sabato 13 luglio 2013

GOGOL BORDELLO – PURA VIDA CONSPIRACY



Non v’è dubbio che Eugene Hutz sia un furbacchione coi baffi. Quando nel 2005 i suoi Gogol Bordello erano ancora delle nullità agli occhi del mondo, Hutz seppe trovare la chiave che aprivca la porta al successo commerciale : amicizie famose (Madonna), un ruolo importante nel bel film di Liev Schrieber, Ogni Cosa è Illuminata, e un disco, Gipsy Punk, che fondeva punk, rock e suoni balcanici in una roboante patchanka ad altissimo tasso energetico. A corroborare il tutto, i Gogol Bordello salivano sul palco per dar vita a concerti indemoniati, suonati col trasporto definitivo di un gruppo di ubriaconi che, a una festa di matrimonio, ci devon dar dentro di brutto prima che anche l’ultima bottiglia di vodka finisca. Insomma, un carrozzone itinerante e fracassone che dispensava divertimento, ebbrezza alcolica e un folk zingaro sporcato di ruvidezze rock: si balla e si zompa finchè c’è fiato nei polmoni, e il resto conta poco. Su questa formula vincente Eugene Hutz campa ormai da anni. Niente di grave, per carità, se non fosse che il principio “pecunia non olet” abbia preso il sopravvento sul debordante entusiasmo degli esordi. Oggi il Gipsy Punk del 2005 ha perso completamente la propria vena iconoclasta di cialtronerie assortite (bestemmie incluse, si ascolti la mitica Santra Marinella), lasciando il posto a un innocuo Gypsy Pop. Pura Vida Conspirancy è un disco sciapo e senza mordente, che ripresenta sempre la solita solfa ma leccata a uso e consumo del grande pubblico. Sorvoliamo sulla copertina orripilante che già la direbbe lunga sul contenuto in scaletta; e ti perdoniamo, caro Hutz, anche quel titolo ammiccante a sonorità latino americane che, si sa, piacciono tanto a chi non possiede una coscienza musicale che vada oltre i balli di gruppo in un villaggio Alpitour. Qui, però, sono proprio le canzoni a fare pena : banali, prive di verve, tese a centrare il ritornello vincente che si trasforma, fin dal primo ascolto, in un innocuo involucro di plastica. Tanto che, arrivati alla patetica Malandrino (e siamo solo al terzo pezzo di un lotto di dodici canzoni), verrebbe già voglia di lanciare il cd dalla finestra. Insomma, siamo arrivati alla vittoria dell’imborghesimento su una filosofia musicale che, non più tardi di qualche anno fa, sembrava vivere a cento all’ora e a “regole zero”. Il disco, ne sono sicuro, piacerà comunque, perché il mondo è pieno di cazzoni che amano lustrare il pedigree da etno-freakettoni, sostenendo che i Gogol Bordello sono fottutamente alternativi. Un tempo, forse si. Un disco del genere, invece, lo si può passar tranquillamente in una balera estiva senza dispiacere gli avventori. Quanta tristezza.

VOTO : 4,5 





Blackswan, sabato 13/07/2013

giovedì 11 luglio 2013

JOEL DICKER - LA VERITA' SUL CASO HARRY QUEBERT




Estate 1975. Nola Kellergan, una ragazzina di 15 anni, scompare misteriosamente nella tranquilla cittadina di Aurora, New Hampshire. Le ricerche della polizia non danno alcun esito. Primavera 2008, New York. Marcus Goldman, giovane scrittore di successo, sta vivendo uno dei rischi del suo mestiere: è bloccato, non riesce a scrivere una sola riga del romanzo che da lì a poco dovrebbe consegnare al suo editore. Ma qualcosa di imprevisto accade nella sua vita: il suo amico e professore universitario Harry Quebert, uno degli scrittori più stimati d'America, viene accusato i avere ucciso la giovane Nola Kellergan. Il cadavere della ragazza viene infatti ritrovato nel giardino della villa dello scrittore, a Goose Cove, poco fuori Aurora, sulle rive dell'oceano. Convinto dell'innocenza di Harry Ouebert, Marcus Goldman abbandona tutto e va nel New Hampshire per condurre la sua personale inchiesta. Marcus, dopo oltre trentanni deve dare risposta a una domanda: chi ha ucciso Nola Kellergan? E, naturalmente, deve scrivere un romanzo di grande successo.


DIECI MOTIVI PER NON LEGGERE LA VERITA' SUL CASO HARRY QUEBERT (OVVERO PERCHE' FUGGIRE DAL CAPOLAVORO CHE VI CAMBIERA' LA VITA)

1) Perchè quando avrete finito il libro, vi troverete a gestire un lutto di difficilissima rielaborazione. I funerali costano un fottio e Joel Dicker vi mancherà come un fratello.
2) Perchè quando avrete finito il libro, troverete pleonastica, inutile e financo fastidiosa qualsiasi altra lettura, Gazzetta dello Sport seduti sulla tazza, compresa.
3) Perchè anche se i più grandi scrittori di thriller, e penso a Nesbo, Winslow e King, unissero le proprie forze per partorire un romanzo in comune, a Joel Dicker non riuscirebbero nemmeno a lucidare le scarpe. Un vero disastro, per il mondo del noir.
4) Perchè è certo che finirete anche voi per innamorarvi di Nola Kellergan, e a quel punto il rischio è che si finisca per essere in troppi.
5) Perchè ottocento pagine fitte di colpi di scena senza soluzione di continuità produrranno un danno irreversibile per le coronarie, soprattutto dopo che si è superata una certa età.
6) Perchè in questo libro non c'è una pagina che racconti la verità, non c'è una finzione che non appaia reale e non c'è una realtà che non vorresti fosse finzione. Risolvetelo 'sto maledetto casino, se siete capaci.
7) Perchè gli amori impossibili sono eterni e quelli possibili terribilmente noiosi. Molto meglio non doverlo scoprire, soprattutto dopo che si è superata una certa età.
8) Perchè La verità Sul Caso Harry Quebert è soprattutto un libro che racconta la passione per la scrittura. Pertanto, quando lo finirete vi verrà voglia di scrivere un romanzo. Mettetevi in fila, però : sono arrivato prima io.
9) Perchè ve lo venderanno come il best-seller dell'estate, ma quando avrete letto l'ultima pagina vi rendere conto che la vostra estate nemmeno è iniziata: sono passate al massimo 48 ore.
10) Perchè in queste 48 ore nel vostro cervello imperverserà un piccolo, fottutissimo tarlo che come un indemoniato ripeterà in loop: chi cazzo ha ucciso Nola Kellergan ?

Se adesso volete conoscere i dieci motivi per cui leggere La Verità Sul Caso Harry Quebert, cliccate QUI.

Blackswan, giovedì 11/07/2013

mercoledì 10 luglio 2013

ATTENTI A QUEI BLU ! - 3° PUNTATA


Eccoci arrivati alla terza puntata di Attenti A Quei Blu. Quella pubblicata oggi è una trasmissione molto particolare dal momento che viene interamente dedicata alla Black Music. Spazieremo quindi fra funky, hip hop, blues, jazz, soul e R&B, partendo dal presupposto che le canzoni siano suonate esclusivamente da artisti di colore. Ma la puntata sarà speciale anche per altri due motivi. Prima di tutto, e vi prego di trattenere le lacrime, alla registrazione non ha partecipato il vostro affezionato Indie Brett, chiamato ad altri lidi da gravosi impegni istituzionali. Immagino il vostro disappunto, che però spero riusciremo a rintuzzare almeno in parte, dal momento che abbiamo fatto vestire i panni di Indie dal nostro Pota Rock, oggi in duplice veste di bergamasco delle valli e fighetto alternative. In secondo luogo, e questo è il vero fiore all'occhiello dell'episodio, alla puntata hanno preso parte come special guestes i grandissimi Ale & Franz, titolari di Radio Pane & Salame e protagonisti inimitabili di Affettati Misti (il podcast della puntata di domenica 7 luglio potete scaricarlo cliccando sull'icona posta a destra della pagina).
Come ogni volta, onde evitare di essere sommersi da improperi, mettiamo le mani avanti : non siamo professionisti, prendiamo stecche paurose, ma profondiamo sempre il massimo dell'impegno e dell'imbecillità. Se saremo stati capaci di strapparvi qualche sorriso, bene. Se non ci saremo riusciti, avrete avuto comunque modo di concentrarvi esclusivamente sulla musica : quella è sicuramente buona.
PER ASCOLTARE LA TERZA PUNTATA DI ATTENTI A QUEI BLU ! CLICCA QUI.

martedì 9 luglio 2013

KORN - KORN



C’è una bambina bionda seduta in altalena. Ha il sole in faccia e deve farsi scudo con la mano per poter guardare meglio l’uomo che le si è appena avvicinato. Noi ne vediamo solo l’ombra, che grava inesorabile sulla piccola, ma è facilmente intuibile che si tratti di malintenzionato. Uno psicopatico, uno stupratore o forse un serial killer. Sul retro di copertina c’è la stessa foto, ma questa volta l’altalena è vuota e la bimba non c’è più, dando così conferma ai i nostri peggior timori. Se mai una cover possa esprimere in modo esaustivo  il contenuto di un disco, ciò avviene proprio per il primo disco dei Korn, datato 1994. In California, sta nascendo il nu-metal, l’ultima grande rivoluzione della storia, che, come l’ombra che vediamo in copertina, incombe sugli anni ‘90, pronta a devastare, a radere al suolo le macerie del grunge e a dare un senso davvero compiuto alla parola alternative. Korn, prodotto ottimamente da quel geniaccio di Ross Robinson (che in seguito lavorerà anche con i Deftones, i Soulfly e gli Slipknot) è un disco psicogeno, destabilizzante, ad ascoltare il quale si respira un senso di tragedia imminente che ottunde i sensi. Siamo di fronte al redde rationem del genere, in cui le coordinate espressive del metal, così come lo conoscevamo , vengono tritate e poi ricomposte in un coacervo di suoni in odore di apocalisse. Robinson e i Korn lavorano per un anno, scrivono pezzi su pezzi, limano il suono con l’intento di superare (obiettivo centrato) l’involucro convenzionale della canzone rock: nei dodici brani in scaletta non esistono infatti strofe, non esistono ritornelli, non esiste più nulla di ciò che anche il più scafato metallaro era abituato ad ascoltare. I riff di chitarra sono ossessivi, paranoici, quasi atonali, e spingono l'ascoltatore in un labirinto claustrofobico in cui una magmatica reiterazione noise impedisce ogni sbocco, ogni via d’uscita. Il drumming si presenta secco, essenziale, ma Silveira non lesina mai in violenza. Il basso di Fieldy, a sua volta, è un martello dall’anima cupa, preciso come un metronomo, più asettico di una sala operatoria, più acuminato di un bisturi. Su questa miscela dirompente di metal, hip-hop, funk, industrial, su questa feroce deflagrazione di suoni, domina la voce tormentata, inquieta (ed inquietante) di Jonathan Davis. In Davis convivono la follia e il dolore inconfessabile, la paranoia e l’estasi, la rabbia ma anche una malcelata vulnerabilità. E’ realmente sconvolgente questo cantato multiforme, ondivago, totalmente instabile : da sussurri impercettibili si passa a repentine esplosioni di ferocia belluina, dal pianto e dall’implorazione si vira, senza soluzione di continuità, al latrato e al delirio. Davis canta come solo un invasato o uno sciamano in preda a un trip può fare. E soprattutto canta di morte, di nichilismo, di terrore, di depressione, di solitudine, di abusi sui minori con un pathos così emotivamente coninvolgente da lasciare senza fiato (la conclusiva Daddy con il pianto straziante di Davis è un pugno allo stomaco che ottunde l’ascoltatore, rendendolo completamente impotente e attonito). Korn non solo ridicolizza qualsiasi altra forma di crossover e pone la definitiva  pietra tombale sulla stagione del grunge, ma apre soprattutto una corsia preferenziale sull’autostrada del rock, che verrà percorsa da un numero impressionante di band. Nessuna delle quali tuttavia riuscirà mai a raggiungere  i vertici creativi e lo straniante nichilismo di questo straordinario esordio, così come i Korn non saranno mai più in grado di ripetersi a questo livello.




Blackswan, mercoledì 10/07/2013

lunedì 8 luglio 2013

BLACK SABBATH – 13



Il ritorno sulle scene dei Black Sabbath è uno di quegli eventi che potremmo definire, con una parola oggi molto in voga, divisivo. Ci saranno infatti quelli che, a prescindere, parleranno di operazione commerciale, di vecchi dinosauri con problemi di incontinenza e deambulazione, di musica patetica e rilasciata fuori tempo massimo. E ci saranno coloro che, per converso, acquisteranno il disco felicissimi di avere fra le mani l’ennesimo, il tredicesimo, disco di una band che ha segnato la storia del rock, inventando un genere da cui in tantissimi, nel corso di quarant’anni, hanno tratto ispirazione artistica e conseguente successo. Detrattori e fans, basta affacciarsi per un attimo nel web, se le danno di santa ragione, argomentando i pro e i contro, con un livore che francamente non mi pare giustificato. Basterebbe infatti ascoltare il disco per rendersi conto, lo dico soprattutto per i detrattori dalle orecchie alternative, che 13 è un buon disco, e lo è in assoluto, anche se dei Black Sabbath non vi è mai fregata un’emerita ceppa. Loro sono anziani, è vero, loro rifanno esattamente quello che hanno sempre fatto, è vero anche questo, e il disco, viste le condizioni di salute di Iommi, resterà con molta probabilità l’estemporaneo ritorno (senza seguiti) di tre veterani acciaccati da tanto perigliare, ma in un certo senso ancora ironicamente indomiti. Che i tre abbiano voglia di fare, di rispolverare l’antica gloria, lo si sente da subito, fin dal primo pezzo, intitolato, forse con un pizzico di preveggenza, End Of The Beginning. E stupisce davvero riascoltare quei suoni gagliardi che ci eravamo scordati ormai da qualche decennio. D’altra parte, il Viagra di questi cazzutissimi signori della notte si chiama Rick Rubin, un signore barbuto che di mestiere vive dietro la consolle per resuscitare carriere terminali e morti viventi. Di Rubin si potrà dire tutto il peggio possibile, a volte anche centrando il bersaglio, dal momento che l’uomo, quando ci mette mano, lo fa pesantemente, dettando legge senza il minimo scrupolo. Però è indubitabile che uno come Rubin riesca sempre laddove altri fallirebbero. Così 13 restituisce alle nostre orecchie quel fascino notturno e demoniaco che ci eravamo dimenticati, grazie a una produzione certo invasiva, ma eccellente nel disegnare le atmosfere claustrofobiche entro le quali i nostri eroi  si muovono con la stessa scioltezza con cui noi ci aggiriamo fra le pareti domestiche. Ozzy, peraltro, sembra aver ripreso un piglio che recenti prove canore (mi viene da pensare subito alla collaborazione con Slash) ci testimoniavano irrimediabilmente perduto (ascoltatelo in Damaged Soul e godete), mentre Butler e Iommi stanno sul pezzo come ai bei vecchi tempi (e sentire Iommi che riffa ai margini dell’abisso, nonostante quel po’ po’ di malanno che si è beccato, è addirittura commovente). Otto canzoni (alcune notevoli davvero come Loner e Dear Father) che ripropongono un doom-metal dal sapore antico ma non frusto, e anzi incredibilmente credibile e malevolmente sulfureo. Un sabba di streghe, probabilmente l’ultimo, che si chiude con lo scrosciare di un temporale e il rintocco di una campana a morto. Tutto ciò, insomma, che ci si doveva attendere da un disco dei Black Sabbath, né più né meno. Vecchi ? Indubbiamente. Eppure ancora in grado di mettere in riga giovani eredi senz’anima e starlet dell’indierock. Bentornati all’inferno e in culo ai detrattori.

VOTO : 7,5




Blackswan, martedì 09/07/2013