domenica 20 dicembre 2015

THE APARTMENTS – NO SONG, NO SPELL, NO MADRIGAL



Sono passati diciotto lunghissimi anni prima che Peter Walsh decidesse di emergere dalla coltre ascetica nella quale si era nascosto, per tornare finalmente a rivedere la luce, a respirare musica.  Quattro dischi, nel corso degli anni ’90, avevano trasformato gli Apartments in una band di culto, amata soprattutto da quei cuori malinconici grati ai languori della penombra. Come un Burt Bacharach dalle movenze notturne, Peter Walsh declinava un pop dalle trame dense, spesso arrangiate per archi e fiati, e dai testi amari e mai condiscendenti. Poi, quando, nel 1997, esce Apart, per Walsh tutto cambia, la vita si impone prepotentemente sulla musica e il mood malinconico delle canzoni viene spazzato via dall’urlo senza requie della tragedia: la malattia del figlio, il calvario, il lutto. Gli Apartments svaniscono, Walsh si richiude in se stesso, per cercare una cura alle proprie ferite interiori. Ci vuole tempo perché l’arte riesca a metabolizzare il dolore della perdita, a lenire un destino che non da scampo alla speranza. Ci sono voluti esattamente diciotto anni per riuscire a scrivere otto canzoni che chiudano in conti con il passato. Otto canzoni che non sono plumbee e contrite come ci sarebbe potuto aspettare, ma che nemmeno celebrano con enfasi una rinascita. No Song, No Spell, No Madrigal ha invece il passo di un uomo che torna a camminare sulle proprie gambe, ad attraversare quei boulevard parigini che erano i luoghi di una giovinezza ormai lontana. C’è grazia, e misura, e una nota sottostante di nostalgia, che nasce da un incanto perduto, da una passione non obliata, ma solo stemperata dall’età adulta. La tensione non è mai invasiva, non viene imprigionata dallo struggimento. C’è semmai uno sguardo che si scioglie in un sorriso triste, quello sguardo affettuoso e consapevole con cui la maturità si guarda dietro le spalle, ricordando i giorni andati, con pacatezza. Non ci sono lacrime in No Song, No Spell, No Madrigal, ma un’eleganza espressiva che rende sostanziale la perfezione della forma, con la consapevolezza che per raccontare il dolore, bisogna soprattutto saperlo scrivere bene. Delle otto canzoni che compongono la scaletta non ve n’è una, mi pare, che non sia decisiva, che non sappia raccontarci una storia, che non finisca per trovare riparo nei nostri cuori. Le poche note di piano che innescano il crescendo di Twenty One, la marmellata amara dal retrogusto eighties di Black Ribbons, il pulsare romantico della title track, la consanguineità ai Blue Nile di Paul Buchanan della straordinaria Looking For Another Town sono alcune delle cose più emozionanti ascoltate quest’anno. Canzoni che spingono l’inaspettato ritorno di Walsh verso il novero ristretto dei migliori dischi del 2015.

VOTO: 9





Blackswan, domenica 20/12/2015

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