mercoledì 30 aprile 2025

Joel Dicker - La Catastrofica Visita Allo Zoo (La Nave Di Teseo, 2025)

 


Alla vigilia di Natale, una visita scolastica allo zoo si trasforma in una catastrofe. Cosa è successo esattamente? I genitori di Josephine, la bambina che aveva preso parte alla gita, e che sembra saperne molte cose, sono decisi a scoprirlo.
Ma una catastrofe non arriva mai da sola, le apparenze ingannano e la storia prenderà una piega che nessuno avrebbe potuto immaginare...

 

Con La Catastrofica Visita Allo Zoo, che avete appena terminato di leggere, ho cercato, con modestia e umiltà, di scrivere un libro che potesse essere letto e condiviso da tutti i lettori, chiunque essi siano e ovunque si trovino, dai sette ai centoventi anni.”

 

Dopo una carriera fulminante e milioni di copie vendute, arrivato al suo settimo romanzo, Joel Dicker cambia completamente pelle, abbandona (momentaneamente) il genere thriller che lo ha reso universalmente celebre, e si cimenta nell’ardua impresa di scrivere un racconto per bambini che, come spiegato nelle poche righe estrapolate dalla bella postfazione al libro, possa però arrivare al cuore di tutti, grandi e piccini.

Quando la scuola per bambini speciali viene chiusa a seguito di un allagamento, i sei piccoli alunni che la frequentano iniziano a indagare con l’aiuto di una nonna tabagista e di un poliziotto ricoverato in ospedale per essere stato investito durante una lezione di sicurezza stradale. A raccontare gli eventi, in un susseguirsi divertentissimi di colpi di scena che sfoceranno nella catastrofica visita allo zoo, è la piccola Josephine che, diventata grande, intraprende con successo la carriera di scrittrice.

Chi ha allagato la scuola? E per quale motivo?

Dicker, partendo da questo spunto “poliziesco”, conduce il lettore nel mondo dei bambini, raccontandone il rapporto con gli adulti e le istituzioni, e affrontando temi universali, e mai come oggi d’attualità, come la diversità, l’inclusione, la democrazia, la funzione della scuola e della scrittura. Temi alti, ma affrontati con semplicità, un tocco surreale e senza retorica, attraverso una prosa snella, ma quanto mai centrata, e soprattutto un mood ironico, che è la vera novità di una scrittura, che i tanti fan dello scrittore svizzero conoscono a menadito.

I dialoghi sono brillanti, i personaggi vengono tratteggiati con semplicità ma anche con pennellate vividissime, e la storia, davvero divertente, cattura fin dalle prime pagine e risucchia il lettore verso il commovente finale che spiegherà il piccolo segreto nascosto dietro l’allagamento della scuola.

E’ probabile che qualche fan di Dicker resterà deluso da questo nuovo corso, mai così lontano da tutto quello che il noto romanziere ha scritto fino a ora. Eppure, La Catastrofica Visita allo Zoo è un gioiellino, un piccolo grande libro (si legge in un paio di giorni) che azzera le distanze (emotive) tra adulti e bambini, e che parlando di inclusione e di democrazia (concetti spiegati con chiarezza assoluta), parla soprattutto d’amore: amore per il prossimo, amore per l’insegnamento, amore per la verità e per il libero pensiero, amore per una donna.

La breve postfazione scritta dallo stresso Dicker è un commosso omaggio alla sempre più residuale, ma viva e combattiva, comunità dei lettori: “Eccolo il vero successo dei libri…Riconciliare le persone, permettere loro di incontrarsi, di ritrovarsi. E’ questo il vero potere della letteratura.”

 

Blackswan, mercoledì 30/04/2025

martedì 29 aprile 2025

Holy Diver - Dio (Mercury, 1983)


 

Se si ci approccia banalmente a questa canzone, facendo leva su quell’iconografia che vede il rock come musica del Diavolo (le corna di Ronnie James Dio erano un marchio di fabbrica, per dirne una) "Holy Diver" potrebbe essere interpretata come una canzone che parla di Satana e della sua discesa all'Inferno (il suo "tuffo"). D’altra parte, la copertina dell'album (il primo disco solista dei Dio) raffigura Satana che frusta un prete con una catena, mentre il prete è legato e in balia di un mare tempestoso (cosa, che ai tempi, suscitò più di una controversia). La canzone, però, nelle intenzioni di Dio, riveste tutto un altro significato.

"Holy Diver" parla in realtà di una figura assimilabile a Cristo, che su un altro pianeta, non sulla Terra, vorrebbe seguire lo stesso percorso di sacrificio che Gesù ha fatto per gli esseri umani: morire per i peccati dell'uomo così che l’uomo possa ricominciare da capo, essere purificato e vivere nel bene. La medesima storia accaduta sulla terra si riproporrebbe così in un altro luogo, i cui abitanti chiamano Gesù il Santo Tuffatore, perché sceglie di morire, di fare un tuffo nell’aldilà al fine che gli abitanti del pianeta siano assolti dai loro peccati e salvati dal fuoco eterno dell’Inferno. La gente in terra, però, si ribella, non vuole che vada, pretende, in un surplus di egoismo, che il Cristo resti con loro e li protegga dal male.  

Lungi da avere riferimenti a Lucifero, questa canzone (che rielabora alcuni passi dell’Apocalisse) è semmai un'espressione della ribellione di Dio contro la sua educazione cattolica, che secondo il cantante ha finito per distorcere il messaggio più profondo della religione. Invece di insegnare con amore, le suore che lo avevano educato mantenevano la disciplina schiaffeggiando i ragazzi con i righelli e dicendo loro che sarebbero andati all'Inferno se non si fossero comportati bene.

Dio ha successivamente chiarito: “Nel mio caso, ho sempre cercato di essere qualcuno che avverte le persone che c'è il bene e c'è il male, e che hai una scelta, e fai del tuo meglio. La scelta probabilmente è non essere malvagio. Questo è ciò che il male può farti, questo è ciò che il male ha fatto alle persone che conosco. Dipende dalla tua prospettiva del male, però, voglio dire, le droghe sono malvagie…andare in giro con persone malvagie ti farà diventare una persona malvagia. Questi sono i temi che ho cercato di affrontare in un modo più oscuro”.

"Holy Diver" fu inserita in un episodio di South Park in cui Dio (in forma di cartone animato) appare esibendosi in un ballo di scuola elementare con una scimmia alla batteria. Dio, inizialmente, rifiutò il consenso all’uso della canzone, ritenendo che lo scopo sarebbe stato quello di prenderlo in giro e che il passaggio nella serie l’avrebbe messo molto in imbarazzo, ma fu convinto dagli autori dopo che gli dimostrarono di essere grandi fan della sua musica. Tanto che, dopo che la puntata andò in onda, il cantante dichiarò a NME: “Sono stati molto gentili con me. Magari non tanto con il batterista, ma con me sono stati molto gentili. Inoltre, se vuoi essere un'icona in qualche modo, devi farlo! Devi essere in un episodio di South Park!”.

 


 

 

Blackswan, martedì 29/04/2025

lunedì 28 aprile 2025

Tamino - Every Dawn's a Mountain - Tamino (Communion, 2025)

 


Belga di nascita, egiziano d’origine, Tamino-Amir Moharam Fouad, al secolo meglio conosciuto col nome di Tamino, si è costruito in poco tempo una solida reputazione, riuscendo a contemperare due attività parallele, quella più effimera di modello (Missoni, Fendi, Valentino) e quella di musicista, a seguito della quale ha pubblicato in otto anni tre EP e due album in studio. Every Dawn's A Mountain, terza prova sulla lunga distanza, ne conferma la statura di songwriter profondo e sensibile, lontano per qualità di scrittura dal mainstream e refrattario alle mode del momento, quelle che invece sposa con fascino e sensualità durante le sfilate.

La sua terza fatica è stata realizzata in luoghi diversi (principalmente nel suo appartamento di New York, ma anche in una chiesa di New Orleans, nello studio di Bruxelles e nelle stanze d'albergo sparse durante i tour), e ne consegue che le dieci tracce in scaletta, nella loro scarna brillantezza, racchiudano un suono e una visione che abbraccia culture e continenti, in una sottile prospettiva cosmopolita. Culmine di anni di studio musicale, di infiniti concerti ed esperienze vissute, Every Dawn's A Mountain rappresenta Tamino nella sua massima espressione. Un percorso in cui il musicista belga ha fatto suoi alcuni evidenti riferimenti musicali, dando però vita a un suono distintivo, che coniuga trame musicali esili e strutture talvolta scheletriche a una forza espressiva che ha pochi eguali.

E’ questo il maggior punto di forza di un disco intimo ed evocativo, eppure incredibilmente potente: la bravura di Tamino di toccare il cuore dell’ascoltatore senza bisogno di artifici, e di adattare la sua voce profonda e versatile all’incredibile minimalismo e all'understatement della mise en place. Dieci canzoni, dicevamo, costruite con pochi strumenti (prevalentemente la chitarra e l’oud arabo), in cui la voce calda e avvolgente di Tamino resta in bilico con sofisticata dolcezza fra Oriente e Occidente, creando atmosfere dal sapore quasi cinematografico.

La scaletta si apre con l’ossuta "My Heroine", un brano che nella sua solenne semplicità evoca certe trame austere ascoltate da Mark Kozelek, e il cui minimalismo torna sgranato nel sussurro profondo di "Willow". Intorno a questi due brani tanto intensi quanto asciutti, ruota l’ispirazione di un musicista maturo e consapevole, che dipana trame eteree pronte a gonfiarsi di emotività nel crescendo di una voce che spinge le tre ottave di estensione verso il fascino misterioso di un cielo mediorientale ("Babylon") o che richiama gli struggimenti malinconici cari a Jeff Buckley in duetto con Mitski, in cui il limpido contrasto tonale trafigge il cuore attraverso versi brucianti come: "Soffri per la tua lotta, Soffri per la tua lotta, Per mantenere vivo il passato. Ti delude ancora?" ("Sanctuary").

Le emozioni s’intrecciano per tutta la durata di un disco (quarantasei minuti) che è tutto tranne che immediato, ma a cui ripetuti ascolti donano nuove sfumature, inaspettate suggestioni. La title track, ad esempio, che campiona le armonie di un coro belga alle prese con un'antica polifonia fiamminga, per poi stabilizzarsi su una chitarra delicatamente pizzicata, racchiude gli elementi centrali dell'album (testi introspettivi di dolore e rimpianto, un mix di influenze europee e mediorientali, una produzione stratificata e vocalizzi spontanei), la tensione melodrammatica trattenuta di "Elegy" evoca i migliori e più struggenti Radiohead, mentre i quasi sette minuti di Dissolve (un immaginario punto d’incontro tra Jeff e Tim Buckley) vedono Tamino usare la sua voce come strumento per aggiungere spessore emotivo a osservazioni già di per sé devastanti: "Un bambino alienato, Che raccoglie margherite ai bordi della strada, Re di un paese straniero, Che mendica briciole in città". La canzone è un commento velato di un mondo nel caos, un mondo senza scopo, che dissolve così i confini tra un'alba e l'altra, quelle albe che, come suggerisce il titolo, sono montagne (da scalare). Giorno dopo giorno.

L'album si chiude con "Amsterdam", una lettera d'amore inviata alla città in cui Tamino ha vissuto a lungo e che ricorda la sua formazione musicale presso il locale Conservatorio Reale. Il brano onora, scava e purifica il passato di Tamino, mettendo in luce nuovamente il messaggio di fondo che caratterizza un filotto di canzoni che suonano tanto come un addio a ciò che è stato in passato quanto come un’invocazione ottimista per il futuro.

Every Dawn's A Mountain è disco che richiede qualcosa in più di un ascolto ordinario: bisogna abbandonarsi alle suggestioni che evocano il deserto, la solitudine e il cielo stellato, diventando parte del tutto. Solo così si potrà assaporare pienamente la cifra stilistica di un album dal lirismo magnetico e amaramente malinconico.

Voto: 9

Genere: Songwriter

 


 

 

Blackswan, lunedì 28/04/2025

giovedì 24 aprile 2025

Robert Harris - Precipizio (Mondadori, 2024)


 

Londra, estate 1914. Mentre l'Europa si avvicina inesorabilmente alla Prima guerra mondiale, Venetia Stanley, un'affascinante giovane donna dell'alta società londinese, intrattiene un fitto carteggio con il primo ministro Herbert Asquith, un uomo sposato con più del doppio dei suoi anni. Venetia è la sua amante clandestina, la sua unica confidente sulle questioni di Stato e, nelle appassionate lettere che i due innamorati si scambiano quasi quotidianamente, Asquith la mette al corrente di informazioni confidenziali sul futuro dell'Europa e di telegrammi diplomatici di estrema riservatezza. Fino a che una grave fuga di documenti sensibili e il conseguente rischio di violazione della sicurezza nazionale non mettono in allarme le alte cariche governative. Paul Deemer, un giovane agente dei servizi segreti, viene ingaggiato per avviare un'indagine in merito. Non ci vuole molto perché Deemer risalga alla relazione tra Asquith e Venetia, e quindi a un loro possibile coinvolgimento nella vicenda. Ciò che da principio appare un semplice scandalo amoroso si trasforma rapidamente in un affaire ad alto rischio, in grado di cambiare per sempre il corso degli eventi.

Una premessa è quasi d’obbligo: nonostante sia stato pubblicizzato come un thriller ad alta tensione, Precipizio non lo è. E’ semmai un romanzo storico, che racconta, attraverso la scrupolosa ricostruzione dello studioso (e Robert Harris lo è), la scandalosa storia d’amore fra il Primo Ministro Inglese, Herbert Asquith, e Venetia Stanley, giovane pupilla di un’altolocata famiglia della società londinese.

Un amore che si sviluppa attraverso il contenuto di cinquecentosessanta lettere inviate dal premier all’affascinante amante, lettere perfettamente conservate, e qui riprodotte fedelmente (non tutte e non tutte nella loro interezza), epurate solamente, su richiesta degli eredi, delle parti che avrebbero potuto mettere in cattiva luce il politico (immagino gli ammiccamenti più torbidi e sensuali). Una relazione clandestina, vissuta di incontri fugaci e attraverso un intenso carteggio (le lettere di risposta di Venetia sono il frutto della fantasia dell’autore) con cui Asquith non si limitava ad abbandonarsi al deliquio amoroso, ma confidava all’amata anche decisivi segreti politici, innescando così un’indagine degli allora servizi segreti di Sua Maestà.

Se la ricostruzione storica è coinvolgente nella sua accuratezza, non è da meno l’approfondimento psicologico di due personaggi mirabilmente tratteggiati. Da un lato, un uomo anziano, politico moderato, capace anche di intuizioni progressiste e abile affabulatore, ma totalmente in balia di sentimenti che, pagina dopo pagina, si trasformano in un’ossessione così totalizzante da distoglierlo dai gravi impegni politici del momento. E poi Venetia, giovane di una bellezza non convenzionale, intelligente e fascinosa, donna indipendente in un mondo ancora fortemente ancorato a tradizioni rigidissime, una miscela esplosiva di sensualità, empatia e cultura, di slanci generosi e calcolo individualista.

Sullo sfondo della vicenda, l’incombente primo conflitto mondiale, a cui l’Inghilterra finisce per partecipare a causa dello slancio guerrafondaio di Winston Churchill, politico astuto e cinico, che Asquith, risucchiato letteralmente dalla sua liaison con la Stanley, non riesce ad arginare. E mentre in Turchia, in Francia e in Belgio, soldati mandati al macello muoiono come mosche (gli infiniti elenchi dei caduti in battaglia riportati dai tabloid dell’epoca), a Londra la vita dei nobili, dei notabili e dell’alta borghesia continua come se nulla fosse, fra party, ricevimenti, cene eleganti e rilassanti gite in campagna. In tal senso, Harris è abile a raccontare il passato per fotografare benissimo un presente a cui la storia non ha insegnato nulla, un presente in cui morte e distruzione sono all’ordine del giorno, mentre un politica sempre più spietata e disumanizzata trama per potenziare gli armamenti alla faccia dei tanti innocenti, falcidiati da guerre insensate.

 

Blackswan, giovedì 24/04/2025

martedì 22 aprile 2025

Rock Of Ages - Def Leppard (Vertigo, 1983)

 


Pyromania, lo sanno anche i sassi, è il capolavoro dei Def Leppard, un best seller da milioni di copie vendute (dieci milioni solo negli Stati Uniti), trainato da un filotto di canzoni favolose, tra cui "Photograph", "Rock! Rock! (Till You Drop)", "Foolin’", "Too Late For Love" e, ovviamente l’iconica "Rock Of Ages". Quest’ultima, scritta per emozionare folle grandi quanto uno stadio, fu definita dal cantante della band, Joe Elliott, una "chiamata alle armi", e fu pubblicata come secondo singolo tratto dall'album, dopo "Photograph", altro brano dagli entusiasmanti connotati innodici.

Di cosa parla questa canzone? La band aveva scritto la musica ma aveva difficoltà a trovare i testi. Una notte, nei locali in cui la band stava registrando, si riunì anche un gruppo di studio biblico, per analizzare e discutere alcuni passaggi del testo sacro. Il giorno dopo, Joe Elliott trovò per terra, evidentemente smarrita da uno dei fedeli, una Bibbia aperta sull'inno "Rock Of Ages". L’ispirazione fu immediata, la frase fu utilizzata nel ritornello e diede anche il titolo al brano, i cui testi, suggestionati dall’inaspettato rinvenimento, evocano infuocati clichè rock, attraversati da un “ardore” spirituale che ben si sincronizza con il titolo dell’album, Pyromania:  

"Accenderò un incendio

Accendiamo una luce

Esploderemo come la dinamite"

"Rock of Ages" inizia con una voce che dice qualcosa come "Gunte Glieben Glauten Globen". Il che non significa assolutamente nulla. Semplicemente, il produttore della band, Mutt Lange, si era stancato di contare il solito "1, 2, 3, 4...," per dare il via alla registrazione del pezzo, e così si era inventato quelle parole senza senso, che vennero tenute anche nella versione definitiva della canzone.

Da notare che non ci sono chitarre nelle strofe, che invece entrano con forza nel ritornello, e che l’andamento del brano è segnato dall’uso del campanaccio. Mutt Lange era un produttore estremamente versatile e amava utilizzare tutti gli escamotage tecnologici conosciuti ai tempi per rendere il suono il più moderno possibile. Tuttavia, la brillante produzione del brano viene controbilanciata dal suono pastorale del campanaccio, uno strumento che evoca brani rock classici come "Mississippi Queen" dei Mountain e "Honky Tonk Women" dei Rolling Stones. La canzone, poi, a detta dello stesso Elliott, fu ispirata "I Love Rock And Roll" di Joan Jett. L’idea non era certo quella di copiare la canzone (anche se il ritornello...), ma, semmai, di replicarne lo stile, e di spingere sulla componente innodica, creando un ritornello che fosse perfetto per il singalong.

Le liriche di apertura, inoltre, sono un riferimento esplicito a "My My, Hey Hey (Out Of The Blue)" di Young, pubblicata nel 1979 su Rust Never Sleeps

"Ho qualcosa da dire...

È meglio bruciarsi

Che svanire!"

Questa frase può essere interpretata come un clichè perfetto per descrivere la vita di una rockstar, in quanto evoca una vita vissuta a cento all’ora, costi quel che costi. I Def Leppard, più di molte altre band, pagarono un caro prezzo per la loro vita veloce. Nel 1984 il loro batterista Rick Allen perse un braccio dopo aver perso il controllo della propria Corvette su un tratto pericoloso di strada vicino a Sheffield, in Inghilterra. Il cantante Joe Elliott e il chitarrista Phil Collen rimasero sobri da quel momento in poi, ma l'altro chitarrista, Steve Clark, non riuscì a liberarsi dalle dipendenze e morì per overdose di farmaci nel 1991.

 


 

 

Blackswan, martedì 22/04/2025

lunedì 21 aprile 2025

Elton John & Brandi Carlile - Who Believes In Angels? (EMI, 2025)

 


Un artista con un leggendario passato alle spalle, un’artista con un luminosissimo futuro davanti a sé. Elton John e Brandi Carlile, due mondi apparentemente inconciliabili anagraficamente (John è del 1947, Brandi del 1981), geograficamente (uno inglese, l’altra americana) e musicalmente (uno figura eminente del pop britannico, l’altra ex enfant prodige della scena folk statunitense, che negli anni ha però ampliato il proprio spettro espressivo) vengono a contatto e fanno scintille. Un azzardo perfettamente riuscito, nonostante non poche difficoltà iniziali.

Alla fine, nonostante le evidenti differenze, a prevalere sono stati i numerosi punti in comune, a partire dall’appartenenza di entrambi alla comunità LGBT, dallo sguardo nostalgico verso gli anni ’70, da condivisi eroi musicali e, soprattutto, dall’abitudine a intrecciare interessanti collaborazioni.

La Carlile, infatti, ha fondato le Highwomen, supergruppo con Amanda Shires, Natalie Hemby e Maren Morris, e ha lavorato con artisti del calibro di Soundgarden, Willie Nelson, Sting, Sam Smith e da ultimo con Joni Mitchell, con cui ha dato vita allo splendido live al Newport Folk Festival. Da parte sua, Elton John, oltre alla storica partnership con Bernie Taupin, annovera collaborazioni con Leon Russell (The Union del 2010), ha pubblicato un album di duetti (Duets nel 1993) e il suo ultimo disco, The Lockdown Sessions del 2021, è stato registrato durante la pandemia con artisti che spaziano da Dua Lipa e i Gorillaz a Eddie Vedder e Stevie Wonder.

In quel lavoro, compariva anche Brandi Carlile nella bella "Simple Things", che è stato il momento in cui le rispettive anime musicali hanno compreso di essere molto più affini di quanto si potesse prevedere. 

L'idea per un album insieme è venuta, successivamente a John, che la propose a Carlile durante un pranzo nella sua casa di Los Angeles dopo la conclusione della tappa americana del suo tour Goodbye Yellow Brick Road. Al momento del caffè, era tutto concordato: Andrew Watts avrebbe prodotto e Bernie Taupin avrebbe scritto i testi per quella che sarebbe stata un vero e proprio disco condiviso, con canzoni composte a otto mani. Le cose, almeno all'inizio, non andarono troppo lisce: Elton era esausto e irritabile, e ora sappiamo che dopo alcuni anni già difficili gli è venuto un grave problema alla vista, che (per il momento) lo ha reso di fatto cieco.

Poi, è scoccata la scintilla, e il risultato è stato un filotto di canzoni che è molto di più della somma delle sue due parti. In Who Believes In Angels? si percepisce la presenza di due musicisti perfettamente affiatati, le cui voci si fondono in modo impeccabile, e il pianoforte di uno e la chitarra dell’altra vivono in armoniosa sintonia. Ne deriva una scaletta coloratissima, frizzante e potente, in cui pop e rock si combinano dando vita a uno sguardo nostalgico sugli anni ’70, ma anche a momenti di travolgente entusiasmo luminoso e glitterarato, frutto di una sintonia registrata in modalità divertissement.

Al successo, poi, hanno contribuito un pugno di musicisti dal nobile pedigree, Chad Smith (Red Hot Chili Peppers), Pino Palladino (Nine Inch Nails, Gary Numan e David Gilmour) e Josh Klinghoffer (Pearl Jam, Beck), e la produzione quanto mai centrata di Andrew Watts (capace di resuscitare il suono del miglior John).

Tutto qui è clamorosamente glamour, ma senza ostentazione, a partire dalla coloratissima copertina, un abbagliante rétro anni Settanta con riferimenti a Tina Turner e ai Village People, a Amy Winehouse e Little Richard, quest'ultimo celebrato nello scattante secondo brano in scaletta, "Little Richard's Bible", che pare sia stato il momento di svolta in quelle sessioni di registrazione che all’inizio sembravano avviarsi verso il disastro.

E che lo sguardo sia rivolto verso il passato di eroi musicali condivisi, lo si comprende immediatamente, appena parte l’opener "The Rose Of Laura Nyro", omaggio commosso alla songwriter newyorkese venuta a mancare nel 1997. Un brano composito, che si apre con un lussureggiante intro di tastiere, citando la splendida "Eli’s Coming" (dall’iconico Eli And The Thirteenth Confession del 1968), prosegue con uno splendido assolo di chitarra blues che introduce alla più classica ballata alla Elton John. Una melodia sfavillante destinata a restare nel tempo, forse la vetta di un disco che ha davvero pochi momenti prescindibili (la seconda parte è meno riuscita della prima), e che rende onore a una musicista, della quale Elton John ha detto: “La idolatravo. L'anima, la passione, l'audacia senza riserve... come non avevo mai sentito prima”.

C’è grande musica in Who Believes In Angels?, a partire dalla title track, così deliberatamente nostalgica, ma di una nostalgia che cresce e si gonfia in palpiti di autentica felicità, grazie a un ritornello da mandare a memoria e cantare con una lacrima che scende lentamente sulle labbra dispiegate in un sorriso infinito.

Se la citata "Little Richard's Bible" è un rock’n’roll tutto glam ed energia, e quei tasti del pianoforte pestati ossessivamente riportano alla mente inevitabilmente "Saturday Night’s Alright (For Fighting)", "Never Too Late" è una ballata da capogiro, esatto punto di fusione fra due artisti in perfetta simbiosi.

Così, anche nel caso in cui i brani sono un po’ telefonati ("A Little Light", "Someone To Belong To"), l’interplay fra i due è il carburante nobile che tiene in piedi lo show, uno show nel quale John evita accuratamente pose da super star, per condividere democraticamente la scena con la più giovane Carlile.

La quale, dal canto suo, offre uno dei momenti più toccanti del disco con "You Without Me", toccante ballata dedicata alla figlia undicenne, che evoca la delicatezza sgranata di certe canzoni di Sufjan Stevens.

Chiude il disco "When This Old World is Done with Me", un brano di grande intensità, che lascia senza fiato: Elton guarda con gli occhi gravemente offuscati al traguardo degli 80 anni che si avvicina, e concilia il bellissimo testo di Taupin con una brillantezza melodica e armonica che solo i grandi. Potrebbe sembrare una conclusione sdolcinata, ma non lo è affatto, e la semplice combinazione di voce e pianoforte è davvero mozzafiato.  

E quando questo vecchio mondo avrà finito con me, Sappi solo che sono arrivato fin qui, Per essere fatto a pezzi, Spargetemi tra le stelle, Quando questo vecchio mondo avrà finito con me, Quando chiudo gli occhi, Liberatemi come un'onda dell'oceano, Riportatemi alla marea”.

Una canzone che suona come il canto del cigno, come un addio. La speranza è che Elton non "torni alla marea" tanto presto, e che continui a scrivere grande musica. Ma quando il sipario di velluto si chiuderà sulla sua straordinaria vita, questo brano sarà un valido promemoria della sua grandezza, tanto quanto qualsiasi altro brano di John al suo meglio.

Rendiamo allora merito all’angelo Brandi Carlile, sceso dal cielo per resuscitare la vera anima del vecchio leone, realizzando un'impresa quasi impossibile: unire la linea dove finisce un artista e inizia l'altro. Perché le dieci canzoni di Who Believes In Angels? non potrebbero esistere senza la presenza e il contributo reciproco. Un passato leggendario e un luminoso futuro che si fanno presente.

Voto: 8

Genere: Pop, Rock

 


 


Blackswan, lunedì 21/04/2025

venerdì 18 aprile 2025

MacArthur Park - Richard Harris (Dunhill Records, 1968)


 

 

Un parco di Los Angeles, un amore finito, una struggente ballata passata alla storia per le liriche emozionanti e per quell’immagine, "cake out in the rain", così malinconica, così metaforica, così sconsolata.

 

Il MacArthur's Park si sta sciogliendo nell'oscurità

Tutta la dolce glassa verde che scorre giù

Qualcuno ha lasciato la torta fuori sotto la pioggia

Non penso di poterlo sopportare

Perché ci è voluto così tanto tempo per cuocerla

E non avrò mai più quella ricetta

 

MacArthur Park è un vero e proprio parco nel quartiere Westlake di Los Angeles, ma questo è l'unico riferimento tangibile delle liriche, che sono universali, che riguardano tutti coloro che hanno provato un lutto amoroso.

Jimmy Webb, l’autore del brano, spiegò che la canzone era autobiografica e che riguardava la fine della relazione con la sua ragazza dell’epoca. La torta e la pioggia vennero utilizzate come metafora della fine di un amore, e quei versi, divenuti, poi, tanto famosi, ai tempi apparivano non immediatamente comprensibili. Webb spiegò che scrisse il testo alla fine degli anni ’60, periodo in cui era abitudine scrivere versi surreali, che dessero un tocco psichedelico alla narrazione.  

La storia d'amore di cui parla Webb è quella che il musicista visse con Suzy Horton, e il MacArthur Park era il luogo in cui i due si incontravano per il pranzo, per le gite in pedalò e per dare da mangiare alle anatre. Lei lavorava dall'altra parte della strada in una compagnia di assicurazioni sulla vita, e incontrarsi proprio lì era la cosa più ovvia. Ma c’è di più, c’è qualcosa che Webb, probabilmente per pudore, non volle mai raccontare.

A farlo fu un altro musicista, Colin McCourt, che, tempo dopo, affermò di conoscere la storia vera, perché gliel’aveva raccontata in gran segreto proprio Webb. Il due aprile del 2011, durante un intervista al Daily Mail, McCourt disse: "Jim era innamorato di una ragazza che lo ha lasciato. Mesi dopo, ha saputo che si sarebbe sposata, proprio nel parco che dà il titolo alla canzone. Con il cuore spezzato, è andato al matrimonio e, non volendo essere visto, si nascose nella rimessa del giardiniere. Mentre si svolgeva la cerimonia all'aperto, ha iniziato a piovere a dirotto e la pioggia che scorreva lungo la finestra del capannone ha fatto sembrare che la torta di nozze si stesse sciogliendo”.

Questo episodio lasciò parecchi strascichi emotivi in Webb, il quale, quando scoprì che la sua ragazza si era sposata con un ingegnere telefonico di Wichita, trovò l’ispirazione per comporre un’altra canzone di successo, Worst The Could  Happen (“Ragazza, ho sentito che ti sposerai…E questa è la fine…Questo ragazzo è quello che ti fa sentire così al sicuro, Così sano e così sicuro, E tesoro, se ti ama più di me, Forse è la cosa migliore, Forse è la cosa migliore per te, Ma è la cosa peggiore che potesse capitarmi”).

Jimmy Webb scrisse "MacArthur Park" nell'estate del 1967 e offrì la canzone a Bones Howe, il produttore degli The Association, una band californiana di sunshine pop, per un possibile inclusione nel loro quarto album in studio. Howe adorava il brano, ma la band non voleva dedicare così tanto spazio sull'album al progetto di Webb, e quindi la rifiutarono.

La canzone finì, quindi, per essere interpretata da Richard Harris, che non era un cantante, ma un attore straordinario, che tutti ricordiamo per le sue interpretazioni in Un Uomo Chiamato Cavallo, Gli Ammutinati Del Bounty, Cassandra Crossing e anche Harry Potter (interpretò Albus Silente nei primi due episodi della saga). Richard Harris non era certo noto per le sue doti vocali, ma aveva fatto dei musical, incluso Camelot, dalla cui colonna sonora pubblicò come singolo How To Handle A Woman.

Webb incontrò Harris sul palco del Coronet Theatre di Los Angeles, dove stavano allestendo uno spettacolo contro la guerra con Walter Pidgeon, Edward G. Robinson, Mia Farrow e alcuni altri. Nel tempo libero i due fecero amicizia, e a fine lavoro stavano dietro le quinte a parlare, suonare il piano e bere birra. Il legame si intensificò a tal punto che i due si proposero di fare un disco insieme. La cosa sembrava una boutade da ubriachi, finchè un giorno Webb ricevette un telegramma che così recitava: “Caro Jimmy Webb, vieni a Londra, facciamo un disco. Con affetto, Richard”. E disco fu: A Tramp Shining, che conteneva MacArthur Park, fu pubblicato nel maggio del 1968, la canzone raggiunse la piazza numero due di Billboard e il disco fu candidato ai Grammy.

Merito anche della voce di Harris, che pur non essendo un cantante professionista, aveva un timbro profondo, una perfetta dizione da attore e un’impostazione da crooner attraverso la quale diede a MacArthur Park quel surplus di drammaticità che il brano richiedeva.

Del brano, nel corso degli anni, ne vennero fatte centinaia di cover, ma quella di cui tutti si ricordano la si deve a Donna Summer.

Donna Summer ne registrò una versione disco molto complessa nel 1978 con i suoi produttori, Giorgio Moroder e Pete Bellotte. Moroder era alla ricerca di una canzone da rielaborare con Summer, e quando, per caso, ascoltò alla radio la versione di Harris di "MacArthur Park", decise immediatamente che quel brano era perfetto per l'estensione vocale della Summer. Ricca di sintetizzatori, fiati e cori di sottofondo, la versione di Summer durava 8:27 ed era la prima parte della "MacArthur Park Suite", che occupava l'intero lato D del suo album Live And More del 1978. La suite durava ben 17 minuti ed era ottima per le discoteche, ma non adatta per la radio. Quindi Moroder si mise al lavoro e ne trasse un singolo di 3 minuti e 54 secondi, che arrivò al primo posto in America. A questo punto, l'originale di Richard Harris era praticamente una reliquia, guadagnandosi solo occasionali trasmissioni radiofoniche sui vecchi successi, ma la Summer riportò in vita la canzone, grazie a una registrazione contemporanea che catturò anche l'attenzione degli ascoltatori più giovani.

 


 

 

Blackswan, veberdì 18/04/2025

giovedì 17 aprile 2025

Rose Cousins - Conditions Of Love, Vol.1 (Nettwerk, 2025)

 


Mancava da cinque anni, Rose Cousins, quarantasettenne canadese originaria di Prince Edward Island, esattamente da quel Bravado, uscito nel 2020, che l’anno successivo le valse il secondo Juno Award in carriera nella categoria Contemporary Roots Album.  

Dopo un lustro, eccola tornare sulle scene con un disco che si presenta come una sorta di concept album, il cui tema, come indica esplicitamente il titolo, è l’amore. Esiste tema più abusato? Che altro si può dire di un sentimento che è stato sviscerato in migliaia di canzoni, molte delle quali affette da quella distorsione del romanticismo chiamata “sentimentalismo”? Molto, a quanto pare, almeno per un'osservatrice acuta e una cantautrice audace come Rose Cousins, che evita accuratamente clichè stantii, scarta l’abusato sillogismo cuore: amore e le parole dolci e carezzevoli, per indagare, invece, su ciò che tale sentimento può essere, nel bene e nel male.

Conditions of Love, Vol. 1 è un disco asciutto nella sua esposizione sonora, si sviluppa prevalentemente sull’alchimia fra pianoforte e voce, eppure risulta al contempo rotondo e ricco di piccole ma decisive sfaccettature. La Cousins cammina in punta di piedi in territori emotivi sdrucciolevoli, in cui un passo falso potrebbe far precipitare la narrazione nel melodramma: pochi elementi per affrontare e raccontare cos’è oggi l’amore, attraverso un breve ma intenso cammino che conduce l’ascoltatore attraverso varie fasi di cui lo stesso si compone, quali l’innamoramento, l’euforia, la condivisione, la frustrazione, la perdita.

Mentre percussioni leggere, elementi di elettronica e vellutati arrangiamenti di archi e fiati sottolineano (occasionalmente) l'umore che permea le singole canzoni, la voce potente e versatile della songwriter canadese è ciò che davvero crea l'atmosfera, una sorta di spazio riflessivo che consente all'ascoltatore di condividere esperienze, languori, struggimenti.

Un percorso, dicevamo, che ha un inizio e una fine: il disco si apre con lo strumentale "To Be Born (Ouverture)", un luminoso drive di piano contornato da eterei svolazzi vocali, e si chiude con "How Is This (The Last Time)", in cui le note di pianoforte sono sgocciolate lentamente, mentre la Cousins canta con trattenuta mestizia “How Is This (The Last Time) You’ll Close Your Eyes”. Il cammino dell’amore è inscindibile dall’esistenza, le nostre vite iniziano esattamente come inizia un amore, ci s’innamora e si ama, e poi, inevitabilmente arriva la fine di tutto, gli occhi si chiudono, il nostro cuore smette di battere, una relazione arriva al capolinea, restano i ricordi, vissuti nei giorni di una solitudine mai così totalizzante.

In mezzo a questa parentesi, otto brani che sezionano l’amore, lo raccontano con originalità, ne abbracciano luci e ombre, non smettendo mai, nemmeno per un istante, di commuovere.

Sono anche lacrime di gioia, come avviene durante l’ascolto "I Believe in Love (and it's very hard)", la cui melodia solare e contagiosa irraggia palpiti di incontenibile felicità, invitando all’ottimismo e alla speranza. Costruire un amore è fatica, è dubbio: occorre saper preservare la propria libertà ma anche condividerla, si devono scalare montagne di incomprensioni ed egoismo, ma vale la pena lottare, vale la pena provarci.

La Cousins scrive grandi canzoni e scrive liriche appassionate, senza perdere mai la barra di una visione che è al contempo poetica, ma anche scarna, asciutta. Le sue canzoni hanno bisogno di poco per farsi notare, così come poche parole servono per esprimere concetti mai banali, creando una magia unica.

Due dei brani di Conditions of Love, "Denouement" e "Forget Me Not", sono per lo più strutturati solo su elenchi di parole, ma nella loro progressione creano qualcosa di davvero potente. In "Denouement", la prima strofa usa un semplice elenco di parole per catturare la potente scarica di adrenalina che si prova entrando in contatto con qualcuno di attraente, qualcuno con cui poter creare una relazione: "Caso, Vasta distesa, Circostanza, Seconda occhiata, Cogli l'occasione, Nuova storia d'amore, Prendi la mia mano, Posso avere questo ballo?”.

Forget Me Not", pianoforte e voce arricchite da un superbo arrangiamento d’archi, possiede una struttura simile, con nomi di fiori cantati su una lenta e lussureggiante melodia con disarmane intensità. Un brano meravigliosamente evocativo che sembra riguardare il raggiungimento di qualcosa di permanente e reale durante il nostro tempo sulla terra, in cui la natura appare come un elemento determinante per il ricordo.  

L’amore, però, conosce anche lati oscuri, angoli di dolore, prima nascosti, poi sempre più evidenti, che finiscono inevitabilmente per risucchiare ogni briciolo di felicità: si chiamano egoismo e incomunicabilità. In "Needed You", la malinconica melodia appena screziata da beat elettronici, accompagna la voce arresa della Cousins che canta “How Can You Help Me, When You Can’t Help Yourself, You’re Wasting Your Wishes, And You Can’t Even Tell”, mentre in "Wolf And Man" altra struggente melodia tratteggiata da una linea di pianoforte dolce amara, la presa di coscienza dell’incomunicabilità è totale: “I Am The Wolf, You Are The Man, How We Expect To Understand, I Am An Animal, You Are Only Human”.

Conditions of Love, Vol. 1 è un disco che, pur nella sua immediatezza, ha bisogno di più ascolti per svelare la bellezza di ogni nota e di ogni parola, e, nonostante un esplicito romanticismo di fondo, cerca strade non battute per parlare d’amore con intelligenza e originalità. Solo trentasette minuti, ma assolutamente perfetti, chiusi dai trenta secondi di assoluto silenzio alla fine di "How is this (the last time)": una conclusione mozzafiato che lascia spazio al cuore dell’ascoltatore, alle sue riflessioni, ai suoi ricordi. Un vuoto che solo la speranza può colmare, dicendoci che, in questi giorni bui, in questo folle mondo dove l’odio spadroneggia, seguire il percorso impervio dell’amore è la strada giusta. E’ dura, ma alla fine “amor vincit omnia”.

Voto: 9

Genere: Songwriter, Pop

 


 

 

Blackswan, giovedì 17/04/2025

mercoledì 16 aprile 2025

Steven Wilson - The Overview (Fiction/Virgin, 2025)

 


Un disco, quarantadue minuti, due sole canzoni. Potrebbe sembrare una follia, e probabilmente lo è, per chi non ha mai masticato progressive e non conosce il genio irrequieto di Steven Wilson, il quale con The Overview punta a vette elevate. Verso i cieli e oltre, verso i confini più remoti dell'immaginazione umana, e anche di più. Sembra appropriato che questo viaggio interstellare sia in linea con la sua etica di artista: andare coraggiosamente dove nessuno è mai andato prima. O, almeno, sorprendere il suo pubblico e non ripetersi troppo spesso.

Da questo punto di vista, Wilson ha sempre cercato nuove strade espressive: il pop rock anni '80 di To The Bone, il pop elettronico di The Future Bites e i diversi generi ibridati in The Harmony Codex. A questo punto, non può stupire un concept album composto da due lunghe tracce. Di musica smaccatamente progressive.

Ancora più sorprendente è la sua scelta di utilizzare tematicamente "l'effetto panoramica", un cambiamento cognitivo che si dice sia sperimentato dagli astronauti quando guardano la terra dallo spazio. Ciò ha dato a Wilson la giusta "prospettiva" per l'album, tentando di collegare l'infinita vastità dello spazio esterno alle nostre miopi preoccupazioni egocentriche qui sulla terra. Grande idea.

Tuttavia, l'album nella sua interezza non esplora così tanto terreno nuovo a livello musicale come si potrebbe supporre. Sebbene abbia uno dei gusti musicali più eclettici di chiunque in questa galassia, con The Overview Wilson tira un po’ il freno a mano e riprendere una materia vecchia, sebbene rimodellata con gusto.

In effetti, musicalmente l'album sembra una retrospettiva di tutto ciò che è Wilson. Si possono, infatti, ascoltare tante citazioni specifiche di momenti passati (Porcupine Tree), così come la struttura di queste due epiche lunghe suite è già stata sperimentata prima con The Incident, disco dei Porcupine Tree datato 2009, in cui diverse canzoni indipendenti erano unite insieme in un unico brano esteso.

The Overview resta, tuttavia, un'idea grandiosa ed epica, una celebrazione di ciò che è venuto prima, certo, ma anche un modo per rilegge con modernità il proprio songbook.

Per realizzare questo concetto cosmico, Wilson ha arruolato amici e familiari, ma The Overview è ancora in gran parte un album solista. Oltre a voci, chitarre acustiche ed elettriche, tastiere, programmazione della batteria, sound design e pianoforte, Wilson suona anche quasi tutto il basso dell'album. Padre e padrone del progetto.

Un disco di prog, dicevamo, ma molto più prog di The Raven That Refused To Sing o di Hand. Cannot. Erase. E’ un disco prog moderno, se mi è concesso l’accostamento fra due parole apparentemente in conflitto, un prog del XXI Secolo, che, tuttavia, mostra inevitabilmente certe influenze del passato, non ultima la nota passione di Wilson per i Pink Floyd, il cui The Dark Side Of The Moon è il non citato punto di riferimento per il concept. Sono solo piccoli accenni, però: le tastiere di Adam Holzman e il sassofono sognante che conclude il brano finale, "Permanence". Ogni tanto, poi, come dicevamo, emergono motivi musicali tratti dal passato dei Porcupine Tree, una sequenza di accordi a cascata o un ritornello armonico, quelli che potremmo definire i biglietti da visita di Wilson. Eppure niente che offuschi la freschezza della proposta.

Musicalmente, il senso travolgente del grandioso contribuisce molto a catturare la vasta, fredda distesa dello spazio. Anche dal punto di vista dei testi, Wilson e i suoi comprimari musicali riescono nell'impresa ardua di coniugare epica, trascendenza e terrena realtà. Nella sezione "Objects: Meanwhile" di Objects Outlive Us, ad esempio, Andy Partridge degli XTC accosta perfettamente la banalità della vita quotidiana con la realtà a volte terrificante del cosmo in versi come "L'autista è in lacrime, per i suoi arretrati di pagamento. Eppure, nessuno sente quando un sole scompare in una galassia lontana”. E quando la moglie di Wilson, Rotem, intona enormi numeri collegati allo spazio in un monotono robotico e distaccato monologo nella sezione di apertura di "Perspective", si percepisce la dura, ostile e buia realtà dello spazio stesso. Si percepisce la morte.

The Overview è un disco impegnativo e un ascolto (da fare rigorosamente in cuffia) che può essere scoraggiante per chi non è aduso al genere. Per chi ama Wilson e il prog in genere, questo nuovo album, invece, rappresenterà un'esperienza avvincente, inizialmente straniante forse, ma ricca di fascino e di momenti decisamente emozionanti. E’ un viaggio, un lungo viaggio nell’immensità dello spazio. Ci vuole un po’ di coraggio, ma ne vale la pena.

Voto: 8

Genere: Progressive

 


 

 

Blackswan, mercoledì 16/04/2025

lunedì 14 aprile 2025

I Want a New Drug - Huey Lewis & The News (Chrysalis, 1983)

 


Voglio un nuovo farmaco

Uno che non mi farà star male

Uno che non mi farà schiantare la macchina

O farmi sentire spesso un metro

Voglio un nuovo farmaco

Uno che non mi farà male alla testa

Uno che non mi farà seccare troppo la bocca

Oppure farmi gli occhi troppo rossi

 

No, niente sostanze psicotrope: la "droga" di cui Huey Lewis canta in questa canzone sono le donne. Non hanno gli effetti collaterali della maggior parte sostanze chimiche come secchezza delle fauci, occhi rossi, irritazioni al viso, ecc., eppure creano dipendenza, una dipendenza buona, perché, come il cantante ha più volte ribadito: “la vita è amore, e l’amore è la risposta”.

 

Voglio un nuovo farmaco…

Uno che mi fa sentire

Come mi sento quando sono con te

Sono solo con te

Sono solo con te, tesoro

 

La canzone, che fu scritta da Lewis insieme al suo chitarrista, Chris Hayes, è stato uno dei cinque brani di successo dell'album Sports (1983), una pietra miliare degli anni '80 che ha venduto sette milioni di copie solo negli Stati Uniti, raggiungendo la prima piazza delle classifiche americane, in un anno, il 1984, dominato da best seller quali Thriller, Born in the U.S.A., Purple Rain e la colonna sonora di Footloose.

Nessuno dei cinque successi fu clamoroso, ma furono pubblicati ciascuno a circa tre mesi di distanza l’uno dall’altro, a partire da "The Heart of Rock & Roll" alla fine del 1983 e terminando con "Walking on a Thin Line" alla fine del 1984, mantenendo così Huey Lewis & The News in classifica per un anno intero. E quando i singoli di Sports finirono, la band pubblicò la più grande hit della sua carriera, "The Power of Love", tratta dalla colonna sonora del film Ritorno Al Futuro.

Huey Lewis ha spiegato che "I Want A New Drug" gli era venuta in mente nel bel mezzo dei postumi di una sbornia. Dopo una lunga notte di bagordi, il musicista si svegliò con un gran mal di testa, e dopo aver preso un paio di aspirine, corse all’appuntamento che aveva con il suo avvocato editoriale dei tempi, Bob Gordon. In macchina, con i finestrini abbassati nel tentativo di ritrovare un minimo di lucidità, ebbe l’illuminazione, e arrivato a casa del legale chiese penna e foglio e scrisse in pochi minuti il testo della canzone.

Il brano ebbe successo anche grazie all’iconico video che l’accompagnava. All'epoca, MTV aveva solo tre anni di vita, ma era diventata un veicolo di marketing cruciale. Huey Lewis & the News ne capirono l'influenza, e realizzarono video per tutti i loro singoli, diventando così una delle band più popolari di quella rete televisiva.

Nella clip, Lewis si sveglia con gli occhi annebbiati dai postumi di una sbornia, si veste e guida la sua auto sportiva verso uno yacht in attesa. Quindi prende un elicottero per andare a un concerto dove si esibirà. La sequenza clou, quella che ha reso leggendario il video, è quando Lewis infila la testa in un lavandino pieno di acqua ghiacciata e viene inquadrato dal basso con gli occhi aperti, mentre canta la canzone sommerso: nessun effetto speciale, ma un colpo di genio assoluto.

Chi rischiò letteralmente la vita per girare il video del brano fu Signy Coleman, una modella di San Francisco che interpreta la ragazza che il cantante vede in bicicletta e poi in barca, e che si presenta al concerto di Huey Lewis & the News. Lo spettacolo ripreso nella clip era reale e lì presenti vi erano vere fan di Lewis. Fan sfegatate che, appena si accorsero dell’arrivo della Coleman, iniziarono a insultarla e a tirarle i capelli, mettendo in piedi un improvvisato linciaggio. Fu il servizio d’ordine a respingere il violento assalto e a scegliere per le riprese alcune donne che non manifestassero intenti omicidi.

Inizialmente, l’etichetta di Lewis, la britannica Chrysalis, fece resistenze a pubblicare la canzone con la parola “drug” nel titolo, ma dopo che il brano fu presentato dal vivo, riscuotendo parecchio successo, si giunse al compromesso di pubblicare il 45 giri con il titolo di “I Want A New Drug (Called Love)”.

La canzone ebbe anche strascichi giudiziali. Lewis, infatti, fece causa a Ray Parker Jr., che aveva “rubato” la melodia di "I Want A New Drug" per la sua hit "Ghostbusters". La somiglianza, effettivamente, era notevole, e Parker, capito che l’esito del processo sarebbe stato sfavorevole, si accordò con Lewis in via stragiudiziale, con il versamento di una cospicua somma. Quando, però, anni dopo, nel 2001, Lewis svelò alla stampa i termini dell’accordo, la situazione si ribaltò, e l’autore di "Ghostbusters" fece causa al musicista newyorkese per aver violato la riservatezza di una transazione, che doveva rimanere per sempre segreta.

 


 

 

Blackswan, lunedì 14/04/2025

venerdì 11 aprile 2025

Liz Moore - Il Dio Dei Boschi (NN Editore, 2025)

 


È l’estate del 1975 quando Barbara Van Laar, adolescente problematica, scompare da Camp Emerson, il campo estivo fondato dalla sua ricca famiglia nel parco delle Adirondack. La notizia fa subito scalpore: anni prima anche suo fratello Bear è sparito nei boschi in circostanze misteriose, e non è mai stato ritrovato. La giovane investigatrice Judyta Luptack comprende subito che tutti nascondono qualcosa: gli uomini della famiglia, che ai tempi di Bear hanno tardato a chiamare i soccorsi; la madre dei ragazzi, incapace di riprendersi dal dolore; il capitano della polizia, che ancora una volta ha fretta di trovare un colpevole, e Tracy, l’unica amica di Barbara al campo e l’unica a conoscere i suoi movimenti segreti. Mentre le indagini procedono, passato e presente si intrecciano, mettendo in luce tradimenti, menzogne, conflitti e giochi di potere. In questo sontuoso romanzo, Liz Moore mescola thriller e dramma familiare, raccontando una comunità dove ricchezza e benessere diventano gabbie che imprigionano affetti, desideri e ambizioni. Con uno stile limpido e ammaliante, Il dio dei boschi si addentra nelle contraddizioni umane come nel folto di una foresta impenetrabile, e ci consegna un ritratto memorabile della giovinezza, dell’amicizia e delle seconde possibilità che la vita concede quando si ha il coraggio di cambiarne le regole.
Questo libro è per chi affida un desiderio inconfessato a una stella cadente, per chi ha amato Dio di illusioni di Donna Tartt, per chi durante una tempesta ha trovato rifugio tra i rami di un abete, e per chi ricorda con affetto quel momento della vita che è come prendere fiato prima di parlare: un’ultima, dolce pausa prima di rivelare al mondo la propria natura.

 

Come già nei precedenti Il Mondo Invisibile (2016) e I Cieli Di Filadelfia (2020), Liz Moore abbraccia il genere thriller con risultati sorprendenti. Eppure, chi segue la scrittrice americana fin dalla pubblicazione di quel capolavoro intitolato Il Peso (2012), sa bene che la trama poliziesca è solo uno strattagemma per poter affrontare temi ben più complessi e dar vita a opere di maggior spessore.

Il Dio Dei Boschi è un puzzle cronologico (la vicenda si svolge nell’arco temporale di venticinque anni, dal 1950 all’estate del 1975), e spetta al lettore ricomporre le tessere opportunamente distribuite nel corso delle cinquecentocinquanta pagine di cui si compone il romanzo, per giungere alla comprensione della drammatica vicenda narrata.

Due sparizioni, quelle dei fratelli Van Laar, la prima del piccolo Bear, avvenuta nel 1961, e poi, quella successiva dell’adolescente Barbara, che scompare nell’agosto del 1975, il tempo presente della narrazione. Fulcro della vicenda la tenuta della ricca famiglia Van Laar e Camp Emerson, il campo estivo annesso in cui adolescenti di famiglie notabili vengono a passare l’estate. Un luogo incantevole, immerso in una natura selvaggia non ancora contaminata dalla mano dell’uomo, su cui domina Fiducia In Se Stessi, il lussuoso resort dei Van Laar, proprietari dell’intera regione.

Una famiglia di ricchi possidenti e banchieri, faccia spregiudicata di un’alta borghesia sensibile solo al denaro e alla propria reputazione, incapace di intrattenere rapporti che non siano motivati da interessi, arrogante nei confronti dei subalterni, anaffettiva nei confronti della propria prole, vista solo come uno strumento per perpetrare il potere nel futuro (Bear) o uno sgradevole e fastidioso contrattempo da tenere il più possibile lontano da occhi indiscreti (Barbara).

Attorno a questo microcosmo del privilegio e all’apparente quiete del campus estivo, si dipana la trama emozionante di un romanzo che, pagina dopo pagina, svela i propri misteri, in un crescendo drammatico e appassionante.

Mentre le figure maschili, per quanto abilmente tratteggiate, rivestono un ruolo del tutto marginale, l’universo femminile raccontato dalla Moore è tale da rimanere impresso nella mente ben oltre la fine del romanzo. La scrittrice prende per mano le sue protagoniste e le accompagna in questo viaggio metaforico attraverso il bosco, una sorta di non luogo in cui perdersi o ritrovarsi, un universo parallelo che nasconde la morte ma anche una possibilità di rinascita.

La riottosa Barbara, ragazzina ricalcitrante di fronte alle regole e sedotta dalla nascente ondata punk, Judyta, inesperta ma determinata detective, alla ricerca di una propria identità, TJ, androgina e grintosa direttrice del campus, Louise, bellissima coordinatrice, che cammina senza speranza sui cocci dei suoi mille sogni infranti, Alice, madre di Bear e Barbara, donna debole e rassegnata, ingranaggio difettoso nell’apparente ben oliata macchina Van Laar, e Tracy, adolescente timida e introversa, che cerca disperatamente un modello da imitare, sono i personaggi indimenticabili di un romanzo che, per quanto ponderoso, risucchia il lettore verso un finale catartico, in cui giustizia è fatta e il futuro torna a sorridere. 

Non mancano, poi, numerosi colpi di scena, valore aggiunto di questo ennesimo, straordinario libro, di una delle migliori scrittrici americane in attività.

 

Blackswan, venerdì 11/04/2025

mercoledì 9 aprile 2025

O.R.k. - Firehose Of Falsehoods (Kscope, 2025)

 


Sono poche le band in circolazione che mi fanno perdere la brocca come gli O.R.k., quartetto cosmopolita composto da quattro musicisti di nobilissimo pedigree: Lorenzo Esposito Fornasari, più noto come LEF (cantante, produttore e compositore), Carmelo Pipitone alla chitarra (Marta Sui Tubi), Pat Mastellotto alla batteria (King Crimson) e Colin Edwin al basso (Porcupine Tree).

Non è, però, solo la caratura tecnica di una band che ha pochi eguali al mondo, e che potremmo chiamare supergruppo, se solo questa definizione non suggerisse il concetto di estemporaneità (il progetto giunto al quinto album è, invece, solidissimo) e fosse accostato spesso a fenomeni dal grande appeal mediatico ma dalla rilevanza artistica inconsistente.

A fare la differenza è soprattutto la capacità con cui quattro musicisti di diversa estrazione e nazionalità sono riusciti a trovare un terreno comune su cui fiorisce una musica che è passione e urgenza, e si sente a ogni nota, ma anche consapevolezza e ispirazione. Canzoni che hanno un’anima e un suono distintivo, che anche se pescano dal passato, coniugando gli strappi rabbiosi del grunge e la veemenza di certe bordate metal alla sensibilità alt rock anni ’90 e alla complessità espressiva di un approccio prevalentemente prog, mantengono una propria moderna identità.

Tutto brilla di luce propria in Firehose Of Falsehoods, la scrittura, gli arrangiamenti, la precisa dizione strumentale, e tutto fluttua, tra nostalgie passate e un hic et nunc in grado di stemperare l’urgenza emotiva, a volte addirittura impetuosa, con il suono avvolgente di melodie che intercettano il cuore delle canzoni con improvvisa trasversalità.

In un panorama musicale, come quello odierno, in cui le qualità tecniche dei musicisti, sembrano non interessare più a nessuno, con gli O.R.k. il virtuosismo torna a essere un elemento importante della musica. Non si tratta però di virtuosismo fine a se stesso, di pura esibizione di maestria, anticamera di un suono pomposo e barocco, ma di precisione, pulizia, dell’equilibrio fra spinta propulsiva e fraseggio, tanto ritmico, quanto melodico.

Il risultato è una scaletta sia arrembante che fantasiosa, in cui anche i brani più immediati trovano sempre uno scarto di direzione o un momento catartico che tiene lontano il prevedibile, l’ovvio.

D’innanzi a canzoni come "Hello Mother" o "The Other Side" l’ascoltatore viene catturato da un vortice temporale che risucchia nei solchi di "Badmotorfinger" dei Soundgarden, tanto il timbro di LEF rievoca, per estensione e potenza, quello di Chris Cornell. E se anche "Seven Arms", con una rilettura decisamente moderna, gira dalle parti di Seattle, trovando il perfetto punto di fusione fra cupo sprofondo alla Alice In Chains e la foga tutta ardore e furia dei Soundgarden, brani come la magnifica "16.000 Days" e "Putfp" sembrano omaggiare nella complessa tessitura emotiva il compianto Jeff Buckley.

Chiude la scaletta la lunga "Dive In", quattordici minuti che si riconnettono all’anima prog della band, aprendo le porte a un lungo viaggio sonoro dalle mille sfaccettature, tra momenti di lirismo e improvvise accelerazioni, che non dispiacerebbero ai fan dei Tool.

Se il tema che informa le liriche di Firehose Of Falsehoods è quello di rappresentare un mondo in cui il bombardamento mediatico incide, con il suo carico di falsità ed effimero, sulle vite degli esseri umani, la bellezza della musica è, per converso, come ogni forma d’arte, anelito di speranza e abbrivio di salvezza. Allora, basta mettere sul piatto questo disco per riconnettersi a un mondo autentico, lontano dalla vacuità che ci circonda e dagli strepiti del megafono social, e perdersi, felici, nell’emozione pura di canzoni che fanno tremare le vene dei polsi.

Voto: 8

Genere: Grunge, Alt Rock, Prog




Blackswan, mercoledì 09/04/2025

martedì 8 aprile 2025

Bonfire - Higher Ground (Frontiers, 2025)

 


Quando i tedeschi Bonfire iniziarono la loro carriera, era il 1972, è molto probabile che la maggior parte dei nostri lettori, compreso il sottoscritto, portasse i calzoncini corti o manco fosse nato. Se sommiamo gli anni in cui la band è stata attiva sotto il nome di Cacumen e poi, sotto quello attuale di Bonfire, allora il gruppo è in circolazione da ben cinquantatré anni. Inevitabile, quindi, definire il quintetto teutonico come una vera e propria leggenda, quanto meno per l’importante dato anagrafico e la straordinaria longevità.

Questo nuovo Higher Ground è, tenetevi forti, l'incredibile ventisettesimo disco pubblicato dal gruppo, l’ultimo di una carriera segnata da numerosi cambi di line up (il membro anziano, presente dal 1985, è il chitarrista Johann Ziller, oggi sessantaseienne), e da una discografia fortemente radicata nel metal, ma aperta ad esperimenti (l'opera rock The Räuber basata sulla pièce teatrale The Robbers del drammaturgo Friedrich Schiller), e a un paio di fuori menù (un doppio album di cover intitolato Legends e un doppio album quasi completamente unplugged intitolato Roots). La band, come accennato, è tuttavia più nota per il suo mix di heavy metal melodico e hard rock ad alto contenuto energetico, ispirato in particolare a sonorità derivate dagli anni Settanta e Ottanta.

I Bonfire, a dire il vero, sembravano aver esaurito le energie in alcune pubblicazioni del passato recente, ma, alla fine, hanno sempre tenuto duro, riuscendo in qualche modo a mantenere un discreto livello qualitativo e a produrre album, alcuni decenti, altri decisamente buoni. Higher Ground è quello che potremmo definire un buon album rock, senza particolari picchi creativi, ma suonato, comunque, da una band che conosce il mestiere a menadito e capace di rendere credibili e divertenti anche i ricorrenti deja vù: oltre al citato chitarrista Johann Ziller, la line up presenta il bassista americano Ronnie Parkes, un tempo membro dei Seven Witches, il chitarrista tedesco Frank Pané, il batterista italiano Fabio Alessandrini, noto per le sue scorribande con i giganti canadesi del thrash metal Annihilator, e il bravissimo cantante greco Kostas Matziaris.

Una formazione composta da musicisti di diversa estrazione, che, tuttavia, in meno di tre anni sono riusciti a creare un solido collante che rende la performance armoniosa e ispirata.

Prova immediata è il primo singolo "I Died Tonight" che in realtà esprime l'opposto del suo titolo e suona fresco, energico e, soprattutto, incredibilmente in linea coi tempi. Il secondo singolo "I Will Rise" apre il disco in modo simile, ed è una bella botta, che offre tutto ciò che i fan del melodic metal e del rock potrebbero desiderare, dal suono di chitarra catchy ai passaggi di basso pompanti, dai pattern di batteria diversificati a una bella voce potente e squillante.

Due episodi che sottolineano come i Bonfire abbiano mantenuto inalterato lo spirito delle loro origini, riuscendo a suonare più vitali di molte band più giovani.

In scaletta, altri sono i momenti riusciti, come la power ballad "When Love Comes Down", che parte morbida prima di evolversi in un epico hard rock, "Fallin'", che attiva la macchina del tempo per tornare direttamente agli anni ottanta, con un mix melodico a metà tra l'heavy metal di ispirazione commerciale e l’Aor, e la rilettura conclusiva, in chiave più decisamente pop, della loro "Rock'n'Roll Survivor”, già pubblicata nel 2020.

Higher Ground non è certo un disco indimenticabile e, a ben vedere, ripete spesso alcuni tropi del genere che andavano per la maggiore negli anni settanta e ottanta. Tuttavia, l’album è godibilissimo, la carica energetica non è mai messa in discussione, e il quintetto non fa altro che suonare con passione una musica che conosce alla perfezione, rispettandola e offrendola ai fan nella miglior veste possibile.

Voto: 7

Genere: Hard Rock

 


 

 

Blackswan, martedì 08/04/2025