Alla
vigilia di Natale, una visita scolastica allo zoo si trasforma in una
catastrofe. Cosa è successo esattamente? I genitori di Josephine, la
bambina che aveva preso parte alla gita, e che sembra saperne molte
cose, sono decisi a scoprirlo. Ma una catastrofe non arriva mai da
sola, le apparenze ingannano e la storia prenderà una piega che nessuno
avrebbe potuto immaginare...
“Con
La Catastrofica Visita Allo Zoo, che avete appena terminato di leggere,
ho cercato, con modestia e umiltà, di scrivere un libro che potesse
essere letto e condiviso da tutti i lettori, chiunque essi siano e
ovunque si trovino, dai sette ai centoventi anni.”
Dopo
una carriera fulminante e milioni di copie vendute, arrivato al suo
settimo romanzo, Joel Dicker cambia completamente pelle, abbandona
(momentaneamente) il genere thriller che lo ha reso universalmente
celebre, e si cimenta nell’ardua impresa di scrivere un racconto per
bambini che, come spiegato nelle poche righe estrapolate dalla bella
postfazione al libro, possa però arrivare al cuore di tutti, grandi e
piccini.
Quando
la scuola per bambini speciali viene chiusa a seguito di un
allagamento, i sei piccoli alunni che la frequentano iniziano a indagare
con l’aiuto di una nonna tabagista e di un poliziotto ricoverato in
ospedale per essere stato investito durante una lezione di sicurezza
stradale. A raccontare gli eventi, in un susseguirsi divertentissimi di
colpi di scena che sfoceranno nella catastrofica visita allo zoo, è la
piccola Josephine che, diventata grande, intraprende con successo la
carriera di scrittrice.
Chi ha allagato la scuola? E per quale motivo?
Dicker,
partendo da questo spunto “poliziesco”, conduce il lettore nel mondo
dei bambini, raccontandone il rapporto con gli adulti e le istituzioni, e
affrontando temi universali, e mai come oggi d’attualità, come la
diversità, l’inclusione, la democrazia, la funzione della scuola e della
scrittura. Temi alti, ma affrontati con semplicità, un tocco surreale e
senza retorica, attraverso una prosa snella, ma quanto mai centrata, e
soprattutto un mood ironico, che è la vera novità di una scrittura, che i
tanti fan dello scrittore svizzero conoscono a menadito.
I
dialoghi sono brillanti, i personaggi vengono tratteggiati con
semplicità ma anche con pennellate vividissime, e la storia, davvero
divertente, cattura fin dalle prime pagine e risucchia il lettore verso
il commovente finale che spiegherà il piccolo segreto nascosto dietro
l’allagamento della scuola.
E’
probabile che qualche fan di Dicker resterà deluso da questo nuovo
corso, mai così lontano da tutto quello che il noto romanziere ha
scritto fino a ora. Eppure, La Catastrofica Visita allo Zoo è
un gioiellino, un piccolo grande libro (si legge in un paio di giorni)
che azzera le distanze (emotive) tra adulti e bambini, e che parlando di
inclusione e di democrazia (concetti spiegati con chiarezza assoluta),
parla soprattutto d’amore: amore per il prossimo, amore per
l’insegnamento, amore per la verità e per il libero pensiero, amore per
una donna.
La
breve postfazione scritta dallo stresso Dicker è un commosso omaggio
alla sempre più residuale, ma viva e combattiva, comunità dei lettori: “Eccolo
il vero successo dei libri…Riconciliare le persone, permettere loro di
incontrarsi, di ritrovarsi. E’ questo il vero potere della letteratura.”
Se
si ci approccia banalmente a questa canzone, facendo leva su
quell’iconografia che vede il rock come musica del Diavolo (le corna di
Ronnie James Dio erano un marchio di fabbrica, per dirne una) "Holy
Diver" potrebbe essere interpretata come una canzone che parla di Satana
e della sua discesa all'Inferno (il suo "tuffo"). D’altra parte, la
copertina dell'album (il primo disco solista dei Dio) raffigura Satana
che frusta un prete con una catena, mentre il prete è legato e in balia
di un mare tempestoso (cosa, che ai tempi, suscitò più di una
controversia). La canzone, però, nelle intenzioni di Dio, riveste tutto
un altro significato.
"Holy
Diver" parla in realtà di una figura assimilabile a Cristo, che su un
altro pianeta, non sulla Terra, vorrebbe seguire lo stesso percorso di
sacrificio che Gesù ha fatto per gli esseri umani: morire per i peccati
dell'uomo così che l’uomo possa ricominciare da capo, essere purificato e
vivere nel bene. La medesima storia accaduta sulla terra si
riproporrebbe così in un altro luogo, i cui abitanti chiamano Gesù il
Santo Tuffatore, perché sceglie di morire, di fare un tuffo nell’aldilà
al fine che gli abitanti del pianeta siano assolti dai loro peccati e salvati
dal fuoco eterno dell’Inferno. La gente in terra, però, si ribella, non
vuole che vada, pretende, in un surplus di egoismo, che il Cristo resti
con loro e li protegga dal male.
Lungi
da avere riferimenti a Lucifero, questa canzone (che rielabora alcuni
passi dell’Apocalisse) è semmai un'espressione della ribellione di Dio
contro la sua educazione cattolica, che secondo il cantante ha finito
per distorcere il messaggio più profondo della religione. Invece di
insegnare con amore, le suore che lo avevano educato mantenevano la
disciplina schiaffeggiando i ragazzi con i righelli e dicendo loro che
sarebbero andati all'Inferno se non si fossero comportati bene.
Dio ha successivamente chiarito: “Nel
mio caso, ho sempre cercato di essere qualcuno che avverte le persone
che c'è il bene e c'è il male, e che hai una scelta, e fai del tuo
meglio. La scelta probabilmente è non essere malvagio. Questo è ciò che
il male può farti, questo è ciò che il male ha fatto alle persone che
conosco. Dipende dalla tua prospettiva del male, però, voglio dire, le
droghe sono malvagie…andare in giro con persone malvagie ti farà
diventare una persona malvagia. Questi sono i temi che ho cercato di
affrontare in un modo più oscuro”.
"Holy Diver" fu inserita in un episodio di South Park
in cui Dio (in forma di cartone animato) appare esibendosi in un ballo
di scuola elementare con una scimmia alla batteria. Dio, inizialmente,
rifiutò il consenso all’uso della canzone, ritenendo che lo scopo
sarebbe stato quello di prenderlo in giro e che il passaggio nella serie
l’avrebbe messo molto in imbarazzo, ma fu convinto dagli autori dopo
che gli dimostrarono di essere grandi fan della sua musica. Tanto che,
dopo che la puntata andò in onda, il cantante dichiarò a NME: “Sono
stati molto gentili con me. Magari non tanto con il batterista, ma con
me sono stati molto gentili. Inoltre, se vuoi essere un'icona in qualche
modo, devi farlo! Devi essere in un episodio di South Park!”.
Belga
di nascita, egiziano d’origine, Tamino-Amir Moharam Fouad, al secolo
meglio conosciuto col nome di Tamino, si è costruito in poco tempo una
solida reputazione, riuscendo a contemperare due attività parallele,
quella più effimera di modello (Missoni, Fendi, Valentino) e quella di
musicista, a seguito della quale ha pubblicato in otto anni tre EP e due
album in studio. Every Dawn's A Mountain, terza prova sulla
lunga distanza, ne conferma la statura di songwriter profondo e
sensibile, lontano per qualità di scrittura dal mainstream e refrattario
alle mode del momento, quelle che invece sposa con fascino e sensualità
durante le sfilate.
La
sua terza fatica è stata realizzata in luoghi diversi (principalmente
nel suo appartamento di New York, ma anche in una chiesa di New Orleans,
nello studio di Bruxelles e nelle stanze d'albergo sparse durante i
tour), e ne consegue che le dieci tracce in scaletta, nella loro scarna
brillantezza, racchiudano un suono e una visione che abbraccia culture e
continenti, in una sottile prospettiva cosmopolita. Culmine di anni di
studio musicale, di infiniti concerti ed esperienze vissute, Every Dawn's A Mountain
rappresenta Tamino nella sua massima espressione. Un percorso in cui il
musicista belga ha fatto suoi alcuni evidenti riferimenti musicali,
dando però vita a un suono distintivo, che coniuga trame musicali esili e
strutture talvolta scheletriche a una forza espressiva che ha pochi
eguali.
E’
questo il maggior punto di forza di un disco intimo ed evocativo,
eppure incredibilmente potente: la bravura di Tamino di toccare il cuore
dell’ascoltatore senza bisogno di artifici, e di adattare la sua voce
profonda e versatile all’incredibile minimalismo e all'understatement della
mise en place. Dieci canzoni, dicevamo, costruite con pochi strumenti
(prevalentemente la chitarra e l’oud arabo), in cui la voce calda e
avvolgente di Tamino resta in bilico con sofisticata dolcezza fra
Oriente e Occidente, creando atmosfere dal sapore quasi cinematografico.
La
scaletta si apre con l’ossuta "My Heroine", un brano che nella sua
solenne semplicità evoca certe trame austere ascoltate da Mark Kozelek, e
il cui minimalismo torna sgranato nel sussurro profondo di "Willow".
Intorno a questi due brani tanto intensi quanto asciutti, ruota
l’ispirazione di un musicista maturo e consapevole, che dipana trame
eteree pronte a gonfiarsi di emotività nel crescendo di una voce che
spinge le tre ottave di estensione verso il fascino misterioso di un
cielo mediorientale ("Babylon") o che richiama gli struggimenti
malinconici cari a Jeff Buckley in duetto con Mitski, in cui il limpido
contrasto tonale trafigge il cuore attraverso versi brucianti come: "Soffri per la tua lotta, Soffri per la tua lotta, Per mantenere vivo il passato. Ti delude ancora?" ("Sanctuary").
Le
emozioni s’intrecciano per tutta la durata di un disco (quarantasei
minuti) che è tutto tranne che immediato, ma a cui ripetuti ascolti
donano nuove sfumature, inaspettate suggestioni. La title track, ad
esempio, che campiona le armonie di un coro belga alle prese con
un'antica polifonia fiamminga, per poi stabilizzarsi su una chitarra
delicatamente pizzicata, racchiude gli elementi centrali dell'album
(testi introspettivi di dolore e rimpianto, un mix di influenze europee e
mediorientali, una produzione stratificata e vocalizzi spontanei), la
tensione melodrammatica trattenuta di "Elegy" evoca i migliori e più
struggenti Radiohead, mentre i quasi sette minuti di Dissolve
(un immaginario punto d’incontro tra Jeff e Tim Buckley) vedono Tamino
usare la sua voce come strumento per aggiungere spessore emotivo a
osservazioni già di per sé devastanti: "Un bambino alienato, Che raccoglie margherite ai bordi della strada, Re di un paese straniero, Che mendica briciole in città".
La canzone è un commento velato di un mondo nel caos, un mondo senza
scopo, che dissolve così i confini tra un'alba e l'altra, quelle albe
che, come suggerisce il titolo, sono montagne (da scalare). Giorno dopo
giorno.
L'album si chiude con "Amsterdam",
una lettera d'amore inviata alla città in cui Tamino ha vissuto a lungo
e che ricorda la sua formazione musicale presso il locale Conservatorio
Reale. Il brano onora, scava e purifica il passato di Tamino, mettendo
in luce nuovamente il messaggio di fondo che caratterizza un filotto di
canzoni che suonano tanto come un addio a ciò che è stato in passato
quanto come un’invocazione ottimista per il futuro.
Every Dawn's A Mountain
è disco che richiede qualcosa in più di un ascolto ordinario: bisogna
abbandonarsi alle suggestioni che evocano il deserto, la solitudine e il
cielo stellato, diventando parte del tutto. Solo così si potrà
assaporare pienamente la cifra stilistica di un album dal lirismo
magnetico e amaramente malinconico.
Londra,
estate 1914. Mentre l'Europa si avvicina inesorabilmente alla Prima
guerra mondiale, Venetia Stanley, un'affascinante giovane donna
dell'alta società londinese, intrattiene un fitto carteggio con il primo
ministro Herbert Asquith, un uomo sposato con più del doppio dei suoi
anni. Venetia è la sua amante clandestina, la sua unica confidente sulle
questioni di Stato e, nelle appassionate lettere che i due innamorati
si scambiano quasi quotidianamente, Asquith la mette al corrente di
informazioni confidenziali sul futuro dell'Europa e di telegrammi
diplomatici di estrema riservatezza. Fino a che una grave fuga di
documenti sensibili e il conseguente rischio di violazione della
sicurezza nazionale non mettono in allarme le alte cariche governative.
Paul Deemer, un giovane agente dei servizi segreti, viene ingaggiato per
avviare un'indagine in merito. Non ci vuole molto perché Deemer risalga
alla relazione tra Asquith e Venetia, e quindi a un loro possibile
coinvolgimento nella vicenda. Ciò che da principio appare un semplice
scandalo amoroso si trasforma rapidamente in un affaire ad alto rischio,
in grado di cambiare per sempre il corso degli eventi.
Una premessa è quasi d’obbligo: nonostante sia stato pubblicizzato come un thriller ad alta tensione, Precipizio
non lo è. E’ semmai un romanzo storico, che racconta, attraverso la
scrupolosa ricostruzione dello studioso (e Robert Harris lo è), la
scandalosa storia d’amore fra il Primo Ministro Inglese, Herbert
Asquith, e Venetia Stanley, giovane pupilla di un’altolocata famiglia
della società londinese.
Un
amore che si sviluppa attraverso il contenuto di cinquecentosessanta
lettere inviate dal premier all’affascinante amante, lettere
perfettamente conservate, e qui riprodotte fedelmente (non tutte e non
tutte nella loro interezza), epurate solamente, su richiesta degli
eredi, delle parti che avrebbero potuto mettere in cattiva luce il
politico (immagino gli ammiccamenti più torbidi e sensuali). Una
relazione clandestina, vissuta di incontri fugaci e attraverso un
intenso carteggio (le lettere di risposta di Venetia sono il frutto
della fantasia dell’autore) con cui Asquith non si limitava ad
abbandonarsi al deliquio amoroso, ma confidava all’amata anche decisivi
segreti politici, innescando così un’indagine degli allora servizi
segreti di Sua Maestà.
Se
la ricostruzione storica è coinvolgente nella sua accuratezza, non è da
meno l’approfondimento psicologico di due personaggi mirabilmente
tratteggiati. Da un lato, un uomo anziano, politico moderato, capace
anche di intuizioni progressiste e abile affabulatore, ma totalmente in
balia di sentimenti che, pagina dopo pagina, si trasformano in
un’ossessione così totalizzante da distoglierlo dai gravi impegni
politici del momento. E poi Venetia, giovane di una bellezza non
convenzionale, intelligente e fascinosa, donna indipendente in un mondo
ancora fortemente ancorato a tradizioni rigidissime, una miscela
esplosiva di sensualità, empatia e cultura, di slanci generosi e calcolo
individualista.
Sullo
sfondo della vicenda, l’incombente primo conflitto mondiale, a cui
l’Inghilterra finisce per partecipare a causa dello slancio
guerrafondaio di Winston Churchill, politico astuto e cinico, che
Asquith, risucchiato letteralmente dalla sua liaison con la Stanley, non
riesce ad arginare. E mentre in Turchia, in Francia e in Belgio,
soldati mandati al macello muoiono come mosche (gli infiniti elenchi dei
caduti in battaglia riportati dai tabloid dell’epoca), a Londra la vita
dei nobili, dei notabili e dell’alta borghesia continua come se nulla
fosse, fra party, ricevimenti, cene eleganti e rilassanti gite in
campagna. In tal senso, Harris è abile a raccontare il passato per
fotografare benissimo un presente a cui la storia non ha insegnato
nulla, un presente in cui morte e distruzione sono all’ordine del
giorno, mentre un politica sempre più spietata e disumanizzata trama per
potenziare gli armamenti alla faccia dei tanti innocenti, falcidiati da
guerre insensate.
Pyromania,
lo sanno anche i sassi, è il capolavoro dei Def Leppard, un best seller
da milioni di copie vendute (dieci milioni solo negli Stati Uniti),
trainato da un filotto di canzoni favolose, tra cui "Photograph", "Rock!
Rock! (Till You Drop)", "Foolin’", "Too Late For Love" e, ovviamente
l’iconica "Rock Of Ages". Quest’ultima, scritta per emozionare folle
grandi quanto uno stadio, fu definita dal cantante della band, Joe
Elliott, una "chiamata alle armi", e fu pubblicata come secondo
singolo tratto dall'album, dopo "Photograph", altro brano dagli
entusiasmanti connotati innodici.
Di
cosa parla questa canzone? La band aveva scritto la musica ma aveva
difficoltà a trovare i testi. Una notte, nei locali in cui la band stava
registrando, si riunì anche un gruppo di studio biblico, per analizzare
e discutere alcuni passaggi del testo sacro. Il giorno dopo, Joe
Elliott trovò per terra, evidentemente smarrita da uno dei fedeli, una
Bibbia aperta sull'inno "Rock Of Ages". L’ispirazione fu immediata, la
frase fu utilizzata nel ritornello e diede anche il titolo al brano, i
cui testi, suggestionati dall’inaspettato rinvenimento, evocano
infuocati clichè rock, attraversati da un “ardore” spirituale che ben si sincronizza con il titolo dell’album, Pyromania:
"Accenderò un incendio
Accendiamo una luce
Esploderemo come la dinamite"
"Rock of Ages" inizia con una voce che dice qualcosa come "Gunte Glieben Glauten Globen".
Il che non significa assolutamente nulla. Semplicemente, il produttore
della band, Mutt Lange, si era stancato di contare il solito "1, 2, 3, 4...,"
per dare il via alla registrazione del pezzo, e così si era inventato
quelle parole senza senso, che vennero tenute anche nella versione
definitiva della canzone.
Da
notare che non ci sono chitarre nelle strofe, che invece entrano con
forza nel ritornello, e che l’andamento del brano è segnato dall’uso del
campanaccio. Mutt Lange era un produttore estremamente versatile e
amava utilizzare tutti gli escamotage tecnologici conosciuti ai tempi
per rendere il suono il più moderno possibile. Tuttavia, la brillante
produzione del brano viene controbilanciata dal suono pastorale del
campanaccio, uno strumento che evoca brani rock classici come
"Mississippi Queen" dei Mountain e "Honky Tonk Women" dei Rolling
Stones. La canzone, poi, a detta dello stesso Elliott, fu ispirata "I
Love Rock And Roll" di Joan Jett. L’idea non era certo quella di copiare
la canzone (anche se il ritornello...), ma, semmai, di replicarne lo
stile, e di spingere sulla componente innodica, creando un ritornello
che fosse perfetto per il singalong.
Le
liriche di apertura, inoltre, sono un riferimento esplicito a "My My,
Hey Hey (Out Of The Blue)" di Young, pubblicata nel 1979 su Rust Never Sleeps.
"Ho qualcosa da dire...
È meglio bruciarsi
Che svanire!"
Questa
frase può essere interpretata come un clichè perfetto per descrivere la
vita di una rockstar, in quanto evoca una vita vissuta a cento all’ora,
costi quel che costi. I Def Leppard, più di molte altre band, pagarono
un caro prezzo per la loro vita veloce. Nel 1984 il loro batterista Rick
Allen perse un braccio dopo aver perso il controllo della propria
Corvette su un tratto pericoloso di strada vicino a Sheffield, in
Inghilterra. Il cantante Joe Elliott e il chitarrista Phil Collen
rimasero sobri da quel momento in poi, ma l'altro chitarrista, Steve
Clark, non riuscì a liberarsi dalle dipendenze e morì per overdose di
farmaci nel 1991.
Un
artista con un leggendario passato alle spalle, un’artista con un
luminosissimo futuro davanti a sé. Elton John e Brandi Carlile, due
mondi apparentemente inconciliabili anagraficamente (John è del 1947,
Brandi del 1981), geograficamente (uno inglese, l’altra americana) e
musicalmente (uno figura eminente del pop britannico, l’altra ex enfant
prodige della scena folk statunitense, che negli anni ha però ampliato
il proprio spettro espressivo) vengono a contatto e fanno scintille. Un
azzardo perfettamente riuscito, nonostante non poche difficoltà
iniziali.
Alla
fine, nonostante le evidenti differenze, a prevalere sono stati i
numerosi punti in comune, a partire dall’appartenenza di entrambi alla
comunità LGBT, dallo sguardo nostalgico verso gli anni ’70, da condivisi
eroi musicali e, soprattutto, dall’abitudine a intrecciare interessanti
collaborazioni.
La
Carlile, infatti, ha fondato le Highwomen, supergruppo con Amanda
Shires, Natalie Hemby e Maren Morris, e ha lavorato con artisti del
calibro di Soundgarden, Willie Nelson, Sting, Sam Smith e da ultimo con
Joni Mitchell, con cui ha dato vita allo splendido live al Newport Folk
Festival. Da parte sua, Elton John, oltre alla storica partnership con
Bernie Taupin, annovera collaborazioni con Leon Russell (The Union del 2010), ha pubblicato un album di duetti (Duets nel 1993) e il suo ultimo disco, The Lockdown Sessions
del 2021, è stato registrato durante la pandemia con artisti che
spaziano da Dua Lipa e i Gorillaz a Eddie Vedder e Stevie Wonder.
In
quel lavoro, compariva anche Brandi Carlile nella bella "Simple
Things", che è stato il momento in cui le rispettive anime musicali
hanno compreso di essere molto più affini di quanto si potesse
prevedere.
L'idea
per un album insieme è venuta, successivamente a John, che la propose a
Carlile durante un pranzo nella sua casa di Los Angeles dopo la
conclusione della tappa americana del suo tour Goodbye Yellow Brick Road.
Al momento del caffè, era tutto concordato: Andrew Watts avrebbe
prodotto e Bernie Taupin avrebbe scritto i testi per quella che sarebbe
stata un vero e proprio disco condiviso, con canzoni composte a otto
mani. Le cose, almeno all'inizio, non andarono troppo lisce: Elton era
esausto e irritabile, e ora sappiamo che dopo alcuni anni già difficili
gli è venuto un grave problema alla vista, che (per il momento) lo ha
reso di fatto cieco.
Poi,
è scoccata la scintilla, e il risultato è stato un filotto di canzoni
che è molto di più della somma delle sue due parti. In Who Believes In Angels?
si percepisce la presenza di due musicisti perfettamente affiatati, le
cui voci si fondono in modo impeccabile, e il pianoforte di uno e la
chitarra dell’altra vivono in armoniosa sintonia. Ne deriva una
scaletta coloratissima, frizzante e potente, in cui pop e rock si
combinano dando vita a uno sguardo nostalgico sugli anni ’70, ma anche a
momenti di travolgente entusiasmo luminoso e glitterarato, frutto di
una sintonia registrata in modalità divertissement.
Al
successo, poi, hanno contribuito un pugno di musicisti dal nobile
pedigree, Chad Smith (Red Hot Chili Peppers), Pino Palladino (Nine Inch
Nails, Gary Numan e David Gilmour) e Josh Klinghoffer (Pearl Jam, Beck),
e la produzione quanto mai centrata di Andrew Watts (capace di
resuscitare il suono del miglior John).
Tutto
qui è clamorosamente glamour, ma senza ostentazione, a partire dalla
coloratissima copertina, un abbagliante rétro anni Settanta con
riferimenti a Tina Turner e ai Village People, a Amy Winehouse e Little
Richard, quest'ultimo celebrato nello scattante secondo brano in
scaletta, "Little Richard's Bible", che pare sia stato il momento di
svolta in quelle sessioni di registrazione che all’inizio sembravano
avviarsi verso il disastro.
E
che lo sguardo sia rivolto verso il passato di eroi musicali condivisi,
lo si comprende immediatamente, appena parte l’opener "The Rose Of
Laura Nyro", omaggio commosso alla songwriter newyorkese venuta
a mancare nel 1997. Un brano composito, che si apre con un
lussureggiante intro di tastiere, citando la splendida "Eli’s Coming"
(dall’iconico Eli And The Thirteenth Confession del 1968),
prosegue con uno splendido assolo di chitarra blues che introduce alla
più classica ballata alla Elton John. Una melodia sfavillante destinata a
restare nel tempo, forse la vetta di un disco che ha davvero pochi
momenti prescindibili (la seconda parte è meno riuscita della prima), e
che rende onore a una musicista, della quale Elton John ha detto: “La idolatravo. L'anima, la passione, l'audacia senza riserve... come non avevo mai sentito prima”.
C’è grande musica in Who Believes In Angels?,
a partire dalla title track, così deliberatamente nostalgica, ma di una
nostalgia che cresce e si gonfia in palpiti di autentica felicità,
grazie a un ritornello da mandare a memoria e cantare con una lacrima
che scende lentamente sulle labbra dispiegate in un sorriso infinito.
Se
la citata "Little Richard's Bible" è un rock’n’roll tutto glam ed
energia, e quei tasti del pianoforte pestati ossessivamente riportano
alla mente inevitabilmente "Saturday Night’s Alright (For Fighting)",
"Never Too Late" è una ballata da capogiro, esatto punto di fusione fra
due artisti in perfetta simbiosi.
Così,
anche nel caso in cui i brani sono un po’ telefonati ("A Little Light",
"Someone To Belong To"), l’interplay fra i due è il carburante nobile
che tiene in piedi lo show, uno show nel quale John evita accuratamente
pose da super star, per condividere democraticamente la scena con la più
giovane Carlile.
La
quale, dal canto suo, offre uno dei momenti più toccanti del disco con
"You Without Me", toccante ballata dedicata alla figlia undicenne, che
evoca la delicatezza sgranata di certe canzoni di Sufjan Stevens.
Chiude
il disco "When This Old World is Done with Me", un brano di grande
intensità, che lascia senza fiato: Elton guarda con gli occhi gravemente
offuscati al traguardo degli 80 anni che si avvicina, e concilia il
bellissimo testo di Taupin con una brillantezza melodica e armonica che
solo i grandi. Potrebbe sembrare una conclusione sdolcinata, ma non lo è
affatto, e la semplice combinazione di voce e pianoforte è davvero
mozzafiato.
“E
quando questo vecchio mondo avrà finito con me, Sappi solo che sono
arrivato fin qui, Per essere fatto a pezzi, Spargetemi tra le stelle,
Quando questo vecchio mondo avrà finito con me, Quando chiudo gli occhi,
Liberatemi come un'onda dell'oceano, Riportatemi alla marea”.
Una canzone che suona come il canto del cigno, come un addio. La speranza è che Elton non "torni alla marea"
tanto presto, e che continui a scrivere grande musica. Ma quando il
sipario di velluto si chiuderà sulla sua straordinaria vita, questo
brano sarà un valido promemoria della sua grandezza, tanto quanto
qualsiasi altro brano di John al suo meglio.
Rendiamo
allora merito all’angelo Brandi Carlile, sceso dal cielo per
resuscitare la vera anima del vecchio leone, realizzando un'impresa
quasi impossibile: unire la linea dove finisce un artista e inizia
l'altro. Perché le dieci canzoni di Who Believes In Angels? non
potrebbero esistere senza la presenza e il contributo reciproco. Un
passato leggendario e un luminoso futuro che si fanno presente.
Un
parco di Los Angeles, un amore finito, una struggente ballata passata
alla storia per le liriche emozionanti e per quell’immagine, "cake out in the rain", così malinconica, così metaforica, così sconsolata.
Il MacArthur's Park si sta sciogliendo nell'oscurità
Tutta la dolce glassa verde che scorre giù
Qualcuno ha lasciato la torta fuori sotto la pioggia
Non penso di poterlo sopportare
Perché ci è voluto così tanto tempo per cuocerla
E non avrò mai più quella ricetta
MacArthur
Park è un vero e proprio parco nel quartiere Westlake di Los Angeles,
ma questo è l'unico riferimento tangibile delle liriche, che sono
universali, che riguardano tutti coloro che hanno provato un lutto
amoroso.
Jimmy
Webb, l’autore del brano, spiegò che la canzone era autobiografica e
che riguardava la fine della relazione con la sua ragazza dell’epoca. La
torta e la pioggia vennero utilizzate come metafora della fine di un
amore, e quei versi, divenuti, poi, tanto famosi, ai tempi apparivano
non immediatamente comprensibili. Webb spiegò che scrisse il testo alla
fine degli anni ’60, periodo in cui era abitudine scrivere versi
surreali, che dessero un tocco psichedelico alla narrazione.
La
storia d'amore di cui parla Webb è quella che il musicista visse con
Suzy Horton, e il MacArthur Park era il luogo in cui i due si
incontravano per il pranzo, per le gite in pedalò e per dare da mangiare
alle anatre. Lei lavorava dall'altra parte della strada in una
compagnia di assicurazioni sulla vita, e incontrarsi proprio lì era la
cosa più ovvia. Ma c’è di più, c’è qualcosa che Webb, probabilmente per
pudore, non volle mai raccontare.
A
farlo fu un altro musicista, Colin McCourt, che, tempo dopo, affermò di
conoscere la storia vera, perché gliel’aveva raccontata in gran segreto
proprio Webb. Il due aprile del 2011, durante un intervista al Daily
Mail, McCourt disse: "Jim era innamorato di una ragazza che lo ha
lasciato. Mesi dopo, ha saputo che si sarebbe sposata, proprio nel parco
che dà il titolo alla canzone. Con il cuore spezzato, è andato al
matrimonio e, non volendo essere visto, si nascose nella rimessa del
giardiniere. Mentre si svolgeva la cerimonia all'aperto, ha iniziato a
piovere a dirotto e la pioggia che scorreva lungo la finestra del
capannone ha fatto sembrare che la torta di nozze si stesse
sciogliendo”.
Questo
episodio lasciò parecchi strascichi emotivi in Webb, il quale, quando
scoprì che la sua ragazza si era sposata con un ingegnere telefonico di
Wichita, trovò l’ispirazione per comporre un’altra canzone di successo, Worst The Could Happen (“Ragazza,
ho sentito che ti sposerai…E questa è la fine…Questo ragazzo è quello
che ti fa sentire così al sicuro, Così sano e così sicuro, E tesoro, se
ti ama più di me, Forse è la cosa migliore, Forse è la cosa migliore per
te, Ma è la cosa peggiore che potesse capitarmi”).
Jimmy Webb scrisse "MacArthur Park"
nell'estate del 1967 e offrì la canzone a Bones Howe, il produttore
degli The Association, una band californiana di sunshine pop, per un
possibile inclusione nel loro quarto album in studio. Howe adorava il
brano, ma la band non voleva dedicare così tanto spazio sull'album al
progetto di Webb, e quindi la rifiutarono.
La
canzone finì, quindi, per essere interpretata da Richard Harris, che
non era un cantante, ma un attore straordinario, che tutti ricordiamo
per le sue interpretazioni in Un Uomo Chiamato Cavallo, Gli Ammutinati Del Bounty, Cassandra Crossing e anche Harry Potter
(interpretò Albus Silente nei primi due episodi della saga). Richard
Harris non era certo noto per le sue doti vocali, ma aveva fatto dei
musical, incluso Camelot, dalla cui colonna sonora pubblicò come singolo How To Handle A Woman.
Webb
incontrò Harris sul palco del Coronet Theatre di Los Angeles, dove
stavano allestendo uno spettacolo contro la guerra con Walter Pidgeon,
Edward G. Robinson, Mia Farrow e alcuni altri. Nel tempo libero i due
fecero amicizia, e a fine lavoro stavano dietro le quinte a parlare,
suonare il piano e bere birra. Il legame si intensificò a tal punto che i
due si proposero di fare un disco insieme. La cosa sembrava una boutade
da ubriachi, finchè un giorno Webb ricevette un telegramma che così
recitava: “Caro Jimmy Webb, vieni a Londra, facciamo un disco. Con affetto, Richard”. E disco fu: A Tramp Shining, che conteneva MacArthur Park, fu pubblicato nel maggio del 1968, la canzone raggiunse la piazza numero due di Billboard e il disco fu candidato ai Grammy.
Merito
anche della voce di Harris, che pur non essendo un cantante
professionista, aveva un timbro profondo, una perfetta dizione da attore
e un’impostazione da crooner attraverso la quale diede a MacArthur Park quel surplus di drammaticità che il brano richiedeva.
Del
brano, nel corso degli anni, ne vennero fatte centinaia di cover, ma
quella di cui tutti si ricordano la si deve a Donna Summer.
Donna
Summer ne registrò una versione disco molto complessa nel 1978 con i
suoi produttori, Giorgio Moroder e Pete Bellotte. Moroder era alla
ricerca di una canzone da rielaborare con Summer, e quando, per caso,
ascoltò alla radio la versione di Harris di "MacArthur Park",
decise immediatamente che quel brano era perfetto per l'estensione
vocale della Summer. Ricca di sintetizzatori, fiati e cori di
sottofondo, la versione di Summer durava 8:27 ed era la prima parte
della "MacArthur Park Suite", che occupava l'intero lato D del suo album Live And More
del 1978. La suite durava ben 17 minuti ed era ottima per le
discoteche, ma non adatta per la radio. Quindi Moroder si mise al lavoro
e ne trasse un singolo di 3 minuti e 54 secondi, che arrivò al primo
posto in America. A questo punto, l'originale di Richard Harris era
praticamente una reliquia, guadagnandosi solo occasionali trasmissioni
radiofoniche sui vecchi successi, ma la Summer riportò in vita la
canzone, grazie a una registrazione contemporanea che catturò anche
l'attenzione degli ascoltatori più giovani.
Mancava da cinque anni, Rose Cousins, quarantasettenne canadese originaria di Prince Edward Island, esattamente da quel Bravado, uscito nel 2020, che l’anno successivo le valse il secondo Juno Award in carriera nella categoria Contemporary Roots Album.
Dopo
un lustro, eccola tornare sulle scene con un disco che si presenta come
una sorta di concept album, il cui tema, come indica esplicitamente il
titolo, è l’amore. Esiste tema più abusato? Che altro si può dire di un
sentimento che è stato sviscerato in migliaia di canzoni, molte delle
quali affette da quella distorsione del romanticismo chiamata “sentimentalismo”?
Molto, a quanto pare, almeno per un'osservatrice acuta e una
cantautrice audace come Rose Cousins, che evita accuratamente clichè
stantii, scarta l’abusato sillogismo cuore: amore e le parole dolci e
carezzevoli, per indagare, invece, su ciò che tale sentimento può
essere, nel bene e nel male.
Conditions of Love, Vol. 1
è un disco asciutto nella sua esposizione sonora, si sviluppa
prevalentemente sull’alchimia fra pianoforte e voce, eppure risulta al
contempo rotondo e ricco di piccole ma decisive sfaccettature. La
Cousins cammina in punta di piedi in territori emotivi sdrucciolevoli,
in cui un passo falso potrebbe far precipitare la narrazione nel
melodramma: pochi elementi per affrontare e raccontare cos’è oggi
l’amore, attraverso un breve ma intenso cammino che conduce
l’ascoltatore attraverso varie fasi di cui lo stesso si compone, quali
l’innamoramento, l’euforia, la condivisione, la frustrazione, la
perdita.
Mentre
percussioni leggere, elementi di elettronica e vellutati arrangiamenti
di archi e fiati sottolineano (occasionalmente) l'umore che permea le
singole canzoni, la voce potente e versatile della songwriter canadese è
ciò che davvero crea l'atmosfera, una sorta di spazio riflessivo che
consente all'ascoltatore di condividere esperienze, languori,
struggimenti.
Un
percorso, dicevamo, che ha un inizio e una fine: il disco si apre con
lo strumentale "To Be Born (Ouverture)", un luminoso drive di piano
contornato da eterei svolazzi vocali, e si chiude con "How Is This (The
Last Time)", in cui le note di pianoforte sono sgocciolate lentamente,
mentre la Cousins canta con trattenuta mestizia “How Is This (The Last
Time) You’ll Close Your Eyes”. Il cammino dell’amore è inscindibile
dall’esistenza, le nostre vite iniziano esattamente come inizia un
amore, ci s’innamora e si ama, e poi, inevitabilmente arriva la fine di
tutto, gli occhi si chiudono, il nostro cuore smette di battere, una
relazione arriva al capolinea, restano i ricordi, vissuti nei giorni di
una solitudine mai così totalizzante.
In
mezzo a questa parentesi, otto brani che sezionano l’amore, lo
raccontano con originalità, ne abbracciano luci e ombre, non smettendo
mai, nemmeno per un istante, di commuovere.
Sono
anche lacrime di gioia, come avviene durante l’ascolto "I Believe in
Love (and it's very hard)", la cui melodia solare e contagiosa irraggia
palpiti di incontenibile felicità, invitando all’ottimismo e alla
speranza. Costruire un amore è fatica, è dubbio: occorre saper
preservare la propria libertà ma anche condividerla, si devono scalare
montagne di incomprensioni ed egoismo, ma vale la pena lottare, vale la
pena provarci.
La
Cousins scrive grandi canzoni e scrive liriche appassionate, senza
perdere mai la barra di una visione che è al contempo poetica, ma anche
scarna, asciutta. Le sue canzoni hanno bisogno di poco per farsi notare,
così come poche parole servono per esprimere concetti mai banali,
creando una magia unica.
Due dei brani di Conditions of Love,
"Denouement" e "Forget Me Not", sono per lo più strutturati solo su
elenchi di parole, ma nella loro progressione creano qualcosa di davvero
potente. In "Denouement", la prima strofa usa un semplice elenco di
parole per catturare la potente scarica di adrenalina che si prova
entrando in contatto con qualcuno di attraente, qualcuno con cui poter
creare una relazione: "Caso, Vasta distesa, Circostanza, Seconda
occhiata, Cogli l'occasione, Nuova storia d'amore, Prendi la mia mano,
Posso avere questo ballo?”.
“Forget
Me Not", pianoforte e voce arricchite da un superbo arrangiamento
d’archi, possiede una struttura simile, con nomi di fiori cantati su una
lenta e lussureggiante melodia con disarmane intensità. Un brano
meravigliosamente evocativo che sembra riguardare il raggiungimento di
qualcosa di permanente e reale durante il nostro tempo sulla terra, in
cui la natura appare come un elemento determinante per il ricordo.
L’amore,
però, conosce anche lati oscuri, angoli di dolore, prima nascosti, poi
sempre più evidenti, che finiscono inevitabilmente per risucchiare ogni
briciolo di felicità: si chiamano egoismo e incomunicabilità. In "Needed
You", la malinconica melodia appena screziata da beat elettronici,
accompagna la voce arresa della Cousins che canta “How Can You Help Me, When You Can’t Help Yourself, You’re Wasting Your Wishes, And You Can’t Even Tell”,
mentre in "Wolf And Man" altra struggente melodia tratteggiata da una
linea di pianoforte dolce amara, la presa di coscienza
dell’incomunicabilità è totale: “I Am The Wolf, You Are The Man, How We Expect To Understand, I Am An Animal, You Are Only Human”.
Conditions of Love, Vol. 1
è un disco che, pur nella sua immediatezza, ha bisogno di più ascolti
per svelare la bellezza di ogni nota e di ogni parola, e, nonostante un
esplicito romanticismo di fondo, cerca strade non battute per parlare
d’amore con intelligenza e originalità. Solo trentasette minuti, ma
assolutamente perfetti, chiusi dai trenta secondi di assoluto silenzio alla fine
di "How is this (the last time)": una conclusione mozzafiato che lascia spazio
al cuore dell’ascoltatore, alle sue riflessioni, ai suoi ricordi. Un
vuoto che solo la speranza può colmare, dicendoci che, in questi giorni
bui, in questo folle mondo dove l’odio spadroneggia, seguire il percorso
impervio dell’amore è la strada giusta. E’ dura, ma alla fine “amor vincit omnia”.
Un
disco, quarantadue minuti, due sole canzoni. Potrebbe sembrare una
follia, e probabilmente lo è, per chi non ha mai masticato progressive e
non conosce il genio irrequieto di Steven Wilson, il quale con TheOverview punta
a vette elevate. Verso i cieli e oltre, verso i confini più remoti
dell'immaginazione umana, e anche di più. Sembra appropriato che questo
viaggio interstellare sia in linea con la sua etica di artista: andare
coraggiosamente dove nessuno è mai andato prima. O, almeno, sorprendere
il suo pubblico e non ripetersi troppo spesso.
Da questo punto di vista, Wilson ha sempre cercato nuove strade espressive: il pop rock anni '80 di To The Bone, il pop elettronico di The Future Bites e i diversi generi ibridati in The Harmony Codex. A questo punto, non può stupire un concept album composto da due lunghe tracce. Di musica smaccatamente progressive.
Ancora più sorprendente è la sua scelta di utilizzare tematicamente "l'effetto panoramica",
un cambiamento cognitivo che si dice sia sperimentato dagli astronauti
quando guardano la terra dallo spazio. Ciò ha dato a Wilson la giusta
"prospettiva" per l'album, tentando di collegare l'infinita vastità
dello spazio esterno alle nostre miopi preoccupazioni egocentriche qui
sulla terra. Grande idea.
Tuttavia,
l'album nella sua interezza non esplora così tanto terreno nuovo a
livello musicale come si potrebbe supporre. Sebbene abbia uno dei gusti
musicali più eclettici di chiunque in questa galassia, con The Overview Wilson tira un po’ il freno a mano e riprendere una materia vecchia, sebbene rimodellata con gusto.
In
effetti, musicalmente l'album sembra una retrospettiva di tutto ciò che
è Wilson. Si possono, infatti, ascoltare tante citazioni specifiche di
momenti passati (Porcupine Tree), così come la struttura di queste due
epiche lunghe suite è già stata sperimentata prima con The Incident, disco dei Porcupine Tree datato 2009, in cui diverse canzoni indipendenti erano unite insieme in un unico brano esteso.
The Overview
resta, tuttavia, un'idea grandiosa ed epica, una celebrazione di ciò
che è venuto prima, certo, ma anche un modo per rilegge con modernità il
proprio songbook.
Per realizzare questo concetto cosmico, Wilson ha arruolato amici e familiari, ma The Overview è
ancora in gran parte un album solista. Oltre a voci, chitarre acustiche
ed elettriche, tastiere, programmazione della batteria, sound design e
pianoforte, Wilson suona anche quasi tutto il basso dell'album. Padre e
padrone del progetto.
Un disco di prog, dicevamo, ma molto più prog di The Raven That Refused To Sing o di Hand. Cannot. Erase.
E’ un disco prog moderno, se mi è concesso l’accostamento fra due
parole apparentemente in conflitto, un prog del XXI Secolo, che,
tuttavia, mostra inevitabilmente certe influenze del passato, non ultima
la nota passione di Wilson per i Pink Floyd, il cui The Dark Side Of The Moon
è il non citato punto di riferimento per il concept. Sono solo piccoli
accenni, però: le tastiere di Adam Holzman e il sassofono sognante che
conclude il brano finale, "Permanence". Ogni tanto, poi, come dicevamo,
emergono motivi musicali tratti dal passato dei Porcupine Tree, una
sequenza di accordi a cascata o un ritornello armonico, quelli che
potremmo definire i biglietti da visita di Wilson. Eppure niente che
offuschi la freschezza della proposta.
Musicalmente,
il senso travolgente del grandioso contribuisce molto a catturare la
vasta, fredda distesa dello spazio. Anche dal punto di vista dei testi,
Wilson e i suoi comprimari musicali riescono nell'impresa ardua di
coniugare epica, trascendenza e terrena realtà. Nella sezione "Objects:
Meanwhile" di Objects Outlive Us, ad esempio, Andy Partridge
degli XTC accosta perfettamente la banalità della vita quotidiana con la
realtà a volte terrificante del cosmo in versi come "L'autista è in lacrime, per i suoi arretrati di pagamento. Eppure, nessuno sente quando un sole scompare in una galassia lontana”.
E quando la moglie di Wilson, Rotem, intona enormi numeri collegati
allo spazio in un monotono robotico e distaccato monologo nella sezione
di apertura di "Perspective", si percepisce la dura, ostile e buia
realtà dello spazio stesso. Si percepisce la morte.
The Overview
è un disco impegnativo e un ascolto (da fare rigorosamente in cuffia)
che può essere scoraggiante per chi non è aduso al genere. Per chi ama
Wilson e il prog in genere, questo nuovo album, invece, rappresenterà
un'esperienza avvincente, inizialmente straniante forse, ma ricca di
fascino e di momenti decisamente emozionanti. E’ un viaggio, un lungo
viaggio nell’immensità dello spazio. Ci vuole un po’ di coraggio, ma ne
vale la pena.
No, niente sostanze psicotrope: la "droga"
di cui Huey Lewis canta in questa canzone sono le donne. Non hanno gli
effetti collaterali della maggior parte sostanze chimiche come secchezza
delle fauci, occhi rossi, irritazioni al viso, ecc., eppure creano
dipendenza, una dipendenza buona, perché, come il cantante ha più volte
ribadito: “la vita è amore, e l’amore è la risposta”.
Voglio un nuovo farmaco…
Uno che mi fa sentire
Come mi sento quando sono con te
Sono solo con te
Sono solo con te, tesoro
La
canzone, che fu scritta da Lewis insieme al suo chitarrista, Chris
Hayes, è stato uno dei cinque brani di successo dell'album Sports
(1983), una pietra miliare degli anni '80 che ha venduto sette milioni
di copie solo negli Stati Uniti, raggiungendo la prima piazza delle
classifiche americane, in un anno, il 1984, dominato da best seller
quali Thriller, Born in the U.S.A., Purple Rain e la colonna sonora di Footloose.
Nessuno
dei cinque successi fu clamoroso, ma furono pubblicati ciascuno a circa
tre mesi di distanza l’uno dall’altro, a partire da "The Heart of Rock
& Roll" alla fine del 1983 e terminando con "Walking on a Thin Line"
alla fine del 1984, mantenendo così Huey Lewis & The News in
classifica per un anno intero. E quando i singoli di Sports finirono, la
band pubblicò la più grande hit della sua carriera, "The Power of
Love", tratta dalla colonna sonora del film Ritorno Al Futuro.
Huey
Lewis ha spiegato che "I Want A New Drug" gli era venuta in mente nel
bel mezzo dei postumi di una sbornia. Dopo una lunga notte di bagordi,
il musicista si svegliò con un gran mal di testa, e dopo aver preso un
paio di aspirine, corse all’appuntamento che aveva con il suo avvocato
editoriale dei tempi, Bob Gordon. In macchina, con i finestrini
abbassati nel tentativo di ritrovare un minimo di lucidità, ebbe
l’illuminazione, e arrivato a casa del legale chiese penna e foglio e
scrisse in pochi minuti il testo della canzone.
Il
brano ebbe successo anche grazie all’iconico video che l’accompagnava.
All'epoca, MTV aveva solo tre anni di vita, ma era diventata un veicolo
di marketing cruciale. Huey Lewis & the News ne capirono
l'influenza, e realizzarono video per tutti i loro singoli, diventando
così una delle band più popolari di quella rete televisiva.
Nella
clip, Lewis si sveglia con gli occhi annebbiati dai postumi di una
sbornia, si veste e guida la sua auto sportiva verso uno yacht in
attesa. Quindi prende un elicottero per andare a un concerto dove si
esibirà. La sequenza clou, quella che ha reso leggendario il video, è
quando Lewis infila la testa in un lavandino pieno di acqua ghiacciata e
viene inquadrato dal basso con gli occhi aperti, mentre canta la
canzone sommerso: nessun effetto speciale, ma un colpo di genio
assoluto.
Chi
rischiò letteralmente la vita per girare il video del brano fu Signy
Coleman, una modella di San Francisco che interpreta la ragazza che il
cantante vede in bicicletta e poi in barca, e che si presenta al
concerto di Huey Lewis & the News. Lo spettacolo ripreso nella clip
era reale e lì presenti vi erano vere fan di Lewis. Fan sfegatate che,
appena si accorsero dell’arrivo della Coleman, iniziarono a insultarla e
a tirarle i capelli, mettendo in piedi un improvvisato linciaggio. Fu
il servizio d’ordine a respingere il violento assalto e a scegliere per
le riprese alcune donne che non manifestassero intenti omicidi.
Inizialmente, l’etichetta di Lewis, la britannica Chrysalis, fece resistenze a pubblicare la canzone con la parola “drug”
nel titolo, ma dopo che il brano fu presentato dal vivo, riscuotendo
parecchio successo, si giunse al compromesso di pubblicare il 45 giri
con il titolo di “I Want A New Drug (Called Love)”.
La canzone ebbe anche strascichi giudiziali. Lewis, infatti, fece causa a Ray Parker Jr., che aveva “rubato” la melodia di "I
Want A New Drug" per la sua hit "Ghostbusters". La somiglianza,
effettivamente, era notevole, e Parker, capito che l’esito del processo
sarebbe stato sfavorevole, si accordò con Lewis in via stragiudiziale,
con il versamento di una cospicua somma. Quando, però, anni dopo, nel
2001, Lewis svelò alla stampa i termini dell’accordo, la situazione si
ribaltò, e l’autore di "Ghostbusters" fece causa al musicista newyorkese
per aver violato la riservatezza di una transazione, che doveva
rimanere per sempre segreta.
È
l’estate del 1975 quando Barbara Van Laar, adolescente problematica,
scompare da Camp Emerson, il campo estivo fondato dalla sua ricca
famiglia nel parco delle Adirondack. La notizia fa subito scalpore: anni
prima anche suo fratello Bear è sparito nei boschi in circostanze
misteriose, e non è mai stato ritrovato. La giovane investigatrice
Judyta Luptack comprende subito che tutti nascondono qualcosa: gli
uomini della famiglia, che ai tempi di Bear hanno tardato a chiamare i
soccorsi; la madre dei ragazzi, incapace di riprendersi dal dolore; il
capitano della polizia, che ancora una volta ha fretta di trovare un
colpevole, e Tracy, l’unica amica di Barbara al campo e l’unica a
conoscere i suoi movimenti segreti. Mentre le indagini procedono,
passato e presente si intrecciano, mettendo in luce tradimenti,
menzogne, conflitti e giochi di potere. In questo sontuoso romanzo, Liz
Moore mescola thriller e dramma familiare, raccontando una comunità dove
ricchezza e benessere diventano gabbie che imprigionano affetti,
desideri e ambizioni. Con uno stile limpido e ammaliante, Il dio dei
boschi si addentra nelle contraddizioni umane come nel folto di una
foresta impenetrabile, e ci consegna un ritratto memorabile della
giovinezza, dell’amicizia e delle seconde possibilità che la vita
concede quando si ha il coraggio di cambiarne le regole. Questo
libro è per chi affida un desiderio inconfessato a una stella cadente,
per chi ha amato Dio di illusioni di Donna Tartt, per chi durante una
tempesta ha trovato rifugio tra i rami di un abete, e per chi ricorda
con affetto quel momento della vita che è come prendere fiato prima di
parlare: un’ultima, dolce pausa prima di rivelare al mondo la propria
natura.
Come già nei precedenti Il Mondo Invisibile (2016) e I Cieli Di Filadelfia
(2020), Liz Moore abbraccia il genere thriller con risultati
sorprendenti. Eppure, chi segue la scrittrice americana fin dalla
pubblicazione di quel capolavoro intitolato Il Peso (2012), sa
bene che la trama poliziesca è solo uno strattagemma per poter
affrontare temi ben più complessi e dar vita a opere di maggior
spessore.
Il Dio Dei Boschi
è un puzzle cronologico (la vicenda si svolge nell’arco temporale di
venticinque anni, dal 1950 all’estate del 1975), e spetta al lettore
ricomporre le tessere opportunamente distribuite nel corso delle
cinquecentocinquanta pagine di cui si compone il romanzo, per giungere
alla comprensione della drammatica vicenda narrata.
Due
sparizioni, quelle dei fratelli Van Laar, la prima del piccolo Bear,
avvenuta nel 1961, e poi, quella successiva dell’adolescente Barbara,
che scompare nell’agosto del 1975, il tempo presente della narrazione.
Fulcro della vicenda la tenuta della ricca famiglia Van Laar e Camp
Emerson, il campo estivo annesso in cui adolescenti di famiglie notabili
vengono a passare l’estate. Un luogo incantevole, immerso in una natura
selvaggia non ancora contaminata dalla mano dell’uomo, su cui domina Fiducia In Se Stessi, il lussuoso resort dei Van Laar, proprietari dell’intera regione.
Una
famiglia di ricchi possidenti e banchieri, faccia spregiudicata di
un’alta borghesia sensibile solo al denaro e alla propria reputazione,
incapace di intrattenere rapporti che non siano motivati da interessi,
arrogante nei confronti dei subalterni, anaffettiva nei confronti della
propria prole, vista solo come uno strumento per perpetrare il potere
nel futuro (Bear) o uno sgradevole e fastidioso contrattempo da tenere
il più possibile lontano da occhi indiscreti (Barbara).
Attorno
a questo microcosmo del privilegio e all’apparente quiete del campus
estivo, si dipana la trama emozionante di un romanzo che, pagina dopo
pagina, svela i propri misteri, in un crescendo drammatico e
appassionante.
Mentre
le figure maschili, per quanto abilmente tratteggiate, rivestono un
ruolo del tutto marginale, l’universo femminile raccontato dalla Moore è
tale da rimanere impresso nella mente ben oltre la fine del romanzo. La
scrittrice prende per mano le sue protagoniste e le accompagna in
questo viaggio metaforico attraverso il bosco, una sorta di non luogo in
cui perdersi o ritrovarsi, un universo parallelo che nasconde la morte
ma anche una possibilità di rinascita.
La
riottosa Barbara, ragazzina ricalcitrante di fronte alle regole e
sedotta dalla nascente ondata punk, Judyta, inesperta ma determinata
detective, alla ricerca di una propria identità, TJ, androgina e
grintosa direttrice del campus, Louise, bellissima coordinatrice, che
cammina senza speranza sui cocci dei suoi mille sogni infranti, Alice,
madre di Bear e Barbara, donna debole e rassegnata, ingranaggio
difettoso nell’apparente ben oliata macchina Van Laar, e Tracy,
adolescente timida e introversa, che cerca disperatamente un modello da
imitare, sono i personaggi indimenticabili di un romanzo che, per quanto
ponderoso, risucchia il lettore verso un finale catartico, in cui
giustizia è fatta e il futuro torna a sorridere.
Non mancano, poi,
numerosi colpi di scena, valore aggiunto di questo ennesimo,
straordinario libro, di una delle migliori scrittrici americane in
attività.
Sono
poche le band in circolazione che mi fanno perdere la brocca come gli
O.R.k., quartetto cosmopolita composto da quattro musicisti di
nobilissimo pedigree: Lorenzo Esposito Fornasari, più noto come LEF
(cantante, produttore e compositore), Carmelo Pipitone alla chitarra
(Marta Sui Tubi), Pat Mastellotto alla batteria (King Crimson) e Colin
Edwin al basso (Porcupine Tree).
Non
è, però, solo la caratura tecnica di una band che ha pochi eguali al
mondo, e che potremmo chiamare supergruppo, se solo questa definizione
non suggerisse il concetto di estemporaneità (il progetto giunto al
quinto album è, invece, solidissimo) e fosse accostato spesso a fenomeni
dal grande appeal mediatico ma dalla rilevanza artistica inconsistente.
A
fare la differenza è soprattutto la capacità con cui quattro musicisti
di diversa estrazione e nazionalità sono riusciti a trovare un terreno
comune su cui fiorisce una musica che è passione e urgenza, e si sente a
ogni nota, ma anche consapevolezza e ispirazione. Canzoni che hanno
un’anima e un suono distintivo, che anche se pescano dal passato,
coniugando gli strappi rabbiosi del grunge e la veemenza di certe
bordate metal alla sensibilità alt rock anni ’90 e alla complessità
espressiva di un approccio prevalentemente prog, mantengono una propria
moderna identità.
Tutto brilla di luce propria in Firehose Of Falsehoods,
la scrittura, gli arrangiamenti, la precisa dizione strumentale, e
tutto fluttua, tra nostalgie passate e un hic et nunc in grado di
stemperare l’urgenza emotiva, a volte addirittura impetuosa, con il
suono avvolgente di melodie che intercettano il cuore delle canzoni con
improvvisa trasversalità.
In
un panorama musicale, come quello odierno, in cui le qualità tecniche
dei musicisti, sembrano non interessare più a nessuno, con gli O.R.k. il
virtuosismo torna a essere un elemento importante della musica. Non si
tratta però di virtuosismo fine a se stesso, di pura esibizione di
maestria, anticamera di un suono pomposo e barocco, ma di precisione,
pulizia, dell’equilibrio fra spinta propulsiva e fraseggio, tanto
ritmico, quanto melodico.
Il
risultato è una scaletta sia arrembante che fantasiosa, in cui anche i
brani più immediati trovano sempre uno scarto di direzione o un momento
catartico che tiene lontano il prevedibile, l’ovvio.
D’innanzi
a canzoni come "Hello Mother" o "The Other Side" l’ascoltatore viene
catturato da un vortice temporale che risucchia nei solchi di
"Badmotorfinger" dei Soundgarden, tanto il timbro di LEF rievoca, per
estensione e potenza, quello di Chris Cornell. E se anche "Seven Arms",
con una rilettura decisamente moderna, gira dalle parti di Seattle,
trovando il perfetto punto di fusione fra cupo sprofondo alla Alice In
Chains e la foga tutta ardore e furia dei Soundgarden, brani come la
magnifica "16.000 Days" e "Putfp" sembrano omaggiare nella complessa
tessitura emotiva il compianto Jeff Buckley.
Chiude
la scaletta la lunga "Dive In", quattordici minuti che si riconnettono
all’anima prog della band, aprendo le porte a un lungo viaggio sonoro
dalle mille sfaccettature, tra momenti di lirismo e improvvise
accelerazioni, che non dispiacerebbero ai fan dei Tool.
Se il tema che informa le liriche di Firehose Of Falsehoods
è quello di rappresentare un mondo in cui il bombardamento mediatico
incide, con il suo carico di falsità ed effimero, sulle vite degli
esseri umani, la bellezza della musica è, per converso, come ogni forma
d’arte, anelito di speranza e abbrivio di salvezza. Allora, basta
mettere sul piatto questo disco per riconnettersi a un mondo autentico,
lontano dalla vacuità che ci circonda e dagli strepiti del megafono
social, e perdersi, felici, nell’emozione pura di canzoni che fanno
tremare le vene dei polsi.
Quando
i tedeschi Bonfire iniziarono la loro carriera, era il 1972, è molto
probabile che la maggior parte dei nostri lettori, compreso il
sottoscritto, portasse i calzoncini corti o manco fosse nato. Se
sommiamo gli anni in cui la band è stata attiva sotto il nome di Cacumen
e poi, sotto quello attuale di Bonfire, allora il gruppo è in
circolazione da ben cinquantatré anni. Inevitabile, quindi, definire il
quintetto teutonico come una vera e propria leggenda, quanto meno per
l’importante dato anagrafico e la straordinaria longevità.
Questo nuovo Higher Ground
è, tenetevi forti, l'incredibile ventisettesimo disco pubblicato dal
gruppo, l’ultimo di una carriera segnata da numerosi cambi di line up
(il membro anziano, presente dal 1985, è il chitarrista Johann Ziller,
oggi sessantaseienne), e da una discografia fortemente radicata nel
metal, ma aperta ad esperimenti (l'opera rock The Räuber basata
sulla pièce teatrale The Robbers del drammaturgo Friedrich Schiller), e
a un paio di fuori menù (un doppio album di cover intitolato Legends e un doppio album quasi completamente unplugged intitolato Roots).
La band, come accennato, è tuttavia più nota per il suo mix di heavy
metal melodico e hard rock ad alto contenuto energetico, ispirato in
particolare a sonorità derivate dagli anni Settanta e Ottanta.
I
Bonfire, a dire il vero, sembravano aver esaurito le energie in alcune
pubblicazioni del passato recente, ma, alla fine, hanno sempre tenuto
duro, riuscendo in qualche modo a mantenere un discreto livello
qualitativo e a produrre album, alcuni decenti, altri decisamente buoni.
Higher Ground è quello che potremmo definire un buon album
rock, senza particolari picchi creativi, ma suonato, comunque, da una
band che conosce il mestiere a menadito e capace di rendere credibili e
divertenti anche i ricorrenti deja vù: oltre al citato chitarrista
Johann Ziller, la line up presenta il bassista americano Ronnie Parkes,
un tempo membro dei Seven Witches, il chitarrista tedesco Frank Pané, il
batterista italiano Fabio Alessandrini, noto per le sue scorribande con
i giganti canadesi del thrash metal Annihilator, e il bravissimo
cantante greco Kostas Matziaris.
Una
formazione composta da musicisti di diversa estrazione, che, tuttavia,
in meno di tre anni sono riusciti a creare un solido collante che rende
la performance armoniosa e ispirata.
Prova
immediata è il primo singolo "I Died Tonight" che in realtà esprime
l'opposto del suo titolo e suona fresco, energico e, soprattutto,
incredibilmente in linea coi tempi. Il secondo singolo "I Will Rise" apre il disco
in modo simile, ed è una bella botta, che offre tutto ciò che i fan del
melodic metal e del rock potrebbero desiderare, dal suono di chitarra
catchy ai passaggi di basso pompanti, dai pattern di batteria
diversificati a una bella voce potente e squillante.
Due
episodi che sottolineano come i Bonfire abbiano mantenuto inalterato lo
spirito delle loro origini, riuscendo a suonare più vitali di
molte band più giovani.
In
scaletta, altri sono i momenti riusciti, come la power ballad "When
Love Comes Down", che parte morbida prima di evolversi in un epico hard
rock, "Fallin'", che attiva la macchina del tempo per tornare
direttamente agli anni ottanta, con un mix melodico a metà tra l'heavy
metal di ispirazione commerciale e l’Aor, e la rilettura conclusiva, in
chiave più decisamente pop, della loro "Rock'n'Roll Survivor”, già
pubblicata nel 2020.
Higher Ground
non è certo un disco indimenticabile e, a ben vedere, ripete spesso
alcuni tropi del genere che andavano per la maggiore negli anni settanta
e ottanta. Tuttavia, l’album è godibilissimo, la carica energetica non è
mai messa in discussione, e il quintetto non fa altro che suonare con
passione una musica che conosce alla perfezione, rispettandola e
offrendola ai fan nella miglior veste possibile.