giovedì 28 agosto 2025

Yungblud - Idols (Capitol, 2025)

 


Una cosa è certa: un artista come Yungblud, piaccia o meno, non passa inosservato. Amato da Mick Jagger, David Grohl e dal compianto Ozzy Osbourne, Dominic Richard Harrison (questo il vero nome del cantante) ha coltivato nel tempo l’immagine della rockstar tormentata e maledetta, affetta da importanti disturbi psicologici, vittima di abusi e di dipendenze, impegnato, però, in numerose battaglie civili a favore della comunità LGBT.

Sempre in bilico fra dannazione e santità, Yungblud, grazie anche un uso spregiudicato dei social, ha costruito un hype che non ha lasciato indifferente il pubblico dei propri coetanei, dando, però, l’impressione, a livello musicale, di non avere molte frecce al proprio arco e di attestarsi su una proposta modesta (un pastiche dal vago sentore punk), un po’ posticcia e molto ruffiana, ma sostanzialmente priva di autentico pathos. Più apparenza che sostanza, insomma.

Dopo tre anni di silenzio, il musicista inglese torna con il disco che potremmo definire della rinascita, l’abbrivio di una nuova vita personale e artistica, che abbraccia una visione più positiva della vita e un suono più coeso virato al pop rock. Uno stravolgimento per il mondo Yungblud e un passo abbastanza deciso verso una qualità artistica che, finalmente, potrà lasciare soddisfatti anche coloro che fino a oggi si sono schierati nelle fila dei detrattori.

Idols è un disco mainstream e radiofonico (entrambi i termini vengono usati in accezione positiva), di quelli che centrano il bersaglio fin dal primo ascolto, anche perché, lo diciamo senza mezzi termini, clamorosamente derivativo. L’album, tuttavia, non è un omaggio agli idoli del cantante (cosa che potrebbe sembrare a ogni traccia dell’album) ma semmai il contrario, rappresenta un allontanamento da quelli che sono stati i riferimenti di una vita e gli eroi a cui ispirarsi, allo scopo di forgiare una propria distintiva personalità.

Che le cose siano significativamente cambiate è testimoniato dal brano che apre la scaletta, "Hello Heaven, Hello", ben nove minuti di canzone a incastro, composta da una prima parte improntata sul più ruffiano brit pop (Coldplay) che lascia poi spazio a un fremente hard rock di matrice settantiana (tra Who e Queen) e relativo infuocato assolo di chitarra, per chiudersi, quindi, in una lunga coda oscillante tra archi ed elettronica, in cui torna protagonista il brit pop.

La successiva e altrettanto suggestiva "Idols Part 1" suona, invece, come un midtempo malinconico con arioso arrangiamento d’archi, il cui il suono di chitarra ricorda smaccatamente gli U2.

Un uno due inziale che non lascia indifferenti, e nonostante ogni nota sembra già essere stata ascoltata in virtù di approccio, come detto, clamorosamente derivativo, tutto funziona davvero bene e l’ascolto, brano dopo brano, che lo vogliate o meno, si fa sempre più intrigante.

Scalcia alla grande "Lovesick Lullaby", come se fosse suonata da degli Oasis che sogghignano al punk, salvo quell’intermezzo acustico che sembra preso in prestito dai CS&N, e fa centro anche "Zombie" (al pezzo dei Cranberries ruba sia il titolo che i chitarroni inziali), ballata struggente dedicata alla nonna malata, che coglie il punto di fusione esatto fra Placebo e Muse.

Placebo che tornano nella successiva "The Greatest Parade", una tirata elettrica, chitarre in resta e tensione melodrammatica, che rappresenta uno dei vertici dell’album, grazie soprattutto al concitato finale.

Sembra davvero un altro musicista, Yungblud, che si è levato di dosso l’impiccio delle pose per abbracciare, invece, un’espressività verace, sincera e appassionata. E per quanto tutto sia confezionato per l’heavy rotation radiofonica, non c’è una canzone che non meriti attenzione.

Anche la grandeur che apre "Change" e il rutilante crescendo d’archi risultano credibili nel loro parossistico eccesso, così come "Monday Murder", la cui melodia già ascoltata (Verve? U2?) è costruita con piglio lineare e accattivante. Gli U2 tornano prepotentemente nelle chitarre di Ghosts, ennesimo brano che abbina leggerezza, semplicità e melodia, fino a che un inaspettato finale non spariglia le carte tra synth vagamente mediorientali, handclapping e un chitarrone che evoca i primi Queen e spinge verso un finale incandescente.

L’ultima parte dell’album raccoglie i suoi frutti migliori: "Fire" è uno strano mix fra brit pop e hard rock, "War", uno degli apici del disco, è un malinconico mid tempo emo rock che piacerebbe ai fan dei Placebo e "Idols Part 2" veste i panni della ballata per pianoforte, che avrebbe fatto bella mostra di sé in alcuni dischi degli Oasis.

Chiude "Supermoon", un’altra ballata cinque stelle, suonata con la foto di Elton John sul pianoforte e attraverso quel clamoroso suono settantiano che rimanda agli anni migliori del leggendario Rocket Man.

Suntuoso sigillo di un disco che vede Dominic Richard Harrison cambiare pelle, dismettere i panni del personaggio ed essere, finalmente, la versione migliore di se stesso. Anche chi in precedenza gli era ostile, oggi non piò che accogliere il ragazzo come un figliol prodigo, che ha saputo imboccare quella che è forse la strada più risaputa del rock, percorrendola, però, con un entusiasmo e una veracità che non possono lasciare indifferenti.

Voto: 7,5

Henere: Rock, Pop

 


 

 

Blackswan, giovedì 28/08/2025

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