Il Killer chiude i battenti per qualche giorno di vacanza e tornerà la seconda settimana di agosto. Buone ferie a chi parte e buona permanenza a chi resta. A presto!
Blackswan, mercoledì 26/07/2023
Il Killer chiude i battenti per qualche giorno di vacanza e tornerà la seconda settimana di agosto. Buone ferie a chi parte e buona permanenza a chi resta. A presto!
Blackswan, mercoledì 26/07/2023
Il colonnello Henry Carrington arriva nella valle del Powder, lungo la pista del Montana, per guidare l'esercito: devono proteggere una nuova strada per i cercatori d'oro e i coloni. Per farlo, Carrington decide di costruire un forte, Fort Phil Kearny, in pieno territorio lakota. Ma Nuvola Rossa, uno dei capi lakota piú rispettati, e il giovane ma carismatico guerriero Cavallo Pazzo comprendono immediatamente le implicazioni di questa invasione. Per i Lakota la posta in gioco è la sopravvivenza. Mentre l'autunno sanguina verso l'inverno, Cavallo Pazzo guida un piccolo gruppo di guerrieri che affronta i soldati del colonnello Carrington con attacchi quasi costanti. Nuvola Rossa, nel frattempo, cerca di stringere le alleanze tribali che sa saranno necessarie per sconfiggere i soldati. Il colonnello Carrington, intento a costruire il suo forte, cerca di tenere insieme un esercito americano lacerato e in subbuglio. Il violento e razzista tenente George Washington Grummond vuole affrontare a viso aperto un nemico che considera inferiore. E le truppe sono divise dagli strascichi della Guerra civile e dalla tentazione di disertare per cercare l'oro nei vicini giacimenti. Le scaramucce proseguono finché un episodio farà precipitare la situazione in uno degli scontri piú drammatici, epici e avvincenti della storia del West.
Come per l’ormai celebre Revenant, libro da cui il regista Alejandro Gonzales Inarritu trasse uno splendido film, vincitore di tre premi Oscar, anche per Il Crinale, Michael Punke, scrittore, avvocato e analista politico, ha preso spunto da un fatto storico minore della storia degli Stati Uniti, ricostruito con accuratezza storica e ampiamente romanzato. L’episodio fulcro del racconto è la battaglia di Fetterman (il nome è preso dall’ufficiale a capo del contingente di soldati americani), e rappresenta uno dei momenti determinanti della guerra di Nuvola Rossa, oltre a una delle sconfitte più sanguinose subite dall’esercito americano a opera dei nativi americani.
Nell’estate del 1866, allo scopo di dare protezione ai coloni che si recavano in Montana alla ricerca di giacimenti auriferi, gli Stati Uniti, in violazione del trattato di Fort Laramie, sottoscritto quindici anni prima, crearono alcuni avamposti in pieno territorio indiano, tra cui Fort Phil Kearney, la location in cui si svolge buona parte del romanzo. Gli americani, oltre a invadere i territori di caccia degli indiani, iniziarono una invasiva attività di disboscamento, suscitando la rabbia dei nativi, che iniziarono una metodica guerriglia ai danni del forte, mettendo la guarnigione in uno stato di allarme continuo. Ciò nonostante, il capo Nuvola Rossa e il suo giovane pupillo Cavallo Pazzo, per quanto si prodigassero, non riuscirono a scalfire la stolida pertinacia degli americani. I quali, nonostante le mille difficoltà (armi vecchie e poco funzionali, cavalli mal nutriti, scarse derrate, e un contingente di reclute poco avvezze ai combattimenti), non demordevano dai loro intenti.
Convinte, allora, alcune tribù limitrofe ad allearsi per sconfiggere il comune nemico, gli Sioux, comandati da Cavallo Pazzo, riuscirono con un ben costruito inganno, ad attirare in trappola, nella valle di Paney Creek, un grosso contingente di soldati guidati dal capitano Fetterman (convinto, come lo erano molti ufficiali, di essere invincibili di fronte a un nemico male armato e poco organizzato) che, qui, fu ferocemente massacrato.
Questa, in poche parole, la trama di romanzo, che si è avvalso di una certosina ricostruzione storica, in cui sono state messe a confronto numerosi saggi sull’argomento. I quali, dal momento che nessuno dei soldati capitani da Fetterman si salvò, sono fondati esclusivamente sulle testimonianze degli indiani che parteciparono al massacro, e dei soldati e civili, rimasti a presidiare il forte. Una vera manna per tutti gli appassionati di storia americana, ma non solo.
Perché Il Crinale è prima di tutto un romanzo di avventura, serrato e palpitante, che riporta il lettore agli anni dei romanzi di formazione (penso a L’ultimo dei Mohicani), quando la fantasia viaggiava per terre di frontiera, selvagge e inospitali. Punke scrive bene, nonostante sia più uno storico che un romanziere, alcuni personaggi (Cavallo Pazzo, Grummond e sua moglie, Jim Bridger, già protagonista di Revenant, il pavido e indeciso colonnello Carringston) possiedono un ottimo profilo psicologico, e i colpi di scena, anche se si conosce già la storia, non mancano.
La parte più corposa e intrigante del racconto è l’ultima, quella che ricostruisce nei minimi particolari la battaglia e il massacro del contingente capitanato da Fetterman. Punke non risparmia al lettore alcun particolare, anche quelli più cruenti, tanto che sembra davvero di assistere, presenti e muti spettatori, a uno scontro di ferocia e violenza inaudita: il sinistro sibilare di migliaia di frecce, l’acre tanfo della polvere da sparo, le grida di terrore, i corpi mutilati, i cavalli imbizzarriti, gli ululati di guerra, la disperazione, il sangue, il dolore, la furia belluina dell’odio.
Un romanzo epico e potente, che intrattiene, certo, ma che fa venire voglia di approfondire (ottima la postfazione, che cita le fonti e spiega le scelte della ricostruzione storica) e di conoscere quell’immane tragedia che fu lo sterminio degli indiani da parte dell’ottuso, protervo e avido popolo bianco. Che, però, nello specifico, prese una delle più clamorose e sanguinose batoste della propria storia.
Blackswan, martedì 25/07/2023
A fine anno, quanti sono i dischi che ci portiamo in dote per il futuro? Che ci hanno colpiti così tanto da diventare, poi, parte indispensabile della nostra personale discografia? Quattro o cinque, al massimo, direi, forse dieci, a essere veramente buoni. Di sicuro, qualora aveste il coraggio di imbarcarvi in questa esperienza d’ascolto, nel lotto ci finirebbe Summit, nuovo album dei norvegesi, originari di Bergen, Seven Impale, sestetto in attività da dieci anni, che torna sulle scene dopo l’acclamato (dalla critica) Contrapasso del 2016.
Come approcciarsi a questo disco? Con tanta pazienza e, soprattutto, tanta apertura mentale. Perché Summit, la cui scaletta è composta solo di quattro lunghissime canzoni (?), è un disco estremamente complesso, spigoloso, concettualmente astratto, privo di ogni riferimento stilistico immediato, che possa essere da guida durante questo impervio cammino della durata di circa quarantacinque minuti.
Una cosa è certa: con Summit ci troviamo davanti a un monumento di progressive rock molto contiguo al jazz, in cui, dopo svariati ascolti, si colgono echi di Van De Graaf Generator, King Crimson, Camel, Caravan, Soft Machine, Frank Zappa, stipati in un contesto in cui convivono celestiali melodie, deragliamenti noise, puntute derive strumentali ed estemporanee esplosioni metal in odor d’avanguardia.
Tuttavia, per Per Stian Økland, Erlend Vottvik Olsen, Tormond Fosso, Fredrik Mekki Widerøe, Benjamin Mekki Widerøe e Håkon Vinje ciò che davvero conta è la libertà espressiva, creare un magma sonoro in cui l’ascoltatore viene immerso in un apparente caos, senza capire esattamente cosa stia ascoltando e cosa ascolterà un minuto dopo. Ciò che potrebbe apparire cervellotico, però, è in realtà frutto di una consapevolezza straordinaria e di una perizia tecnica lontana anni luce dal depauperamento espressivo in cui vive, prevalentemente, l’odierna stagione musicale.
Dal momento in cui si apre il disco, con gli accordi di pianoforte che introducono "Hunter", è subito chiaro che si stia viaggiando sul filo affilato della follia: i riff puntuti, il timbro ieratico e salmodiante di Stian Økland, un sassofono teso e dissonante ai limiti della nevrosi e l’improvvisa accelerazione che sfiora un convulso attacco di panico, spingono l’ascoltatore in un vortice magmatico nel quale ci si può aggrappare a quei pochi riferimenti stilistici che emergono tra lo tsunami di note (VDGG e scena di Canterbury).
Con "Hydra" lo
scenario diventa vorticoso e inquietante, le atmosfere si fanno fumose
grazie al fluttuante sax tenore di Benjamin Mekki Widerøe. E’ il brano
più lineare del lotto, con una melodia nitida e un riff di chitarra
ipnotico e ripetuto allo spasmo, ma una volta che i motori si accendono,
l’astronave schizza via col suo carico di esplosivo, pronta a esplodere
nello spazio, nei tre roventi minuti conclusivi, che potrebbero
richiamare alla mente una di quelle folli digressioni sonore tanto care
agli UK.
"Ikaros" è una badilata in faccia, conduce l’ascolto in una landa desolata infestata da fantasmi, ombre che si aggirano nell’oscurità con un ghigno malefico, mentre il terrore cresce insieme alla sensazione di tragedia imminente. Si viene colpiti in pieno volto da una debordante energia e da ruggiti esplosivi, spinti al parossismo dall’intenso lavoro di batteria di Fredrik Mekki Widerøe, dalle tastiere spettrali di Håkon Vinje e dalle chitarre da incubo che si muovono in territori cari ai Voivod, mentre il sax irrequieto evoca i Van der Graaf Generetor, era "Pawn Hearts".
Chiudono i tredici minuti di "Sisyphus", un brano cupo, stralunato, assolutamente folle, in cui la voce potente di Per Stian Økland evoca la tenebra in acuminati passaggi jazz e prog, ove convivono, in perfetta sintesi, sognante melodia, deragliamenti sonici in controtempo, repentini blast beat, stasi di inaspettata dolcezza e taglienti accelerazioni.
Summit è un’opera concettualmente difficilissima, che, come dicevamo, richiede tempo per essere assimilata e una totale apertura mentale per coglierne la suggestiva bellezza. Che vive tra pancia e cervello, tra istinto e ragionamento, tra esplosioni emotive e straniante intimismo. Chi conosce i Seven Impale sa esattamente cosa aspettarsi, ma chi gravita da queste parti per la prima volta, deve operare un atto di fede e consegnarsi completamente alla potenza della musica. Ne resterà estasiato.
VOTO: 9
GENERE: Progressive
Blackswan, lunedì 24/07/2023
Attivi dal 2014, i gallesi Those Damn Crows si stanno costruendo, lentamente ma inesorabilmente, la fama di essere una delle migliori band da stadio in circolazione. Se è vero che il loro secondo album, Point Of No Return, ha scalato le classifiche del Regno Unito fino alla quattordicesima piazza grazie a un pugno di canzoni irresistibili, la forza del quintetto britannico emerge soprattutto da infuocate esibizioni live, con cui si sono conquistati sempre maggiori fette di pubblico e l’attenzione mediatica della stampa nazionale.
Ci si aspettava molto dalla band, soprattutto dopo il successo del predecessore e il lungo periodo pandemico, che avrebbe potuto tarpare le ali dei corvi, riposizionandoli nelle posizioni subalterne della scena inglese. Invece, questo nuovo Inhale/Exhale ha consolidato il successo del gruppo originario di Bridgent, spingendolo fino alla terza posizione delle chart inglesi, risultato, questo, che è valso loro un nuovo tour in veste di headliner.
D’altra parte, questa nuova fatica, vede la band riproporre la consueta formula vincente, ma corroborata da decisivi passi avanti sia in fase di scrittura che sotto il profilo degli arrangiamenti e della produzione. Quello dei Those Damn Crows, per chi non li conoscesse, è un hard rock melodico dal grande appeal radiofonico, fatto di riff vibranti e ganci melodici irresistibili, che li vedono muoversi per gli stessi territori frequentati da Alter Bridge e Shinedown, per citare almeno due delle band più affini ai gallesi.
Tuttavia,
nonostante il taglio melodico ed energico delle composizioni, il disco,
nato durante i giorni cupi della pandemia e del lockdown, affronta
tematiche profonde. A partire dal titolo, che richiama in modo esplicito
l’atto del respirare, la copertina è evidentemente simbolica: una
gabbia toracica divisa in due, una metà annerita e lugubre, l’altra
colorata e adornata di fiori, su cui leggiadre volano le farfalle. E’
dunque inevitabile il riferimento al virus, che è lo spunto iniziale di
liriche che indagano sulla reazione umana alle avversità e delle
emozioni, positive o negative, che finiscono inevitabilmente per dare un
ritmo diverso al nostro respiro.
Inhale/Exhale non cresce ascolto dopo ascolto, perché è incredibilmente immediato, lo si afferra subito, è contagioso, entra sotto pelle, e pur con la consapevolezza di quanto siano furbette queste canzoni, così ruffiane nel loro sviluppo musicale ed emotivo, si finisce per essere inesorabilmente attratti da una scaletta che, pur con tutti i limiti della proposta, non ha un solo momento di cedimento. In queste dieci tracce si raggruma il suono di una band che ha fatto consapevolmente una scelta stilistica e sa esattamente come fare centro per conquistarsi sempre più fan. Ogni brano ha così tanta personalità che finisce per ronzare in testa fin dal primo momento: l’opener "Fill The Void", la canzone più oscura del lotto, il singolone "Takedown", il cui ritornello si manda a memoria in una frazione di secondo, la “quasi” ballata "This Time I'm Ready", che cova sotto traccia, cresce ed esplode, prima di spegnersi in placide note di pianoforte, e le atmosfere sinistre della conclusiva "Waiting For Me", sono alcuni dei momenti più riusciti dell’album.
Se è inevitabile che l'attenzione si concentri sul timbro esuberante del cantante Shane Greenhall, non va però dimenticata la solida band alle sue spalle, la spina dorsale strutturata dal batterista Ronnie Huxford e dal bassista Lloyd Wood, e il lavoro delle due chitarre di Ian "Shiner" Thomas e David Winchurch, che alternano rifinitura a bordate esplosive. L’eccellente produzione di Dan Weller e il mixaggio di Phil Gornell infiocchettano un disco che di certo non inventa la ruota, ma sa farla girare molto bene.
VOTO: 7
GENERE: Hard Rock Melodico
Blackswan, giovedì 20/07/2023
Di canzoni contro la guerra ce ne sono a migliaia, alcune anche molto emozionanti, ma di sicuro non tutte possiedono l’approccio originale che al tema è stato dato da Serj Tankian e dai suoi System Of A Down in War?, ottava traccia tratta dall’omonimo album d’esordio della band, datato 1998.
Perché se è evidente che questo brano (il titolo è esplicito) parli di guerra, è decisamente molto più complesso cogliere il punto di vista attraverso cui i SOAD affrontano l’argomento.
Alla base di ogni conflitto, infatti, si ha la convinzione di ciascuna della parti in causa di avere ragione, di affrontare una vera e propria crociata per respingere i pagani (“We will fight the heathens”), l’atra parte, quella che rappresenta il male assoluto, il senza Dio, l’eretico (“The man you fight With all your prayers”). Per la guerra occorre crearsi un alibi, un motivo che legittimi la morte e le distruzioni. "L'uomo giusto, ha bisogno di una ragione per uccidere un uomo", canta Tankjan, suggerendo che, in realtà, non esiste un motivo valido per la guerra, e solo l’insensatezza è la causa di indicibili sofferenze. Le note di copertina dell'album spiegano bene il concetto: "Prima abbiamo combattuto i pagani in nome della religione, poi del comunismo, e ora in nome della droga e del terrorismo. Le nostre scuse per il dominio globale cambiano sempre".
Il testo è stato scritto dal cantante Serj Tankian, che prese ispirazione dalla storia delle Crociate, ma con l’ovvio intento di riferirsi anche a guerre più recenti, inclusa l'invasione americana dell'Iraq nel 1991, che pensava fosse stata condotta a causa degli interessi economici delle multinazionali. In tal senso, War? è una canzone simbolica, che punta il dito su tutti quegli stati imperialisti che usano, ad esempio, la scusa della religione o del terrorismo, per giustificare un politica estera violenta e aggressiva.
I System Of A Down sono sempre stati una band impegnata politicamente, che non ha mai avuto timore di mettere la faccia su diversi argomenti scottanti come consumismo, religione, spiritualità, razzismo, genocidio armeno (a cui è dedicata la traccia conclusiva dell’album, P.L.U.C.K) droga e morte, attraverso liriche in cui incastrano alla perfezione slogan, teatro dell’assurdo, grand guignol e momenti di estasi poetica, dando vita a un affascinate guazzabuglio, concettualmente complicato, tanto quanto la loro idea di metal, che trita pop, folk, punk, jazz e cabaret in una riuscitissima alchimia. Una formula complessa, ma vincente, con cui strapparono un contratto all’American Recordings di Rick Rubin, vendendo, all’esordio, più di un milione di copie, addirittura triplicate con il successivo, leggendario Toxicity.
War? non è mai stata pubblicata come singolo, e ciò nonostante il brano fu accompagnato da un video clip, diretto da Nathan "Karma" Cox (che ha realizzato anche il loro video per Sugar), in cui la band esegue il brano mentre scorrono terribili immagini di guerra.
La canzone è apparsa anche nella colonna sonora del videogioco del 1998 Apocalypse, in una versione leggermente modificata: la censura, infatti, tagliò la frase gridata da Serj Tankian prima di “dare fuoco alle polveri”: "Praise the Lord and pass the Ammunition!" (“Loda il signore e passa le munizioni”).
Blackswan, martedì 18/07/2023
Il sesto album in studio per il quartetto inglese degli Heavy, band originaria di Bath, arriva quattro anni dopo la loro ultima pubblicazione intitolata Sons (2019). La band, composta da Kelvin Swaby (voce), Daniel Taylor (chitarra), Spencer Page (basso) e Chris Ellul (batteria), possiede da sempre un’ambivalenza stilistica, caratterizzata da due distinte anime, fuse in un solo corpus: una decisamente rock, l’atra, quella prevalente, che guarda al soul, al funky e al r’n’b.
Amen
è l’ennesimo esempio di come questa formula, non certo innovativa,
funzioni dannatamente bene, muovendosi su una linea di demarcazione che
lambisce il mainstream, senza però mai sbracare nel banale, ma creando
semmai scalette varie e decisamente divertenti.
Il disco si apre con "Hurricane Coming", un rovente r’n’b scartavetrato da un approccio garage rock, scritto dal frontman Kelvin Swaby, coinvolto nell'uragano Irma subito dopo essersi trasferito negli Stati Uniti. Una partenza a razzo, di quelle che non lasciano indifferenti, ma che vira immediatamente verso l’anticlimax di "Ain’t A Love", una sognante marcetta bluesy, accarezzata da arrangiamenti orchestrali e sporcata nella seconda parte da un polveroso assolo di chitarra.
"Bad Motharfucker" si fa spazio baldanzosa su una ritmica pimpante, le armonie sono giocose, ma è abbastanza bluesy da far venire in mente ai Black Keys, "I Feel The Love" cambia nuovamente registro e si sposa, invece, a sonorità gospel: handclapping, call and response e arrangiamento di fiati, il piede che batte, inducendo alla vertigine di un ballo in nome di Dio e dell’amore. "Messing With My Mind" chiude la prima parte dell’album con spavalde sonorità rock dal tiro dritto e diretto, batteria galoppante e lo stordente fremito elettrico di una chitarra distorta e graffiante.
La seconda parte, si apre con la contagiosa "Stone Cold Killer", un rockaccio mainstream pompato dal suono del campanaccio e dal retrogusto eighties, per poi cambiare completamente mood nelle ultime quattro canzoni.
"Just Like Summer" è puro funky soul, grande melodia, splendidi cori, contrappunto d’archi e una voce vellutata dal sapore miele e liquerizia, "Whole Lot Of Me" si muove, più o meno, sullo stesso percorso retrò, con un piglio più sensuale e un’orchestrazione più invasiva, mentre "Feels Like Rain"
spinge verso il dancefloor per un appassionato lento da ballare guancia
a guancia con l’amato/a. Chiude la scaletta la splendida "Without A Woman",
un delizioso pop soul pervaso di dolce malinconia e arrangiato
magnificamente sul misurato interplay fra chitarre, fiati e archi.
Amen è un disco breve, solo trentacinque minuti, e scorre via liscio, senza richiedere alcuno sforzo all’ascoltatore, perché la formula, anche se un po’ ripetitiva, è decisamente vincente, e le canzoni, nella loro confezione elegante e retrò, sanno conquistare con le lusinghe di un fresco e inebriante divertimento. Disco perfetto per accompagnare le sere d’estate in compagnia degli amici e di una birra ghiacciata.
VOTO: 7
GENERE: Rock, Blues, Retro Soul
Blackswan, lunedì 17/07/2023
Basta farsi un giro in rete, per comprendere come l'hype intorno ai britannici Sleep Token abbia raggiunto un livello altissimo, costruito disco su disco, a partire dal loro esordio datato 2016 (l’EP One), e ravvivato a ogni nuova uscita, che ha portato il duo dallo status di band di culto a vero e proprio fenomeno commerciale. Vessel 1 e Vessel 2, questi i nomi dei componenti del gruppo, hanno incuriosito il proprio pubblico, utilizzando l’escamotage del mistero (la band si esibisce in maschera e i musicisti nascondono completamente la loro identità) e plasmando un suono, sulle cui coordinate convergono la potenza del metal e una massiccia dose di pop, soul, trap, ambient ed elettronica. Un’idea, questa, senza dubbio vincente, se si pensa, che il primo singolo tratto da Take Me Back To Eden, "The Summoning", ha ottenuto su Spotify sette milioni di ascolti in un solo mese. Ed è altrettanto straordinario come numerosissime testate, soprattutto metal, si siano sperticate in elogi, gridando a una miracolosa “new sensation” (che proprio new non è).
Successo
meritato, dunque? Siamo davvero di fronte a un disco affascinante e
imperdibile? A parere di chi scrive, no, e per quanto abbia ascoltato e
riascoltato Take Me Back To Eden, non riesco a trovare davvero
nulla che mi faccia saltare dalla sedia per l’emozione o che mi trovi
d’accordo con chi ha incensato questo terzo album in studio.
In primo luogo, è meglio metterlo subito in chiaro, questo non è un disco di metal, che, nell’ora abbondante di durata dell’album, è il genere che trova la collocazione più residuale. Certo, alcuni brani, come la parte finale dell’iniziale "Checkhold", la citata "The Summoning" e in parte "Vore" sono belli pompati, ma non basta una chitarra ribassata o qualche estemporaneo momento di screaming, a fare di Take Me Back To Eden un disco metal. Non fraintendiamo, il suono meticcio è cosa buona e giusta, e avrebbe funzionato molto bene se le aperture pop e trap, l’appeal radiofonico, le sensazioni soul fossero state inserite in un contesto di musica estrema. Qui però accade il contrario, e le brevi escursione nel djent sembrano spinte a forza in un tessuto completamente diverso, risultando spesso poco funzionali, decontestualizzate e fuori sincrono. Cioè, inutili. Che ci si trovi di fronte a gente brava a suonare, non si può negare; ma è pur vero che, per quanto il duo abbia talento, e gli arrangiamenti siano molto eleganti, la produzione livella tutto con quel suono americano da FM e dal retrogusto adolescenziale, capace di far venire l’orticaria anche all’ascoltatore più ben disposto.
Non
aiuta, poi, il timbro vocale di Vessel 1, così sofferto, lamentoso e
impostato, da far venire in mente quello di Aaron Lewis degli orridi
Staind.
Cos’è, dunque, Take Me Back To Eden? E’ un disco costruito per accumulo, un grande melting pot in cui confluiscono generi, stili e influenze con lo scopo di creare un approccio innovativo che vorrebbe essere spericolato e seducente e che, invece, appare più confuso che altro. Come quando fai la valigia e cerchi di farci stare tutto, anche le cose completamente inutili, sedendoti sopra e sperando che alla fine si chiuda. Ma non è così. Troppo lungo il disco, troppe lunghe le canzoni, troppo artificioso il connubio. Non tutto è da buttare, certo, l’uno due inziale già citato, tutto sommato funziona, così come il morbido arpeggio che attraversa "Are You Really Ok?", e qui e là qualche spunto si trova. In scaletta, però, prevalgono un senso di disorientamento, un filo di noia e la perenne sensazione di trovarsi di fronte a un grande artificio privo di anima.
VOTO: 6
GENERE: Alternative, Metal
Blackswan, giovedì 13/07/2023
Dalle 9.00 alle 5.00…Orario Continuato, commedia datata 1980 per la regia del compianto Colin Higgins (deceduto qualche anno dopo a causa dell’Aids), nel 2000 è stata inserita dall’American Film Institute fra le cento commedie americane migliori di tutti i tempi. Merito di un mood divertito e divertente, di una trama che apre alla riflessione sociale, di un cast di attori in stato di grazia (Jane Fonda, Lily Tomlin, Dolly Parton e Dabney Coleman) e di una canzone che divenne celeberrima. Sto parlando, ovviamente, di 9 To 5, che la Parton scrisse appositamente per la colonna sonora del film, in cui debuttava anche come attrice, interpretando il ruolo dell’ingenua segretaria di un dittatoriale capo ufficio.
Strano
ma vero, la Parton ha tratto ispirazione per scrivere la canzone
dalle…sue unghie. Ai tempi, infatti, aveva delle unghie acriliche molto
lunghe e scoprì che quando le strofinava insieme poteva creare un ritmo
che suonava come una macchina da scrivere, e poiché il film parlava di
segretarie, trovava perfetto utilizzare quel suono all’interno del brano
(se aguzzate le orecchie, lo strofinamento delle unghie si riesce a
percepire, oltre al suono del campanello delle vecchie macchine da
scrivere).
Sia il film che la canzone 9 to 5, sia pure in un contesto ironico e svagato, hanno messo in luce la disuguaglianza di genere sul posto di lavoro. Dietro la patina della commedia e fra tante risate (unico modo per raggiungere un pubblico di massa), il film ha preso una posizione forte, grazie a tre splendide protagoniste che si trovano ad affrontare il loro capo, che veste gli abiti stereotipati di un uomo maschilista e denigratorio.
La canzone, quindi, possiede un tono sbarazzino che ben si adatta al film, ma le liriche sono tutt’altro che banali e suonano, purtroppo, ancora attuali: “Usano solo la tua mente e non ti danno mai credito, È abbastanza per farti impazzire se lo permetti”. E la Parton, a ben vedere, era più che qualificata per scrivere queste righe, avendo lavorato come segretaria fino al 1964 e avendo, poi, conquistato il mondo retrivo e conservatore della musica country, dominato quasi completamente dagli uomini.
9 to 5,
a dire il vero, non ha avviato alcun tipo di movimento, ma ha portato
avanti la questione della parità di genere nel mondo del lavoro. Quando
la rivolta #metoo ha preso forma, il film e la canzone sono diventati,
infatti, una pietra di paragone per misurare i progressi sulla parità di
genere, svelando la triste realtà che le donne guadagnavano ancora
molto meno degli uomini e avevano a che fare con frequenti abusi di
natura sessuale. Non è un caso, allora, che le antesignane del punk
Alice Bag, Kathleen Hanna and Allison Wolfe, nel 2018, abbiano preso
ispirazione dal film, comparendo anche come attrici, per il video di 77,
canzone di Alice Bag, che si riferisce espressamente al fatto che le
donne, ancora oggi, guadagnano solo 77 centesimi per ogni dollaro
guadagnato da un uomo.
9 To 5 ha vinto i Grammy del 1981 per la migliore canzone country e la migliore performance vocale country femminile, ha anche ricevuto una nomination ai Grammy per la miglior colonna sonora originale scritta per uno speciale cinematografico o televisivo, e ha ricevuto nomination agli Oscar e ai Golden Globe.
Il film, inoltre, venne trasformato in una serie TV che ha funzionato molto bene per cinque stagioni, dal 1982 al 1988.
Blackswan, martedì 11/07/2023
Sono passati sei anni dal loro ultimo album, Villains, prodotto dalla superstar pop-funk Mark Ronson. Un disco, quello, che vedeva i Queens Of The Stone Age flirtare con un suono più mainstream, posizionandosi, quindi, nel punto più distante possibile dai loro anni d’oro. Con questo nuovo disco, invece, la band capitanata da Josh Homme è tornata alle origini, ha preso le distanze dalla grandeur di Ronson, lavorando in solitudine nello studio del leader.
Ed è del tutto evidente che In Times New Roman c’è la volontà, da tempo mai così esplicita, di scavare in profondità nelle sabbie del deserto californiano per riscoprire le radici di un suono che ha fatto storia, il desiderio di rivendicare la magia che li ha resi così speciali e così follemente cool, quando hanno sfondato con l'intramontabile Rated R all'inizio del secolo.
Entrare
nel bunker e allontanarsi dalle influenze esterne è stata assolutamente
la cosa giusta da fare, perché questo è il suono più vitale che i
Queens Of The Stone Age abbiano imbastito negli ultimi anni, rimettendo
al centro della narrazione groove irresistibili e riff polverosi, e quel
senso di pericolo, di qualcosa di violento che sta per scatenarsi nel
cuore della notte, che è stato per lungo tempo la loro lama più
tagliente.
Il singolo "Emotion Sickness" è la canzone più diretta dell'album, un millesimato QOTSA immediatamente riconoscibile, il cui ritornello sognante controbilancia un ritmo serrato e un riff ululante, antipasto di una scaletta che torna a far battere il cuore ai fan della prima ora. Così l’opener "Obscenery" fa risplendere nuovamente il marchio di fabbrica attraverso un condensato di armonie glam, grasso di motocicletta, bourbon, fumo di sigaretta e la calura esiziale del deserto, attraverso riff di chitarra accatastati uno sull’altro e vorticosi come i muri di una stanza dopo una notte di eccessi.
Un basso distorto porta ad ebollizione "Negative Space", resa inquieta dal falsetto spettrale e pieno di amarezza di Homme, la cadenzata "Made For Parade" dispiega lascive lusinghe melodiche in un ritornello incredibilmente sensuale, "Carnavoyeur" flirta con la tenebra e canalizza il fantasma di David Bowie in un frastagliato arcipelago di synt e bassi distorti, "What The Peephole Say" scorre veloce trascinata da una linea di basso killer ed pervasa da un’ansiosa urgenza post punk, mentre le alchimie dal vago sapore mediorientale aprono le sonorità di "Sicily" a un inquietante scenario psichedelico ammorbato dal tanfo dello zolfo.
Il fantasma di Bowie perseguita anche "Straight Jacket Fitting",
un attacco di panico di nove minuti in cui le armonie di Homme suonano
come le voci di un tormento interiore, mentre le catene tintinnano e
tutto è buio e malevolo, finchè, all’improvviso, la porta si apre e
finalmente penetra la luce riverberata da un dolce e rilassante outro
acustico.
Se da un po’ di anni Homme aveva perso l’ispirazione che aveva segnato i primi quattro, splendidi album, In Times New Roman segna un ritorno inaspettatamente vibrante, che mostra la scorza dura di una musica che il tempo aveva sbiadito, ma che oggi torna a vestire un abito nero come la pece, sensuale e seducente. I giorni di gloria sono lontani, ma la distanza si è di molto assottigliata, e se è vero che mancano hit spaccatutto come "Go With the Flow" e "No One Knows", è altrettanto vero che queste dieci canzoni hanno un futuro e si faranno ricordare. Almeno fino al prossimo capitolo della saga.
VOTO: 8
GENERE: Stoner, Rock
Blackswan, lunedì 10/07/2023
For What It's Worth è uno dei grandi classici della canzone rock americana, un brano da sempre considerato come un inno di protesta. Scritta dal chitarrista Stephen Stills, questo successo dei Buffalo Springfield, datato 1966, non parlava però di manifestazioni contro la guerra, ma fu ispirata da un tema ben più prosaico, visto che si riferiva a spontanei raduni giovanili che protestavano contro una disposizione di legge che ordinava la chiusura del nightclub Pandora's Box di West Hollywood. Stills non era mai stato in quel club, ma ne aveva sentito parlare spesso dai suoi compagni di band.
Il
chitarrista aveva un’idea che gli frullava per la testa, e cioè
raccontare a modo suo qualcosa su quei ragazzi che erano partiti per il
fronte del sud-est asiatico a combattere una guerra assurda, ma non
sapeva bene come approcciarsi. Un giorno, mentre si trovava a
passeggiare con un amico sul Sunset, con grande stupore, si trovò
innanzi a una bizzarra manifestazione, la rappresentazione simbolica di
un funerale per il Pandora’s Box, uno dei luoghi preferiti dai ragazzi
delle scuole superiori e dell'UCLA per andare a ballare e ascoltare
musica.
Stills non rimase tanto colpito dallo sfilare pacifico di circa tremila ragazzini, quanto piuttosto dalla presenza della polizia antisommossa, un’intera compagnia della polizia di Los Angeles in completo assetto da battaglia, con scudi ed elmetti, pronti a caricare. Ma non c’erano sommosse o saccheggi, solo un composto sfilare e qualche innocuo slogan. Stills non riusciva a capacitarsi del perché di questo sproporzionato schieramento delle forze dell’ordine e quali fossero i veri motivi per cui ci si accaniva per chiudere un club, dove i ragazzi si limitavano a ballare e a divertirsi. Era una cosa ingiusta e senza alcun motivo. Così, appena rientrò a Topanga, dove risiedeva, trovò subito l’abbrivio per scrivere il testo e a completare la canzone. Il tutto in quindici minuti.
Il brano non compare su Buffalo Springfield, il primo omonimo disco della band, ma dopo che For What It's Worth divenne un singolo di successo, venne inserita nelle ristampe dell’album sostituendo Baby Don't Scold Me.
La canzone, rispetto al resto della scaletta, ebbe un approccio alla
registrazione completamente diverso, perché la band si rifiutò di
coinvolgere i due produttori, Charles Greene e Brian Stone, con i quali
avevano avuto continui dissidi durante la lavorazione del materiale.
Greene e Stone, infatti, avevano insistito per registrare ogni musicista
separatamente e poi combinarli successivamente in tracce da mono a
stereo, il che produceva un suono metallico, dal quale la band era
disgustata.
Nonostante fosse una canzone di protesta, For What It's Worth venne utilizzata negli anni ’90 in un jingle che pubblicizzava la birra Miller. Il messaggio anti establishment venne, ovviamente, del tutto ignorato, tanto che la canzone fu modificata, eliminando la frase "C'è un uomo con una pistola laggiù, che ti dice che devi stare attento". Stills, più volte pungolato sull’argomento, si è sempre messo sulla difensiva, sostenendo che i Buffalo Springfield non erano un gruppo militante e che lui trovava profondamente stupido prendere posizioni politiche attraverso le canzoni. Questo fu uno dei motivi per i rapporti non proprio idilliaci con Neil Young che, pur facendo parte della band, ogni tanto sbatteva la porta e se ne andava, e che, poco prima che For What It's Worth finisse in uno spot pubblicitario, scrisse This Note's For You (1988), una canzone che attacca frontalmente tutti quegli artisti che svendono la propria arte a scopi di lucro commerciale.
Blackswan, giovedì 06/07/2023
Benedetti anni ’70 e benedetti Rival Sons, il gruppo che, a tutt’oggi, è probabilmente il miglior interprete delle sonorità risalenti a quel decennio d’oro. Darkfighter è il primo album in studio dal 2019, da quando cioè la band originaria di Long Beach pubblicò Feral Roots, splendido disco con cui ottenne anche una candidatura ai Grammy.
Per lo più scritto e registrato durante la pandemia, questo nuovo lavoro ha dato alla band un'opportunità d'oro per affinare la propria arte e mettere ulteriormente a fuoco il proprio suono distintivo, diventato ancora più ricco e più maturo. I Rival Sons, insomma, dimostrano di essere, se mai ce ne fosse stato bisogno, una macchina da guerra collaudatissima, con un proprio stile e una propria identità, tanto che pigri paragoni con grandi band del passato, Led Zeppelin su tutte, sono ormai solo meri esercizi di stile giornalistico che non hanno più ragione d’essere.
In cabina di regia torna nuovamente Dave “Re Mida” Cobb, che anche fuori dagli steccati dell’americana, si trova meravigliosamente a suo agio. Nello specifico, mette lo zampino pure in alcune delle esecuzioni, e soprattutto, forgia un suono dal tiro pazzesco, capace di essere, al contempo, secco, pulito e letale, ma anche morbido come il velluto. Un disco, quindi, ancora più consapevole e maturo, in cui oltre alla qualità del songwriting, troviamo una band in gran spolvero, professionale al massimo, certo, ma ancora capace di lasciarsi emozionare dalla passione. Il timbro emotivamente inconfondibile di Jay Buchanan, lo scattante istrionismo della chitarra di Scott Holiday, le solide fondamenta create dal batterista Mike Miley e dal bassista Dave Beste, e le pennellate del tastierista Todd Ögren, sono il marchio di fabbrica con cui la band si distingue dalla massa.
Ed è proprio l’hammond di Ögren ad aprire le danze con le prime note di "Mirrors", un brano che solo in parte può richiamare alla memoria gli Zep, visto il riff graffiante di Holiday, ma che poi prende direzioni diverse, in un incastro armonico e complesso di momenti energici e altri deliziosamente delicati. Una canzone, questa, che dimostra come la band, disco dopo disco, sia cresciuta, e non poco, a livello di scrittura.
Ciò è del tutto evidente anche nella successiva "Nobody Wants to Die", in cui Buchanan canta il terrore esistenziale, l'inevitabilità del destino e la realizzazione che la vita è fugace, argomenti probabilmente ispirati dalla pandemia. "Niente ti salverà, ma qualunque cosa tu faccia, ti verrà dietro", canta Buchanan. Una canzone che fila via alla massima velocità, con ritornelli punk rock costruiti attorno a furiosi accordi e strofe cariche di pathos. Un gioiello, insomma.
"Bird in The Hand" è, invece, quanto di più vicino alla classica canzone rock blues che era la formula standard dei primi Rival Sons. Buchanan usa le immagini del battesimo per cantare sulla ricerca della redenzione. "Quando pensi che non ti sia rimasto nessun posto dove andare, è allora che ti aggrappi forte al diavolo che conosci", declama sopra un croccante shuffle blues.
L'esplosiva "Guillotine" è la traccia più pesante di Darkfighter e forse anche la sua canzone migliore. Il brano cambia ripetutamente di tempo e intensità, i ritornelli iniziano piano, con Buchanan che canticchia mentre suona una chitarra acustica, e poi improvvisamente lasciano il passo a una corrosiva potenza, mentre Buchanan letteralmente urla sopra un riff forte e distorto. Hard rock, psichedelia e melodia: un’autentica bomba!
Quei cambiamenti dinamici mostrano il target compositivo della band, che si regge su una sezione ritmica assassina, sul suono della chitarra di Holiday, che sa essere sia caldo che minaccioso, e sulla voce di Buchanan, che si alterna tra un cantato pieno di sentimento e un ululato feroce. Solo otto tracce compongono la scaletta di Darkfighter, ma questi quaranta minuti sono di livello altissimo.
Tra riff rumorosi e hook melodici irresistibili, ogni nota suona essenziale, dando vita a un filotto di composizioni intense e suonate con straordinaria consapevolezza. La band è in evoluzione, e si sente che continua a migliorare. Di certo, questa tavolozza di colori rock blues (ma non solo) dipinge lo status di un gruppo in palla, che scrive grandi canzoni, magari non immediate, ma che quando entrano in circolo, fanno ribollire il sangue. Discone.
VOTO: 8
GENERE: Classic Rock, Rock Blues, Hard Rock
Blackswan, martedì 04/07/2023
Paladini di un rock mainstream e disimpegnato, i losangelini Buckcherry tornano con un decimo album in studio, intitolato, guarda un po', proprio Vol.10. Niente di nuovo sul fronte occidentale, perchè la formula, dopo trent’anni quasi di carriera, è pressochè immutabile: riff schiacciasassi, gancio radiofonico e immancabile assolo di chitarra.
Eppure
stupisce come, nonostante l'età che avanza e un approccio alla vita
segnato da un’inevitabile maturità (il cantante Josh Todd, nel
frattempo, è diventato nonno), il disco sia attraversato da quella
inesausta e vibrante energia, che continua a essere il carburante nobile
della band. Undici canzoni in scaletta che evocano Guns and Roses,
Aerosmith e Ac/Dc, ma che possiedono, comunque, quel distintivo mood
cazzaro e festaiolo, da sempre identificato nella loro, censuratissima,
signature song di qualche anno fa, "Too Drunk Too Fuck".
Insomma, se è il divertimento che cercate nel rock, qui ce n'è da fare
indigestione, sia per i fan di vecchia data, sia per tutti coloro che
intercettano il gruppo per la prima volta.
"This And That" apre le danze con un invitante hand clapping, basso funky, batteria quadrata e chitarre graffianti, per un groove rock blues su cui scintilla la bella voce di Todd, mentre la successiva "Good Time" scartavetra la pelle con il tiro esiziale di un riff abrasivo, un solo di chitarra micidiale e la voce di Todd che, a dispetto dei suoi 53 anni, continua a essere una delle armi migliori dell’arsenale Buckcherry.
Nel complesso, il precedente Warpaint (2019) era più duro e rabbioso, e suonava un po’ tutto esattamente come "Keep On Fighting", uno degli highlights di Vol.10
e vera e propria dichiarazione d’intenti, che si srotola adrenalinica
con quell’attitudine punk che, quando emerge, alza immediatamente il
livello della proposta. Ciò non toglie, tuttavia, che la band sappia
comunque scrivere ottime canzoni rock come "Turn It On", che
prediligono il groove all’assalto frontale, evocando, nello specifico i
primi Guns, o quando si cimentano nella ballata, come in "Feel Like Love", in cui la band guarda con nostalgia agli anni ’80, e centra il bersaglio, nonostante una spolverata di zucchero di troppo.
"One And Only" è uno dei brani più duri dell’album e possiede un mood oscuro, la batteria è martellante, i riff scricchiolanti, la voce di Todd è un ringhio cattivo, gli assoli urticanti e letali. L’ennesimo gioiellino che conferma come in scaletta non ci sia un solo momento di stanca, e se anche mancano digressioni dalla consueta narrazione e tutto suona quasi ovvio, il livello di intensità e di passione vince a mani basse, portando a casa il risultato. Perché ogni canzone, anche se già ascoltata più volte, suona vibrante, cazzuta e divertente, esattamente come "Shine Your Light", un rockaccio diretto e senza fronzoli, trainato da una potente linea di basso e dalla consueta, eccellente prova vocale di Todd, e "Let's Get Wild", una brillante concessione all’amore di sempre, gli Ac/Dc, richiamati da un riff e dal suono della chitarra, in tal senso, inconfondibili.
Se il groove che attraversa "With You" al galoppo di una ritmica pesantissima, è devastante come un treno merci in corsa, a rischio deragliamento, l’intensa "Pain", crea una sorta di anticlimax, aprendo le porte a una splendida ballata per pianoforte, il cui crescendo, malinconico e struggente, è una delle vette del disco.
L'album si chiude con un’ottima cover di un super classico rock, e cioè "Summer Of ‘69" di Bryan Adams, riletta in perfetto stile Buckcherry, e degna conclusione di un disco vibrante dalla prima all’ultima nota.
VOTO: 7,5
GENERE: Sleaze Rock, Hard Rock, heavy Metal
Blackswan, lunedì 03/07/2023