie anche al fantastico assolo di chitarra eseguito da Daryl Stuermer, collaboratore di lunga data e amico fraterno di Phil Collins.

 


 

Blackswan, lunedì 30/05/2022

venerdì 27 maggio 2022

BONNIE RAITT - JUST LIKE THAT...(RedWing Records, 2022)

 


Just Like That è il diciottesimo album in studio della venerata cantautrice e chitarrista americana, Bonnie Raitt, e arriva a sei anni dalla sua ultima fatica, il convincente Dig In Deep. Un nuovo lavoro che, come molti usciti in questo periodo storico, è inevitabilmente figlio della pandemia e di una società che, per ovvi motivi, ha cambiato profondamente i lineamenti del proprio volto.

Anche la Raitt ha subito forti ripercussioni a seguito del Covid, perdendo amici e mentori, affetti e persone a cui non ha potuto dire addio. Non è un caso, allora, che la malattia getti ombra sulla maggior parte delle canzoni di Just Like That, anche su quei brani che parlano d’altro, magari d’amore. A volte, la maledetta pandemia occupa ogni spazio con la sua inquietante presenza, in altri casi, invece, è un tragico spunto che aiuta semplicemente ad approfondire la comprensione di quanto l’esistenza umana sia incerta e caduca. "Non credo che torneremo quelli di una volta", canta Raitt in "Livin' for the Ones", uno dei quattro brani originali di questo album, "Inutile cercare di misurare la perdita." Tra queste perdite immense, c’è John Prine, l’amico pianto a lungo prima di iniziare le registrazioni dell’album, e Toots Hibbert, il frontman dei Toots And The Maytals, omaggiato, qui, con una versione della sua "Love So Strong".

Just Like That, tuttavia, non è un disco monotematico, perché la Raitt sposta l’attenzione anche su temi più convenzionali, come storie d’amore che hanno collassato ("Made Up Mind", scritta dai fratelli Landreth, David e Joseph Sydney), amori ritrovati (“Something Got A Hold Of My Heart”) e amori che se ne vanno per sempre, lasciando addosso sensi di colpa (“Blame It On Me”). Così come, nella title track, in cui Bonnie apre il cuore alla speranza e al senso di fratellanza, raccontando la storia di una madre afflitta, che ha perso il proprio figlio, e che trova conforto alla perdita, abbracciando l’uomo che ha ricevuto il suo cuore ed è sopravvissuto grazie al trapianto.

Tuttavia, è inevitabile che il dramma della pandemia circoli per tutta la durata del disco, che l’immobilismo di quei giorni torni in versi che ricordano come il tempo “è versato come sabbia attraverso le mie mani e le tue”, e che quei momenti traumatici e la sofferenza che ne è derivata, facciano emergere il dolore di addii non dati, come un peso quasi insostenibile ("When We Say Goodnight"). Eppure questo disco non cede mai completamente nell'oscurità, queste sono, semmai, storie di accettazione, storie di resistenza, in cui il dolore non soverchia mai completamente la speranza. C’è il ricordo, per quanto mesto, di chi non c’è più (“Sto vivendo per quelli che non ce l'hanno fatta, abbattuti senza alcuna colpa”, canta la Raitt sul tiro stonesiano delle chitarre di “Livin’ For The Ones”) ma c’è anche lo sprone a chi è rimasto, l’invito a non piangersi addosso e a continuare a vivere, con coraggio (“Se mai inizi a lamentarti, ricorda solo quelli che non sentiranno mai più il sole sui loro volti.")

Just Like That è un classicissimo disco di rock blues, quello che ti aspetti da un’artista come Bonnie Raitt, da sempre fedele alla propria visione e indifferente alle mode. Alla songwriter di Burbank, sulle scene ormai da mezzo secolo, si può, quindi, rimproverare, forse, la mancanza di originalità, anche se molti la leggerebbero la cosa come coerenza artistica. Di sicuro, pur in un canovaccio assolutamente prevedibile, la Raitt possiede una straordinaria eleganza formale (quell’essere così incredibilmente diretta nonostante un approccio classicissimo) e, quel che più conta, un’ardente passione, che continua a farcela amare, nonostante di lei, sappiamo ormai tutto quello che c’è da sapere.

VOTO: 7

 


 


Blackswan, venerdì 27/05/2022

mercoledì 25 maggio 2022

WALKING ON SUNSHINE - KATRINA AND THE WAVES (Capitol, 1985)

 


Se c’è una canzone che sembra essere stata scritta appositamente per trasmettere allegria e gioia di vivere, per risollevare il morale e lenire il dolore, questa è Walking On Sunshine dei Kathrina And The Waves: una botta di adrenalina capace di smuovere anche le montagne e uno dei successi commerciali più eclatanti di sempre.

La band nasce a Cambridge nel lontano 1975, dall’incontro il chitarrista Kimberley Rew e il batterista Alex Cooper. Tre anni dopo, alla coppia, ancora in cerca di una propria identità artistica, si unì la cantante Katrina Leskanich (che era americana e che viveva coi genitori in una base militare statunitense) e il bassista Vince de la Cruz, entrambi facenti parte dei Mama’s Cookin’, una cover band che si esibiva reinterpretando brani di artisti come Heart, Foreigner, Linda Ronstadt e ZZ Top.

Nel 1983, il gruppo, che aveva iniziato a esibirsi con il nome di Waves, fu ufficialmente ribattezzato Katrina and the Waves e pubblicò il suo omonimo album di debutto sotto l’egida della Attic Records, che distribuì il vinile solo in Canada, dove ebbe ottimi riscontri di vendite. Nel 1985, la band venne notata dalla Capitol, con cui firmò un contratto per la distribuzione internazionale del disco, il quale diede in breve tempo notorietà al gruppo, grazie a un accattivante mix di new wave, pop e rock, trainato dal  singolo principale: "Walking on Sunshine". Che, originariamente, aveva l’insolita veste di ballata, e solo al momento della registrazione, si trasformò nel brano ritmato e frizzante che tutti conosciamo.

La canzone fu scritta dal chitarrista Kimberly Rew, il quale a proposito delle circostanze che lo ispirarono, in un’intervista rilasciata a The Guardian nel 2015, raccontò: “Mi piacerebbe dire che 'Walking on Sunshine' si riferisse a un evento significativo della mia vita, come uscire dalla porta di casa, vedere una cometa ed essere ispirato. Ma è solo un pezzo di semplice divertimento, una canzone ottimista, nonostante, ai tempi, non fossimo persone particolarmente allegre". Ciò nonostante, è fuor di dubbio che Walking On Sunshine sia una canzone che trasmette allegria e benessere, un toccasana per l’umore e un’iniezione di travolgente euforia.

Un brano che parla della felicità che si prova a essere innamorati, di quella leggerezza del cuore che ti fa letteralmente levitare da terra, tanto da avere la sensazione di camminare sulla luce del sole: “Pensavo che forse ora mi ami, piccola, ne sono sicuro. E non vedo l'ora che arrivi il giorno in cui busserai alla mia porta Ora, ogni volta che vado alla cassetta delle lettere, devo trattenermi Perché non vedo l'ora che tu mi scrivi che stai tornando, Sto camminando sulla luce del sole, Sto camminando sotto il sole”.

Quella melodia spensierata e il ritmo rimbalzante si mangiarono in breve le classifiche di mezzo mondo, raggiungendo la nona piazza di Billboard Hot 100, l’ottava piazza nel Regno Unito,  la quarta in Australia, e facendo guadagnare alla band una nomination ai Grammy nella categoria Best New Artist. "Walking On Sunshine" è anche diventata un punto fermo della cultura pop per quasi quattro decenni, tanto che la canzone è comparsa in dozzine di spot pubblicitari e nella colonna sonora di film come American Psycho e Alta Fedeltà.

Un successo costante e inesauribile che, nell’agosto del 2015, spinse la BMG Rights Management ad acquistare i diritti della canzone per la cifra esorbitante di dieci milioni di sterline.

Sembra quasi assurdo, ma quella che è riconosciuta universalmente tra le canzoni più allegre della storia, nel 2005 fu accostata alla tragedia che colpì il Golfo degli Stati Uniti. Quando, infatti, il devastante uragano Katrina si abbattè sulle coste americane, parte della stampa definì l’evento chiamandolo “Katrina And The Waves”. Intervistata sul fatto da un giornalista del New York Times, Katrina Leskanich, disse: "La prima volta che ho aperto il giornale e ho visto il nostro nome accostato all’uragano è stato uno shock. ... Spero che il vero spirito di 'Walking on Sunshine ' prevarrà. Odierei che il titolo si tingesse di tristezza.”  




Blackswan, mercoledì 25/05/2022

martedì 24 maggio 2022

HALESTORM - BACK FROM THE DEAD (Atlantic, 2022)

 


A prescindere dalla qualità artistica di quello che stiamo ascoltando in questo periodo, è indubbio che il covid e la conseguente pandemia aleggino come fantasmi su molti dei dischi usciti nel 2022. Non ne sono esenti gli americani Halestorm, che quattro anni dopo l’ottimo Vicious, tornano con un nuovo disco, probabilmente il loro migliore a livello di energia espressa e resa sonora (Back From The Dead, guarda caso, è prodotto da Nick Raskulinecz, già al lavoro con Foo Fighters, Mastodon e Alice In Chains).

Gli Halestorm, rispetto a molti colleghi, hanno, però, fatto di necessità virtù, convogliando l’energia repressa di due anni vissuti in apnea, in una scaletta vibrante e rabbiosa, che veicola un incontenibile afflato vitale e  un bruciante desiderio di “resurrezione” dal mondo dei morti (in tal senso il titolo dell’album è assai esplicito). Il risultato è, quindi, il disco più heavy della band, come se una valvola di sfogo fosse stata aperta per poter liberare tutte le frustrazioni, il malessere accumulato negli ultimi due anni e un surplus di vitalità repressa.

Non a caso, il disco inizia con Lzzy Hale che urla "I'm Back From the Dead", un grido liberatorio, che suona tanto come una chiamata alle armi, quanto come una perentoria dichiarazione di esistenza in vita. Potente e devastante, senza tuttavia perdere una certa dimensione melodica, la title track traina concettualmente tutto il resto del disco, e possiede la forza di un pugno in piena faccia, indispensabile per scuotersi dal torpore.

L’impressione è quella di una band che stia spingendo al massimo il pedale dell’acceleratore, per provare a superare i propri limiti, per vedere l’effetto che fa a suonare duro e cattivo. Nove pezzi su undici, quindi, vestono l’armatura metallica di una corazzata rock, sferragliante e senza fronzoli, capace anche di momenti piacioni e un po' telefonati ("Brightside" e "The Steeple"), per poi spazzare ogni resistenza, con il fiume in piena di brani distruttivi quale "Bombshell", la title track e "Wicked Ways". Un tiro notevolissimo, spinto dalla voce devastante della splendida Lzzy Hale, la cui voce graffia e ruggisce con belluina energia.

Ci sono anche due riuscite ballate, la meditabonda e acustica "Terrible Things", e la conclusiva "Raise Your Horns", un inno alla ritrovata normalità, per pianoforte dagli accenti gospel e la voce spettacolare di Lzzy Hale a far vibrare le corde dell’emozione.

L'originalità non passa certo da queste parti, ma la travolgente elettricità che attraversa la scaletta, farà sicuramente felice chi ama le chitarre e preferisce la sostanza rock all'hype modaiolo. Da ascoltare a tutto volume.

VOTO: 7

 


 

Blackswan, martedì 24/05/2022

lunedì 23 maggio 2022

ROSGOS - CIRCLES (Beautiful Losers, 2022)

 


Sono passati ormai due anni da Lost In The Desert, secondo disco solista di RosGos, moniker sotto il quale si cela il lombardo Maurizio Vaiani, noto in passato anche per aver fatto parte, come cantante, della storica band Jenny’s Joke.

Un disco, il precedente, che spaziava tra diversi generi, declinati con audacia, certo, ma anche con una visione d’insieme quanto mai calibrata, e che dipingeva un melting pot espressivo dai colori cangianti, in cui convivevano pop, rock americano, folk e punk, dando asilo alle diverse sfaccettature di un’anima artistica curiosa e inquieta. Oggi, quell’approccio esuberante, quel girovagare in spazi aperti, senza cartine o coordinate, ma motivato solo dal desiderio di perdersi, si è trasformato per RosGos in un introverso percorso interiore, con una destinazione certa: l’Inferno dantesco, i gironi che lo compongono, una discesa lenta nello sprofondo ellittico del male di vivere.

D’altra parte, in due anni il mondo è cambiato e ha mostrato, ancor di più, il suo sguardo arcigno, malevolo e feroce. Se due anni fa, a perdersi era un musicista spinto da un’insaziabile amore per la creatività, in Circles è in gioco, invece, la deriva stessa dell’umanità, naufragata, forse irrimediabilmente, negli effetti esiziali di due anni di pandemia, scossa, nuovamente, dalla strattonata feroce di una guerra ingiusta, centrifugata dalle ansie e dalle frustrazioni di un’esistenza che non dà scampo più a nessuno, distillando l’ignobile percolato di una società violenta e senza etica. E’ l’Inferno, sono i gironi a cui siamo destinati, qui, sulla terra, la morte in vita.

Nessuna enfasi, nessuno stereotipo, nessuna banalizzazione, però. Vaiani è un musicista sensibile, che si tiene lontano da intenti moralistici, preferendo indagare con lucidità, e che veste i panni del poeta Virgilio, prendendo per mano l’ascoltatore e accompagnandolo, attraverso nove emozionanti canzoni, mostrando, suggerendo, a volte consolando anche, quando il buio ghermisce la vista, e la luce della melodia (e della speranza) illumina l’impervia strada.

Il bisogno di diversificazione espressiva che pervadeva Lost In The Desert, in Circles diviene approccio rigoroso, il suono da cangiante, si fa crepuscolare, a tratti ossianico, abbracciando, senza però replicarla pedissequamente, l’inquieta geografia dark-wave di ottantiana memoria, in cui emergono riconoscibilissimi echi da Cure, Opposition e Cocteau Twins, solo per citarne alcuni. Una veste formale perfetta per questo concept album che si nutre di una cupa e inquieta armonia, e in cui ogni cosa è al suo posto, incastonata nel quadro d’insieme, con la consapevolezza di chi sa prendere le distanze dalla materia e sa raccontare, trasformando l’angoscia dello sprofondo in linguaggio artistico universale.

Tutto funziona a meraviglia nelle nove tracce che compongono la scaletta del disco: la dissonante costruzione di canzoni in cui il nitore melodico trasfigura il respiro plumbeo delle atmosfere ("Limbo", "Lust", "Fraud", solo per citarne tre), le linee vocali, declinate con sicurezza ed eleganza, la produzione di Marco Torriani, che, con tocco mirabile, evita sapientemente scoscesi presbiteriani, insufflando nelle sulfuree volute infernali, aria pulita e una persistente sensazione di spazio tridimensionale.  

Ascoltare Circles è come intraprendere un viaggio a tappe, in cui è ben chiara la destinazione finale: sprofondare nell’abisso, conoscere il male, per poi, un giorno, uscire nuovamente a riveder le stelle. “I’m Waiting For You” recita il verso finale del disco, lasciando aperte le porte a quella che, ci piace pensare, sia una sorta di invocazione alla speranza, un bagliore di luce nelle tenebre di un Inferno, che RosGos ha saputo raccontare con uno stile unico, affabulante e magnetico.
 
VOTO: 8
 

 
 
Blackswan, lunedì 23/05/2022

venerdì 20 maggio 2022

WHAT'S UP - 4 NON BLONDES (Interscope, 1992)

 


Ci sono canzoni che sembra siano concepite apposta per essere cantate a squarciagola, trasportati da un impeto di gioia o da un desiderio liberatorio. E ci sono momenti in cui, guardando il mondo intorno a noi e certe dinamiche dell’esistenza, viene voglia di riempire i polmoni d’aria e di gridare: ”Che cazzo sta succedendo?”.

E’ molto probabile che Linda Perry, cantante di quel gruppo meteora chiamato 4 Non Blondes, band statunitense da una botta e via (un solo album in studio, Bigger, Better, Faster, More! Pubblicato nel 1992), si sentisse proprio così il giorno in cui scrisse What’s Up?: desiderosa di scrivere una canzone tanto immediata da poter essere cantata sotto la doccia e di poter gridare al mondo intero il proprio straniamento interiore.

What’s Going On?, Che cosa sta succedendo?, canta la Perry nel ritornello del brano, il cui titolo, per evitare confusione con il classico R&B di Marvin Gaye, fu cambiato nel più immediato What’s Up? (Che succede?). La canzone fu influenzata dalla situazione politica dell’epoca (presidente era George Bush), ma di riferimenti politici, nel testo, non c’è traccia. La Perry, anni dopo, precisò che What’s Up? fu composta in un momento di transizione, in quella terra di mezzo in cui la band sentiva la possibilità di riscuotere successo ma era ancora troppo acerba perché ciò potesse accadere. Era la fine degli anni ’80 e i componenti del gruppo facevano fatica a sbarcare il lunario, erano perennemente al verde e vivevano un‘esistenza, per così dire, molto bohemienne. Le cose, successivamente, migliorarono, i 4 Non Blondes iniziarono ad avere un ottimo seguito nella città di San Francisco, dove suonavano abitualmente in molti locali, la stampa si accorse di loro, e così anche le etichette discografiche, sempre alla ricerca di autentiche rocker da lanciare sul mercato, meglio ancora se appartenenti alla comunità LGBT.  

Fu, dunque, questo il retroterra da cui nacquero le liriche di What’s Up?, una sorta di inno alla consapevolezza, un invito ad accantonare inutili paure e a prendere in mano la propria vita, a guardare con fiducia verso il futuro, nonostante una società ipocrita e sessista, che stigmatizza l’omosessualità e le scelte di chi decide di vivere la propria vita nel mondo della musica. Un grido potente e liberatorio, che tocca il cuore e entra in testa velocemente, perché, come succede a tutte le canzoni semplici, basta un ritornello azzeccato o una strofa emozionante, per calamitare l’attenzione dell’ascoltatore e trasformare il brano in un autentico tormentone.

D’altra parte, quando la Perry canta: “And I, I am feeling a little peculiar, And so I wake in the morning, And I step outside, And I take a deep breath and I get real high, And I, scream at the top of my lungs: What's going on?” la prima cosa che si prova è l’immedesimazione, il desiderio di fare un respiro profondo e gridare con tutta la rabbia in corpo: What’s Going On? , il cui senso più profondo è, in realtà: io sono libero!

Esiste anche un aneddoto molto curioso legato alla composizione del brano, che fu raccontato, anni dopo, da Christa Hillhouse, bassista del gruppo. “"Per un breve periodo, Linda aveva lasciato il lavoro e viveva con me in questo piccolo appartamento con due camere da letto a San Francisco” ricorda Christa. “Ha scritto la canzone mentre si trovava nella sua stanza, in fondo al corridoio. Io ero nella mia camera da letto a fare sesso, ma ho smesso immediatamente quando l'ho sentita suonare quella canzone. Ricordo di aver attraversato di corsa il corridoio e di aver detto: "Amica, ma cosa stai suonando? E’ fantastica!".

What’s Up? fu il secondo singolo estratto dall’album d’esordio, ed arrivò nella top ten delle classifiche di mezzo mondo, ad eccezione degli Stati Uniti, dove la canzone si piazzò solo al quattordicesimo posto. L’album vendette complessivamente più di cinque milioni di copie, ma questo non bastò a tenere in vita la band, che si sciolse durante le registrazioni del secondo album: troppe pressioni da parte della casa discografica, troppo forte il desiderio di Linda Perry di avviare una carriera solista che, a onor del vero, non decollò mai.

 


 

Blackswan, venerdì 20/05/2022

giovedì 19 maggio 2022

LUCIUS - SECOND NATURE (Second Nature Records, 2022)

 


Holly Laessig e Jess Wolfe, al secolo meglio conosciute come Lucius, sono un duo pop poco conosciuto dalle nostre parti, nonostante siano attive da oltre quindici anni, siamo portate in palmo di mano dalla stampa americana e abbiano collaborato con un’infinità di artisti del calibro di tra cui Roger Waters, Jeff Tweedy, Jackson Browne, John Legend, Mavis Staples, John Prine, Sheryl Crow, Grace Potter, The War on Drugs, Brandi Carlile e Lukas Nelson, solo per citarne alcuni.

Con il loro nuovo album, il quarto se si considera anche l’esordio autoprodotto, le due ragazze rilasciano un delizioso affresco pop, un inno vitalistico con cui spazzano via l’angoscia e l’afflizione dei due anni appena trascorsi, e le pressioni, personali e universali, dovute alla pandemia, al lockdown, alla solitudine, alla perdita di speranza, ai drammi di una società che la politica non ha saputo o non ha voluto mitigare o risolvere.

Second Nature è una ventata di freschezza, una boccata d’aria pulita di quelle di cui si sente il bisogno, quando per troppo tempo si è stati al chiuso, a rimuginare sulle proprie disgrazie e sul proprio malessere interiore. Prodotto da Dave Coob (lontano, nello specifico, dai suoi consueti territori) e da Brandi Carlile (da sempre amica delle due ragazze), i disco racchiude dieci deliziose canzoni mainstream, che abbracciano un adult pop elegante e ricco di soluzioni intelligenti, aprendosi, con piglio divertito, a momenti funky e disco, che spingono ad abbandonare il divano delle lacrime e a saltare in pista, per riapprezzare la leggerezza del divertimento.

Si parte così con la title track, posta a inizio di scaletta, che conquista immediatamente con un’irresistibile groove funky, il calibro preciso, ma non invadente, di una sezione ritmica raffinatissima, e quelle due voci che si compenetrano alla perfezione, dando l’esatta misura di quanto la Leassing e la Wolfe siano una rodatissima macchina melodica. La voglia di ballare, diventa addirittura irresistibile con la successiva "Next To Normal", un gioiello dance, in cui sono gli arrangiamenti (una chitarra distorta, il tocco vagamente psichedelico, i coretti acchiapponi) a fare la differenza. Voglia di vivere, di superare le difficoltà della vita attraverso il ballo, il movimento contrapposto a due anni di assoluta staticità. Questo tema, che permea tutte le dieci canzoni in scaletta, è sviscerato nella decisiva "Dance Around It" (che vede anche il contributo di Sheryl Crow e Brandi Carlile), il nocciolo musicale di Second Nature, un brano danzereccio e pimpante, trainato dalle consuete melodie vocali e da una ritmica che ammicca agli anni ’80.

Le Lucius, però, hanno molte frecce al loro arco, e se il dancefloor è il posto privilegiato per togliersi la polvere di dosso e tornare a sorridere, la brillantezza della loro scrittura convince anche nelle angeliche trame vocali di "24", un gioiello di armonia e sentimento che rimanda alle grandi ballate degli anni ’80, così come la successiva "Heartbursts", che da quel decennio ruba massicce dose di ottimismo, riversato tutto nello splendido verso: "Better give your heart than never give at all”.

Non c’è una canzone, tra tutte, che non suoni come una possibile hit, sia quando le Lucius si fanno più riflessive, parlando di pene d’amore, come nell’intensa "The Man I’ll Never Find", o quando, per converso, spingono nuovamente in pista con il beat di "LSD" (nessuna droga, solo l’acronimo di Love So Deep), per inneggiare alle gioie dell’amore. Il disco si chiude con una ballata struggente, "White Lies", in cui le atmosfere avvolgenti vivono su un tappeto sonoro minimal e sulla forza espressiva di due voci, il cui connubio ha del miracoloso.

E’ difficile concludere l’ascolto di Second Nature senza aver voglia di ricominciare tutto da capo: troppo forte l’approccio vitale, troppo intense le melodie, troppo ben calibrata l’amalgama tra strumenti e voci. Un disco, questo, orgogliosamente mainstream, aggettivo troppo spesso usato in senso negativo, e che qui, invece, assume il significato di una musica che ha la forza trasversale di raggiungere il più ampio spettro di ascoltatori, quelli che non pretendono altro che momenti di cantabile leggerezza, e quelli che, invece, comprendono quanto talento nascondono queste canzoni, solo all’apparenza, mordi e fuggi.

VOTO: 8

 


 

Blackswan, giovedì 19/05/2022

martedì 17 maggio 2022

DON'T YOU (FORGET ABOUT ME) - SIMPLE MINDS (A&M, 1985)

 


Chi ha vissuto la propria giovinezza negli anni ’80 e dintorni, si ricorderà che nelle nottate passate in discoteca, arrivava un momento esatto, che spesso coincideva con il finale di serata, in cui la musica da ballo lasciava il posto a una, peraltro troppo breve, parentesi rock. Una mezzoretta circa, in cui il dancefloor cambiava completamente volto, lasciando spazio a un filotto di canzoni, quasi sempre introdotte da Roadhouse Blues dei Doors, il cui momento clou era riservato a Don’t You (Forget About Me) dei Simple Minds, aperta da quell’innodico “Hey, hey, hey, hey, Ooh, woah”, che tutti cantavano a squarciagola, un dito della mano rivolto al cielo, a ribadire il proprio pedigree rockista.

Ricordi di gioventù. Oggi, quel brano, infatti, vive quasi esclusivamente nella memoria di chi oggi ha superato la cinquantina e sembra impossibile che, ai tempi, Don’t You (Forget About Me), non solo intasasse di passaggi l’airplay radiofonico, ma avesse conquistato le classifiche di mezzo mondo. Numero uno negli Stati Uniti, a maggio 1985, numero uno in Canada, nel mese successivo, numero tre in Irlanda e in Italia, e numero sette in Gran Bretagna, dove però, rimase in classifica addirittura per due anni, dal 1985 al 1987. Numeri impressionanti per una canzone che nessuno voleva incidere, e che i Simple Minds hanno sempre schifato, ritenendola lontanissima dai loro standard artistici.

La canzone fu composta dal produttore Keith Forsey e da Steve Schiff (il chitarrista di Nina Hagen) per la colonna sonora del film The Breakfast Club, pellicola diretta da John Hughes. Entrambi erano fan dei Simple Minds, e avevano scritto il brano proprio con l’intenzione di proporlo alla band. Forsey prese contatto con l’etichetta dei Simple Minds, le A&M Records, ma l’incontro con Jim Kerr e soci ebbe esito negativo, nonostante l'entusiasmo e le aspettative di Forsey.

Il quale, visto il diniego ottenuto, offrì la canzone, prima a Bryan Ferry, e poi a Billy Idol, che Forsey stava producendo in quel momento, ma entrambi rifiutarono di inciderla. Al produttore si propose, invece, Corey Hart, che all'epoca stava avendo successo con "Sunglasses at Night", ma in questo caso fu Forsey a respingere le advances, ritenendo la voce di Hart non adatta al brano. Alla fine, la perseveranza di Forsey colse nel segno, grazie a buoni offici di Chrissie Hynde, all'epoca la moglie di Kerr, che riuscì a convincere la band della bontà della canzone, che in prospettiva poteva rivelarsi una hit da classifica.

E non fu affatto facile: secondo il frontman dei Simple Minds, la band era riluttante a registrare la canzone, poiché sentivano di dover registrare solo il proprio materiale. "Siamo i Simple Minds, non facciamo canzoni altrui. Siamo i Simple Minds, facciamo le nostre canzoni", disse Kerr, a proposito di Don’t You (Forget About Me), in un’intervista rilasciata alla BBC, nel 2018. Tuttavia, la band era anche frustrata dal fatto che la sua musica non riusciva a trovare sbocchi sul mercato statunitense, e questo fu l’argomento vincente con cui la Hynde fece breccia nella resistenza del marito.

Una volta accontentato Forsey, la band riarrangiò e registrò Don't You (Forget About Me) in sole tre ore in uno studio a nord di Londra, consegnò il lavoro fatto, dimenticandosene immediatamente, nella convinzione che sarebbe stata una canzone usa e getta per la colonna sonora di un film dimenticabile. Peccato che il film, uscito nelle sale il 7 febbraio del 1985 (la prima fu a Los Angeles), ebbe un incredibile successo di pubblico, tanto da incassare cinquantun milioni di dollari, a fronte di un budget da un milione e mezzo, aprendo così, definitivamente ai Simple Minds le porte del mercato statunitense. Sempre benedetta fu Chrissie Hynde. 




Blackswan, martedì 17/05/2022

lunedì 16 maggio 2022

BLOC PARTY - ALPHA GAMES (Infectous/BMG, 2022)

 


E’ quanto mai stucchevole parlare dei Bloc Party, facendo sempre riferimento al loro splendido album d’esordio, Silent Alarm (2005). Eppure, risulta quasi inevitabile, visto che quel disco aveva alzato l’asticella delle aspettative molto in alto, mentre, poi, tutti i lavori successivi, riascoltati, anche oggi, in retrospettiva, non sono mai parsi all’altezza del clamore suscitato dall’inarrivabile primo disco. Un giudizio, questo, forse troppo severo, perché, a onor del vero, bisogna dare atto alla band capitanata da Kele Okerere di aver avuto il coraggio di uscire dal rigido steccato indie post punk, per cercare nuove strade espressive, arricchendo la proposta di elementi elettronici, sezioni di fiati e arrangiamenti d’archi, passando dal suono muscolare di Four (2012) agli accenti r'n'b e gospel del precedente Hymns (2016), senza, però, mai trovare una quadra.

Cosa aspettarsi, dunque, da questo nuovo Alpha Games? I dubbi che il gruppo inglese fosse, per così dire, ancora in cerca di una propria identità, erano tanti, così come era forte la speranza di ritrovare le atmosfere ferocemente livide del loro esordio, in un ritorno al passato, che potesse nuovamente lustrare l’aura dei giorni di gloria. In realtà, questo nuovo lavoro, non fa che concentrare in dodici canzoni la storia dei Bloc Party, fortunatamente, però, con una chiarezza espositiva e un livello di ispirazione prevalentemente alti.

L'apertura dell'album, "Day Drinker", è un vera e propria sciabolata post-punk, così come la traccia successiva, "Traps", che è stata pubblicata come singolo l'anno scorso. Entrambi i brani riecheggiano piuttosto bene le vibranti atmosfere del loro debutto, anche se le chitarre suonano forse un po' più grintose e la produzione complessiva suona, ovviamente, un po' più aggiornata. Già le cose cambiano nella traccia seguente, "You Should Know the Truth", in cui permane un retrogusto anni ’80, ma un taglio decisamente più pop e melodico, mentre in “Callum Is A Snake” le chitarre tornano a ruggire, scontrandosi con l’estetica techno della successiva, ansiogena, "Rough Justice", che supera definitivamente gli stereotipi del moderno post punk. La ritmica tribale di "The Girls Are Fighting", sposta nuovamente gli accenti, facendo venire in mente, nonostante le spolverate di synth, il dance rock degli ultimi Royal Blood.

A questo punto è ben chiaro che se prendiamo come ampia cornice l’impostazione indie della band, il quadro dipinto dai Bloc Party possiede un approccio coloristico cangiante, quasi una sorta di crossover, in cui convivono ballate "Of Things Yet to Come", i cui echi anni ’80 evocano U2 e Simple Minds, brani che spingono verso il dancefloor come “By Any Means Necessary” e “In Situ”, e lineari indie rock dagli accattivanti coretti “If We Get Caught”. In un modo del tutto inaspettato, poi, l'album si chiude con la ballata "The Peace Offering", i cui malinconici arpeggi di chitarra risuonano come attraverso lo spazio, i testi sono declamati, creando un inquietante senso di intimità, prima di un intenso slancio finale.

Dopo diversi ascolti, Alpha Games restituisce nitida l’immagine di un gruppo che per troppo tempo è rimasta sfocata, legata indissolubilmente al loro inarrivabile esordio e a una serie di dischi successivi che ne avevano offuscato la fama, relegandoli allo status di eterni incompiuti. Senza rinnegare il passato, anzi recuperandolo e dandogli nuovo forma, i Bloc Party dimostrano di essere ancora in grado di scrivere accattivanti canzoni indie di tre minuti, creando una visione d’insieme, quella che mancava da tempo, variegata nella forma e nella sostanza, fregandosene delle mode del momento, ma restituendo all’ascoltatore il meglio della loro ispirazione. Non un disco imperdibile, ma sicuramente un buon trampolino di lancio per una seconda parte di carriera.

VOTO: 7

 


 

 

Blackswan, lunedì 16/05/2022

venerdì 13 maggio 2022

ARCHIVE - CALL TO ARMS AND ANGELS (Dangervisit, 2022)

 


Call To Arms And Angels è il dodicesimo album in studio del collettivo londinese Archive, il primo da The False Foundation, pubblicato nel 2016. Un disco ponderoso (un'ora e quarantacinque minuti per 17 canzoni), complesso ed estremamente variegato, un mix suggestivo in cui convivono elettronica, progressive, trip hop, scorie industrial, inaspettate pennellate pop, minimalismo ed enfasi sinfonica, e in cui vengono calamitati echi di Massive Attack, Radiohead e Anathema.

Un disco figlio di due anni terribili, fotografia spietata del mondo in cui oggi viviamo, Call To Arms And Angels ritrae non solo le frustrazioni e le sfide individuali e collettive della band, ma anche la realtà e le lotte quotidiane che tutti gli esseri umani si sono trovati ad affrontare a causa della pandemia, del lockdown, della solitudine, del forzato distanziamento, della mancanza di speranza e prospettive.

Una corrente oscura attraversa la lunga scaletta dell’album, in un viaggio dal mood cupo, ansiogeno e apocalittico, in cui il dramma del recente passato affiora prepotente, nelle liriche e nei suoni. C’è però anche spazio per la speranza, perchè Call To Arms & Angels è un disco dallo sviluppo discontinuo, costruito sulla stratificazione delle emozioni, e proprio quando il dolore prende piede con tutta la sua drammaticità, ecco inaspettatamente aprirsi finestre su territori meno ostici, più consolatori, dove l’ascoltatore viene avviluppato da vapori nostalgici, dal caldo lenimento della malinconia, dalla carezza salvifica di raggi di sole che suggeriscono quiete e speranza.

Si oscilla così, in un consapevole andamento altalenante, tra (e)stasi emotiva e vorticose accelerazioni, tra il clangore di maligne derive elettroniche e momenti di sospensione, in cui il dolore e la rabbia si trasformano in qualcosa di più intimo e meditabondo. Il bianco e nero è dunque mitigato da visioni di tenui colori pastello, e là in fondo, dietro l’assieparsi delle ombre, si intuisce la luce alla fine del tunnel.  

Attenzione, però, perché la battaglia non è finita, la guerra è ancora in atto. E’ questa triste presa di coscienza che apre il disco con l’apparente dolcezza di "Surrounded By Ghosts", una canzone, in realtà, inquieta, che cela dietro una carezzevole malinconia, disturbata però, da accordi di piano in minore e da un sottofondo dissonante, tutta l’angoscia dei nostri giorni: “C'è una guerra C'è ancora una guerra in corso, Grido di battaglia, Il grido di battaglia non sta svanendo. E se restiamo vivi, Possiamo dire loro cosa abbiamo vinto E se rimani vivo, Puoi dire loro cosa hai fatto”. Un invito alla resistenza, a non mollare, nonostante un presente violento e un futuro a tinte fosche.  

Un disco altalenante, dicevamo, in cui l’apparente calma iniziale viene spazzata via dallo sferragliare minaccioso di "Mr Daisy", e poi, ancora dalle volute discendenti del rock di "Fear There And Everywhere", cinica presa di coscienza di quanto i media abbiano manipolato l’informazione durante i giorni della pandemia, inducendo nelle persone incapaci di razionalizzare un’immotivata e onnivora paura (“La paura è ovunque, Brucia dentro di me, La paura è ovunque. Uccidendo la luce in me”).

La corsa ansiogena di "Numbers" si arresta innanzi al morbido velluto di "Shouting Within", che regala un altro momento di quiete, per riflettere su come le connessioni umane siano state paralizzate dall’incertezza e dalla paura, e come la gente, arrabbiata e vulnerabile, sia rimasta intrappolata in un meccanismo kafkiano, in cui il desiderio di intimità e di rapporti umani viene frustrato dalla paura del contatto fisico. Un senso claustrofobico, che viene racchiuso nei quattordici minuti di stratificazione elettronica della successiva "DayTime Coma" o nell’inquietante progressione di "Enemy", resoconto di una battaglia senza requie contro i propri nemici interiori che esplode in una seconda parte pervasa da una rabbia quasi belluina.

Perché la mente, nelle mille difficoltà di una pandemia, vacilla e rischia di perdersi (“Nuoti nelle acque del dolore nella tua mente, Tirandoti sotto” recita il testo dell’ondivaga "Every Single Day") e tutto quello che chiede è la libertà, di movimento e di pensiero, evocata nella straniante "Freedom", un inaspettato esperimento in cui confluiscono hip hop e melodia beatlesiana.

E mentre questo lungo viaggio emotivo volge al termine, gli Archive rispolverano l’antico amore per il trip hop seducendo con l’incedere malinconico di "All That I Have" e con la rassegnata progressione melodica della struggente "We Are The Same".

C’è ancora spazio per il mantra ossessivo di "Alive", corale presa d’atto di esistenza in vita (splendido l’utilizzo delle voci, che a tratti evocano i CS&N), che racchiude, però, la desolante consapevolezza che viviamo in un mondo egoista, incapace di solidarietà umana (“Non posso aiutarti, Per favore, vattene via”), per l’arresa disperazione di "Everything Alright", la cui dolente veste malinconica è dirimpettaia dei momenti più intimi dei Radiohead, il delirio elettronico dell’angosciante "The Crown" e le scorie trip hop della conclusiva "Gold", in cui l’atarassia è proposta come l’unica strada da imboccare per superare i drammi dell’esistenza.    

Call To Arms And Angels è un’opera impegnativa e di difficile assimilazione, mastodontica nell’esposizione, eppure coerente nei concetti veicolati, e con una visione d’insieme centratissima, capace di dare coerenza a una scaletta dalla struttura variegata e complessa. Un disco di una bellezza magnetica e, spesso, struggente, a cui manca solo l’hype, che di questi tempi viene dato a opere di gran lunga meno interessanti. Se ne parlerà poco, quindi, ma, a parere di chi scrive, siamo di fronte a un lavoro da annoverarsi come una tra le migliori uscite del 2022. 

VOTO: 9




Blackswan, venerdì 13/05/2022

mercoledì 11 maggio 2022

BARBARA ANN - THE BEACH BOYS (Capitol, 1965)

 


Non tutti, forse, sanno che Barbara Ann, una delle canzoni di maggior successo dei Beach Boys, è in realtà una cover, e che, anzi, la versione che tutti conosciamo e di cui abbiamo cantato chissà quante volte il ritornello, fu incisa dal gruppo capitanato da Brian Wilson solo per puro divertimento, senza avere in animo di pubblicarla come singolo. Una storia intricata, questa, che parte da molto lontano.

A cavallo tra gli anni ’50 e ’60, a New York, suona un gruppo di doo – wop, composto da Guy Villari alla voce solista, dai tenori Sal Cuomo e Chuck Fassert e dal baritono Donnie Jacobucci. La band che si fa chiamare Desires, nome poi mutato in Regents, esattamente come la marca di sigarette fumate dal frontman, Guy Villari. Un giorno del 1958, Chuck fa ascoltare agli altri componenti un demo casalingo inciso da suo fratello, Fred. La canzone si intitola Barbara-Ann (con il trattino) ed è stata scritta da Fred come dedica alla sorellina Barbara-Ann Fassert. Il brano, agli altri, piace e anche molto, tanto che i quattro decidono di inciderne una loro versione, salvo poi accantonare tutto quando capiscono che, nonostante gli sforzi profusi, non riescono a trovare un etichetta che li metta sotto contratto.

Tre anni dopo, un gruppo chiamato The Consorts sta cercando materiale da registrare. Uno dei membri della band, Eddie Jacobucci, si ritrova fra le mani il demo di Barbara-Ann, registrato da suo fratello Donnie, insieme ai The Regents. Lo propone agli altri, che ne registrano immediatamente una nuova versione e sottopongono la registrazione a Eddie Chichetti, il proprietario della Cousins Records. Il quale si innamora subito del brano, e decide di contattare l’autore, Fred Fassert per farsi rilasciare i diritti. Fred, però, fa ascoltare a Chichetti il demo originale dei Regents, e il produttore, che evidentemente ha un gran fiuto e un orecchio fino, capisce che quella versione è nettamente superiore.

Così, nel 1961, la Cousins Records pubblica Barbara-Ann dei Regents (che di fatto non esistevano più) solo per il circuito newyorkese, e il brano diviene in poche settimane un incredibile successo commerciale a livello locale, tanto che Chichetti ne affida la distribuzione alla più strutturata Roulette/Gee Records, che avrebbe dovuto pubblicare la canzone in tutto il mondo (anche se poi non se ne fece nulla).

E qui, termina la prima parte della storia, che riprende quattro anni dopo, quando il brano fu reinterpretato dai Beach Boys.

Il 23 settembre del 1965, “i ragazzi da spiaggia” si trovano a registrare presso gli United Western Recorders di Hollywood, in California. In realtà, la serata è fiacca e i sei passano più tempo sulla bottiglia che sugli strumenti. Non va meglio a Dean Torrence, del gruppo Jan e Dean, che stanno registrando nella stanza accanto. Scazzato, Dean bussa alla porta dei Beach Boys con l’intenzione di farsi una birra e qualche risata. Così, inaspettatamente la serata inizia a decollare, la voglia di mettersi a suonare torna, il nastro viene accesso e la band insieme a Dean dà vita a una versione, a dir poco amatoriale, di Barbara Ann, un brano che Torrence conosce a menadito, visto che ne aveva registrata una cover nel 1962.

Il risultato è una registrazione grezza e improvvisata: Dean Torrence canta come solista insieme a Brian Wilson, in sottofondo ci sono risate e commenti, tra cui un "È Hal e i suoi famosi posacenere!"(con riferimento al batterista Hal Blaine, che sta facendo tintinnare due posacenere insieme), mentre alla fine della registrazione si può sentire Carl Wilson esclamare “Thanks, Dean!”.

Un versione assolutamente disordinata e caciarona, quindi, che però la Capitol Records pubblica come singolo e inserisce nell'album Beach Boys Party!, senza peraltro avvertire della cosa la band. I dirigenti della casa discografica, infatti, sanno che Brian Wilson è un perfezionista e che porrebbe il veto alla pubblicazione di una registrazione tanto grossolana. Inoltre, in quel periodo, Brian sta sperimentando molto e lavora al leggendario "Pet Sounds", un disco che avrebbe portato il gruppo in una direzione completamente opposta a quella imboccata da brani sempliciotti come Barbara Ann.

Come spesso accade, però, produttori e case discografiche, almeno sotto il profilo commerciale, hanno una lungimiranza superiore, e così, nonostante l'informalità della sessione di registrazione, la Capitol promuove il lancio del singolo, con la consapevolezza che questa versione divertente e spontanea del classico doo-wop avrebbe fatto un successone fra i giovani del tempo. D’altra parte, la melodia è estremamente contagiosa, e quel testo, così semplice e banale, rappresenta un gancio irresistibile per cantare a squarciagola il ritornello.

Barbara Ann, a inizio 1966, raggiunge il secondo posto di Billboard Hot 100 ed è ancora oggi considerata, insieme a Good Vibration, I Get Around e Fun Fun Fun, una delle canzoni più famose dei Beach Boys. Anche, se in realtà, non è dei Beach Boys. 




Blackswan, martedì 11/05/2022

martedì 10 maggio 2022

BJORN RIIS - EVERYTHING TO EVERYONE (Karisma Records, 2022)

 


Quello di Bjorn Riis è un nome poco conosciuto dalle nostre parti, salvo, probabilmente, per coloro che sono fan degli Airbag, band norvegese di rock progressive. Il chitarrista, però, ha all’attivo anche cinque dischi solisti, tutti di ottimo livello, caratterizzati da un suono solo in parte mutuato dal lavoro svolto con la casa madre.

Perché, come si evince dall’ascolto di questo nuovo Everything To Everyone, Riis tende a smussare l’approccio rock (salvo che nell’iniziale e sferragliante strumentale Run), e il suo gusto per la melodia e la sua capacità di creare atmosfere suggestive trova, nello specifico, una declinazione più intima e colloquiale.

Everything to Everyone è, quindi, un ascolto decisamente malinconico e un album carico di emozioni, che nascono dalla capacità di Riis di intrecciare melodie inquiete, testi introspettivi e paesaggi sonori dal sapore cinematografico, dando così all’opera un mood introspettivo, ma non per questo meno fantasioso. Le sei composizioni in scaletta sono brani che ammaliano e in cui è facile perdersi, e che a prescindere dall’aspetto squisitamente emotivo, sono concepite da un artista dalle idee chiare e dalla mano sicura, che dà l’impressione di essere assolutamente connesso a ogni singola nota che suona.

Dal punto di vista sonoro, i riferimenti che si colgono immediatamente sono gli echi pynkfloydiani (la lunga e ipnotica "Lay Me Down"), presenti già, in modo massiccio, nei dischi degli Airbag, e, in misura minore, è possibile fare accostamenti con la musica degli Anathema (la struggente malinconia della bellissima "Every Second, Every Hour") e dei Porcupine Tree; il tutto, però, è amalgamato in modo equilibrato dalla sensibilità di Riis, che mette sonorità note al servizio delle proprie idee e della propria riflessiva scrittura. Il risultato è un suggestivo disco di prog, la cui scaletta di sole sei tracce (ma per un minutaggio consistente di cinquanta minuti), oltre alla coesione di fondo, riserva soprese a ogni ascolto, perché sono molte le cose da scoprire, sia che si tratti di una sottile sfumatura della voce o di un’intuizione melodica appena udibile, nascosta nel profondo di una canzone.

Il mood prevalente è crepuscolare, ma mai afflitto, e alcuni barlumi di speranza e di luce, nonostante la complessiva oscurità, producono un effetto calmante, talvolta addirittura consolatorio. Porta in dote questo, la musica di Riis, e cioè l’improvvisa capacità di illuminare una dimensione sonora fotografata in bianco e nero e rianimarla con bagliori di colore e vitalità. C’è tutto questo in Everything To Everyone, un disco magnificamente suonato, che interiorizza gli struggimenti malinconici del suo autore, ma lo fa con grazia meditativa, senza eccessi, senza cercare le tinte fosche dello sprofondo, ma cercando semmai di costruire un’apertura verso il mondo esterno, alla ricerca di luce, aria pulita e una speranza che illumini l’esistenza.

VOTO: 7,5

 


 

Blackswan, martedì 10/05/2022

lunedì 9 maggio 2022

HAPPY - PHARREL WILLIAMS (I Am Other/Columbia, 2014)

 


La felicità dura un attimo, e passa rapida come lo schiocco di due dita. Il tempo di un sorriso, l’incanto di uno sguardo, la canzone preferita che passa alla radio, una foto da condividere con gli amici. La felicità, però, appena arriva, fugge, è impalpabile come una folata di vento, che, giocosa, scompiglia i capelli, ma che non puoi trattenere. Perché dietro l’angolo è in agguato, sempre, il destino, che non guarda in faccia a nessuno, tanto meno alla felicità.

Quando, il 27 aprile del 2014, Courtney Ann Sanford, una ragazza di trentadue anni, originaria della Carolina del Nord, sale sulla sua auto, non sa che quello è il suo ultimo viaggio. Sono le 8.30 di una bella mattina di primavera, e Courtney è felice, di una felicità irrazionale, inconsapevole, di quelle che non si spiegano, ma fanno traboccare il cuore di vita e spesso rendono avventati, irragionevoli.  Così, quando la radio passa Happy di Pharrell Williams, Courtney pensa che quella canzone, che ama visceralmente, suoni proprio per lei, come se il destino volesse rendere quel momento ancora più magico. Decide, così, di farsi un selfie e di postarlo su Facebook, di condividere i colori di quella gioia improvvisa che la pervade.

E’ un momento, un lampo. Alle 8.33 pubblica una sua foto sorridente e scrive: “La canzone Happy mi rende felice”. Alle 8.34, è morta. Non aveva bevuto e andava piano, ma quell’attimo di distrazione per scattarsi la foto le è stato fatale, la sua macchina ha invaso la corsia opposta, scontrandosi contro un mezzo pesante.

Era felice, Courtney, esattamente come invitava a essere quella bella canzone che ha accompagnato i suoi ultimi minuti di vita. Una canzone accattivante e contagiosa, partorita dal genio di Pharrell Williams, musicista e produttore che possiede il tocco di Re Mida: ovunque metta mano, la musica si trasforma in oro, il successo bussa alla porta. Non è un caso, quindi, che, quando viene pubblicata (prima nella colonna sonora del film Cattivissimo Me 2, poi nell’album solista di Williams, Girl) Happy arrivi alla prima piazza di Billboard US, e conquisti la prima posizione in classifica nelle chart di tutto il mondo, vendendo, solo nel 2014, ben quattordici milioni di copie (ovviamente, streams compresi).

Non è solo la melodia contagiosa, così immediata che è impossibile non canticchiarla fin dal primo ascolto, ma è soprattutto il messaggio che veicola che spinge ad innamorarsene, forse, proprio perché, continuare a ripetere di essere felici, spinge in qualche modo a lenire le ansie e il dolore, e a gettare uno sguardo più positivo sull’esistenza.

Ed era proprio questa l’intenzione di Williams: scrivere un brano che facesse stare bene l’ascoltatore, che lo spronasse a non arrendersi ai problemi dell’esistenza, ma lo spingesse a perseverare nella ricerca della felicità: “Perché sono felice / Batti le mani se ti senti come una stanza senza tetto / Perché sono felice / Batti le mani se pensi che la felicità sia la verità / Perché sono felice / Batti le mani se sai cos'è la felicità per te / Perché sono felice / Batti le mani se senti che è quello che vuoi fare." E’ Pharrell, in primo luogo, a essere felice, non importa quale sia il suo destino, e lo dice apertamente, per contagiare gli altri.

La frase "stanza senza tetto" è un passaggio testuale significativo e al contempo un’immagine poetica: una stanza senza tetto (viene in mente per assonanza la “stanza senza pareti” di Gino Paoli) non ha confini né limiti, quindi la felicità può salire verso l’alto, espandersi, e assimilarsi alla libertà. Inoltre, la frase "applaudi se sai cos'è per te la felicità" si riferisce a coloro che sono felici senza saperlo, ed è un invito velato alla consapevolezza, a comprendere quali siano le cose che danno la vera felicità.

Perché, fate attenzione, il dolore e la tristezza, sono proprio dietro l’angolo: “Ecco che arrivano cattive notizie, parlando di questo e quello … Beh, probabilmente dovrei avvertirti, starò bene”. Pharrell, però, non si fa abbattere, il suo umore non verrà inasprito e nulla al mondo potrà mettere fuori gioco la sua felicità. Sembra un invito a essere felici fino al confine della stolidità, ma in realtà, perfettamente in linea con il messaggio finora trasmesso, Williams vuole solo suggerire a chi ascolta che è possibile tenere uno sguardo positivo sulla vita solo se s’impara a praticare l’arte di non lasciarsi ferire dalle circostanze.

E a tal proposito, chissà cosa avrà pensato CeeLo Green, rapper, produttore e membro degli Gnarls Barkley, a cui Williams nel 2012 aveva “regalato” la canzone (Green ne aveva già inciso una versione da urlo), salvo poi rinunciarvi su invito della sua casa discografica, la Elektra Records, che lo voleva concentrato sul lancio del suo disco natalizio, Cee Lo’s Magic Moments. Perché la felicità (in questo caso, racchiusa nel tintinnio di milioni di dollari) dura un attimo, bisogna saperla riconoscere e afferrarla. Prima che sia troppo tardi.

 


 

 

Blackswan, lunedì 09/05/2022

venerdì 6 maggio 2022

OLD CROW MEDICINE SHOW - PAINT THIS TOWN (ATO, 2022)

 


Vado a memoria, ma per quanto mi sforzi, non ricordo un disco brutto degli Old Crow Medicine Show. Una carriera in crescendo, per intensità e ispirazione, in cui il combo capitanato da Ketch Secor, è riuscito a dare nuova linfa vitale alle radici del suono americano, attraverso un approccio esuberante e grintoso mutuato tanto dalla tradizione quanto dal punk’n’roll. Tornati alla loro ex etichetta (la ATO), dopo un disco, Volunteers, pubblicato per la Columbia, il sestetto di stanza a Nashville, si ripresenta, dopo quattro anni di silenzio (interrotto solo dalla pubblicazione dal notevole Live At The Ryman), con un nuovo album, che è anche il primo registrato nei loro studio e il primo che vede tra le fila della line up i nuovi membri, Jerry Pentecost (batteria, mandolino), Mike Harris (chitarra slide, chitarra, mandolino, banjo, dobro, voce) e Mason Via (chitarra, gitjo, voce).

Paint This Town non nasconde i suoi intenti, esplicitati in liriche mai così intense e strutturate: tenere un bilancio dei tempi cupi che stiamo vivendo, raccontare l’America con uno sguardo critico ma anche carico di nostalgia, e fare in modo che il messaggio, spesso profondo, sia veicolato da una musica vibrante, capace di emozionare e divertire.

La partenza non poteva, quindi, che essere veemente, con l’armonica spavalda che accende la macchina dei ricordi nell’iniziale title track (firmata da Ketch Secor e Jim Lauderdale), un tuffo nel passato, per abbracciare un’adolescenza consumata nell’agreste e antica bellezza di una piccola città, dove "i ragazzi della fattoria vanno a pomiciare o muoiono", in cui ciò che c’è da fare è solo salire sulla torre dell’acqua o suonare il jukebox per tutta la notte. Immagini in bianco e nero, eppure vividissime, che aprono davanti agli occhi di chi ascolta lo scenario di vite di piccolo cabotaggio, così apparentemente inutili, e così appassionatamente romantiche.

Il Sud e la sua storia, tornano nel ristagno paludoso dell’inquietante blues “John Brown's Dream”, una canzone dal taglio politico, che ricorda la violenta ribellione del noto abolizionista contro la schiavitù e la sua morte sul patibolo, giustapponendo la voce di coloro che lo vedevano come il diavolo, con il ricordo di ciò che ha cercato di realizzare, ”perché il peccato di questa terra non potrà mai essere emendato finchè ogni schiavo non sarà libero”.

Il messaggio politico torna anche in "Gloryland" (co-scritto da Secor e dall'ex membro, Critter Fuqua), un’appassionata ballata dagli echi dylaniani per pianoforte e violino, che guarda attonita l'incubo contemporaneo di un mondo impazzito, e nell’urgenza punk rock di “Used To Be A Mountain”, in cui ricordi di gioventù sono il metro di paragone per raccontare il dramma di una regione, quella degli Appalachi, allo sfascio, sia in termini ambientalisti (“C'era cuore, c'era anima, ma immagino che ce li siamo dimenticati/Perché non c'è niente fuori dalla finestra, solo un cartello su un mucchio di scorie che dice: qui c'era una montagna") che economici ("C'era una casa ai margini della città/C'era un lavoro e una pista di pattinaggio"). Perché c’è un’America terribilmente attuale, un America che cade a pezzi e che procura un disagio, per il quale, spesso, l’unico lenimento sono le droghe. E’ questo il tema di “Painkiller”, sferragliante rock’n’roll che affronta la dipendenza da oppiodi con cinismo (“Ho sentito che il primo assaggio ti costerà un centesimo / Non menzionano mai come salgono i prezzi") e metafore (“Sarà la mia morte... impazzire su questo treno in corsa").

Dicevamo, però, che gli OCMS suonano anche per il gusto di divertire, di portare note liete nella vita di ascolta, di trasmettere positività e allegria. E allora, quella stessa energia, quell’esuberanza festaiola, spogliata dagli intenti politici, torna a brillare nel pianoforte honky tonk di “Lord Willing and the Creek Don't Rise” per disegnare un quadretto agreste di ingenua allegria e ottimismo vista fiume ("Faremo una piccola festa stasera/Dai Katy, non è niente/Togliti il vestito da festa, tuffati").

Se i temi cari alla musica country tornano in “Reasons To Run”, storia di un musicista che non trova più ragioni per continuare a suonare, e nella combustione lenta di “Honey Chile”, racconto di solitudine e di un amore che non c’è più, il ruggente bluegrass "DeFord Rides Again", scritto da Secor insieme a Molly Tuttle e Jerry Pentecost, omaggia il leggendario armonicista DeFord Bailey (la prima star nera del Grand Ole Opry e il primo artista afroamericano a registrare a Nashville), che per una questione di diritti d’autore, al vertice della fama, si ritrovò ai margini dello star system e sopravvisse facendo il lustrascarpe.

"Hillbilly Boy" chiosa, con alticcia allegria, un disco con cui gli OCMS tornano a giocare con il proprio armamentario di canzoni sincere e vibranti, in cui le radici mantengono intatta un’alta percentuale di ortodossia, nonostante la capacità della band di flirtare con suggestioni rock, e in cui lo sguardo critico, posato sulla nazione e sugli ultimi sconvolgenti anni, sfuma, spesso, in cartoline in bianco e nero, che evocano suggestioni di nostalgico romanticismo. Un grande album, forse più eterogeneo dei precedenti, ma egualmente brillante e coinvolgente.

VOTO: 8

 


 

Blackswan, venerdì 06/05/2022