venerdì 12 agosto 2011

FABRIZIO DE ANDRE' - L'INDIANO

De Andrè aveva tutto ciò che un grande poeta deve avere.In primo luogo, una cultura smisurata,la capacità di un approcio filologico alla parola,il dono della sintesi e della semplicità,necessario a trasmettere in poche strofe concetti profondi in modo che tutti capissero.E aveva anche una grande anima,una sensibilità istintuale verso gli altri, verso il mondo che lo circondava e la natura.Comprendeva,sentiva profondamente, l'immensa dicotomia fra la finitezza dell'uomo ed il respiro eterno del Creato,fra la banalità del vivere e la trascendenza di una divinità da cui tutto promana ( e che è costante presenza nelle composizioni dell'artista genovese ).E poi, soprattutto,Faber aveva cuore.Il cuore di un uomo coraggioso,coerente,capace di dire quando tutti tacevano,capace di prendere le parti degli oppressi,di infrangere il muro dell'ipocrisia e dell'imobilismo della società italiana,bigotta e democristiana, oggi come allora.Tre qualità,queste,che lo hanno reso uno tra i più grandi poeti italiani ( non solo musicista,dunque ) capace di rendere "universali ", tramite lo strumento della canzone,opere della nostra ed altrui letteratura ( " Si fosse foco " e "Spoon River ",ad esempio ),di riscoprire e rigenerare la cultura mediterranea ed il dialetto ligure ( " Crueza de Ma " ),di scrivere liriche di una tale suggestione da essere entrate con forza nel nostro linguaggio e patrimonio culturale ( "La canzone di Marinella "," Bocca di rosa "," La canzone del maggio " ).Oggi viviamo in un mondo nel quale pare non si possa prescindere dall'immagine.Tutta forma,poca,pochissima, sostanza.L'universo della musica rappresenta,per certi versi,l'esempio più emblematico di questo assunto.Se non sei " stiloso ", se non curi con molta attenzione abbigliamento e sguardo,non sei nessuno.Primo obiettivo il profitto,vendere un prodotto,partendo dalla confezione.Il contenuto di un cd è un aspetto secondario.L'immagine di De Andrè,invece, erano i libri che leggeva e che amava,che riempivano la sua vita e la sua opera.La sua immagine erano le sue parole,ponderate,riflettute,espresse con la misura e la delicatezza di un gentiluomo.Uomo e musicista sublime,De Andrè credeva che la musica fosse essenzialmente progetto e ricerca,un viaggio a tappe attraverso il pensiero ed il sentire dell'uomo,per scoprire ciò che dovrebbe essere il primario,e forse l'unico, obiettivo dell'arte:cercare la verità.In un panorama musicale come quello italiano degli ultimi cinquant’anni,nel quale la tradizione è solo canzonetta ed il cantautorato e l'alternativo hanno fatto, e fanno da sempre, il verso alla scuola americana ed inglese,i dischi di De Andrè hanno rappresentato, e rappresentano, un unicum artistico che ancora non conosce epigoni.Forte di una sbrigliata fantasia,il cantautore genovese non si è mai fatto sedurre dalle mode del momento,eludendo il poppettino degli anni '60,il progressive dei '70 e le tastierine degli '80.De Andrè aveva in mente la canzone francese ed il folk di Dylan,ma li rielaborava con uno stile personalissimo,attingendo tanto dalla musica sacra,quanto dalla tradizione popolare mediterranea,fino a creare un impasto sonoro dalle coordinate spazio-temporali non identificabili."L'indiano " ( in realtà il disco non ha titolo e prende il nome dalla copertina ),è uno degli esempi più riusciti di questa idea di musica .Scritto dopo la terribile esperienza del rapimento,il disco muove dal parallelo fra la civiltà indiana ( e per assimilazione,quella sarda ed isolana ) e la nostra civiltà dei consumi,in un raffronto di valori che ci vede definitivamente sconfitti.Se  i nostri sono tempi di dolore e di paura,di frenesia e speculazione, la cultura pellerossa per converso insegna l'etica del rispetto versi i deboli e gli sconfitti,parla il linguaggio della fratellanza e del dialogo, aspira alla libertà  dello spirito attraverso una visione mistica e fantasiosa della natura.Il rock'n'roll inziale di " Quello che non ho" è proprio l'emblema del rifiuto della società odierna, che viene stigmatizzata attraverso un' elencazione che sbertuccia l'inutilità dei nostri valori ed evidenzia come contraltare del consumismo  una semplicità quasi francescana.La semplicità degli ultimi, che trova la sua espressione compiuta nella successiva "Canto del servo pastore ",nel quale l'errore grammaticale di "..qual è la direzione nessuno me lo imparò ",è l'escamotage per dar voce alla gente semplice che vive con la natura il rapporto di cui si diceva pocanzi ( "mio padre è un falco,mia madre un pagliaio" ) e capace ancora "di vestire di foglie il proprio dolore".Un mondo antico e scomparso,quello che De Andrè cerca di resuscitare,un mondo cancellato dalla violenza e dall'inciviltà di tutti noi, bianchi ed occidentali.Così la trascinante ed emozionata" Fiume Sand Creek ",ispirata al film " Soldato Blu " di Ralph Nelson,parla del massacro della civiltà indiana e, in una sorta di universale assimilazione,di tutte le vittime delle guerre,di tutti quegli innocenti la cui esistenza è stata spazzata via dalla ferocia di uomini assetati di potere e  vanagloria ( " si sono presi i nostri cuori sotto una coperta scura,sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura,..fu un generale di ventanni figlio di un temporale,ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek " ).L'amore per la terra sarda,foriera di tanti dolori,e la riscoperta delle nostre tradizioni culturali,trovano l'apice emotivo nella suggestiva "Ave Maria ",rilettura in chiave post-rock e avanguardistica di un canto della tradizione isolana.Che è solo il preludio alla successiva " Hotel Supramonte ",capolavoro del disco, in cui la poesia di De Andrè raggiunge un perfetto equilibrio fra parole e note.Canzone sulla paura e la solitudine,sul perdono ed il dolore,mesto e nel contempo dolcissimo resoconto della prigionia vissuta da De Andrè e Dori Ghezzi,nel quale la tragedia viene rielaborata con misura,scegliendo la strada di un'affranta riappacificazione con la terra sarda,così amata eppure per certi versi così ostile.I giorni interminabili dell' isolamento ,il buio,l'angoscia,la precarietà della condizione di rapito,sono trattati senza enfasi,evitando il facile percorso della retorica e optando,invece, per quello più difficile della riflessione.Versi su un amore in cattività che,nel loro sussurato succedersi,sciolgono l'anima dell'ascoltatore in un'elegia,una preghiera consolatoria,in cui il male viene rielaborato nei contorni sfumati del ricordo.L'arrangiamento d'archi,discreto e lontano,culla dolcemente la voce da crooner di De Andrè,che impostata e teatrale si insinua sotto pelle fino a raggiungere l’alveo primigenio delle nostre paure.E come una carezza su un volto rigato di lacrime,quelle strofe recitate con tanto nostalgico abbandono,fanno intravvedere la luce di una speranza e di un anelito vitale che torna a pulsare,nonostante tutto( " Ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano,cosa importa se sono caduto se sono lontano " ).Un disco,"L'indiano ", che non conosce nè pause nè cedimenti di tensione.Allora,ecco spuntare tra l'epica " Franziska " ed il finale di " Verdi pascoli ",un'altra delle canzoni simbolo di De Andrè,quello splendore di armonia e poesia,che porta il nome di " Se ti tagliassero a pezzetti ".I celeberrimi versi"Signora Libertà,signorina Fantasia",rappresentano la definitiva dichiarazione programmatica  della poetica del cantautore genovese,e costituiscono l’incipit di un testo nel quale i riferimenti a un fatto di cronaca,nello specifico la strage alla stazione di Bologna( " I giornali in una mano e nell'altra il tuo destino,camminavi fianco a fianco al tuo assassino " ),si dileguano innanzi alla visione di un mondo e di una musica finalmente liberi,senza confini e recinti,capaci di fondere, in un palpito appassionato,ragionato sentire e giocosa fanciullezza.
Blackswan,sabato 19/02/2011

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