Sono passati diciotto
lunghissimi anni prima che Peter Walsh decidesse di emergere dalla coltre
ascetica nella quale si era nascosto, per tornare finalmente a rivedere la
luce, a respirare musica. Quattro
dischi, nel corso degli anni ’90, avevano trasformato gli Apartments in una
band di culto, amata soprattutto da quei cuori malinconici grati ai languori
della penombra. Come un Burt Bacharach dalle movenze notturne, Peter Walsh
declinava un pop dalle trame dense, spesso arrangiate per archi e fiati, e dai
testi amari e mai condiscendenti. Poi, quando, nel 1997, esce Apart, per Walsh tutto
cambia, la vita si impone prepotentemente sulla musica e il mood malinconico
delle canzoni viene spazzato via dall’urlo senza requie della tragedia: la
malattia del figlio, il calvario, il lutto. Gli Apartments svaniscono, Walsh si
richiude in se stesso, per cercare una cura alle proprie ferite interiori. Ci
vuole tempo perché l’arte riesca a metabolizzare il dolore della perdita, a
lenire un destino che non da scampo alla speranza. Ci sono voluti esattamente
diciotto anni per riuscire a scrivere otto canzoni che chiudano in conti con il
passato. Otto canzoni che non sono plumbee e contrite come ci sarebbe potuto
aspettare, ma che nemmeno celebrano con enfasi una rinascita. No Song, No
Spell, No Madrigal ha invece il passo di un uomo che torna a camminare sulle
proprie gambe, ad attraversare quei boulevard parigini che erano i luoghi di
una giovinezza ormai lontana. C’è grazia, e misura, e una nota sottostante di
nostalgia, che nasce da un incanto perduto, da una passione non obliata, ma solo
stemperata dall’età adulta. La tensione non è mai invasiva, non viene imprigionata
dallo struggimento. C’è semmai uno sguardo che si scioglie in un sorriso
triste, quello sguardo affettuoso e consapevole con cui la maturità si guarda
dietro le spalle, ricordando i giorni andati, con pacatezza. Non ci sono
lacrime in No Song, No Spell, No Madrigal, ma un’eleganza espressiva che rende
sostanziale la perfezione della forma, con la consapevolezza che per raccontare
il dolore, bisogna soprattutto saperlo scrivere bene. Delle otto canzoni che
compongono la scaletta non ve n’è una, mi pare, che non sia decisiva, che non
sappia raccontarci una storia, che non finisca per trovare riparo nei nostri
cuori. Le poche note di piano che innescano il crescendo di Twenty One, la marmellata
amara dal retrogusto eighties di Black Ribbons, il pulsare romantico della
title track, la consanguineità ai Blue Nile di Paul Buchanan della
straordinaria Looking For Another Town sono alcune delle cose più emozionanti
ascoltate quest’anno. Canzoni che spingono l’inaspettato ritorno di Walsh verso
il novero ristretto dei migliori dischi del 2015.
VOTO: 9
Blackswan, domenica 20/12/2015
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