sabato 19 novembre 2016

LAMBCHOP – FLOTUS (City Slang, 2016)



Un tempo lo chiamavamo Alt Country, anche se, a dire il vero, questa definizione è sempre andata un po’ stretta all’inafferrabile creatività musicale che da sempre anima i dischi a firma di Kurt Wagner e soci. Flotus, figlio di una lenta e lunga evoluzione sonora e fratellino maggiore di The Diet, nato per partogenesi occasionale dal progetto estemporaneo HeCTA della scorso anno, spoglia definitivamente le canzoni dei Lambchop da ogni qual si voglia riferimento al roots americano, concentrando ogni idea compositiva sul concetto, spesso troppo sfuggente, di Alternative. Alternative cosa? viene spontaneo chiedersi. Forse, si potrebbe parlare di alternative rock, volendo dare a questa definizione l’accezione più ampia possibile. In realtà, per essere un tantino più circoscritti, Flotus si muove in territori più contigui a certa elettronica (Radiohead e l’ultimo Bon Iver, sembrano essere adeguati termini di paragone) o a un certo pop colto, raffinato e ombroso, i cui riferimenti potrebbero essere i The National o, tornando un po’ indietro nel tempo, gli scozzesi Blue Nile. Di sicuro, questo nuovo lavoro dei Lambchop è ben confezionato e possiede un hype molto moderno, accattivante soprattutto per quegli ascoltatori che fanno della tendenza un motivo di vanto. Insomma, un cambiamento, e forte, c’è stato, e si riflette con tutta evidenza nelle undici tracce di Flotus. Il disco, tuttavia, non riesce a convincerci fino in fondo e l’impressione che resta, dopo molti ascolti, è che se anche qualche buona idea non manca, la scaletta finisce però per suonare come un esercizio di stile, come a voler dimostrare, cioè, che i Lambchop sanno sempre rinnovarsi suonando attuali, obliqui e stilosi. Più realisti del re, più boniveriani di Bon Iver stesso (il titolo del primo brano, In Care Of 8675309 fa venire più di un sospetto). Eppure, le ricercatezze elettroniche e il mood da “mi taglio le vene, ma con superbo distacco”, finiscono per appesantire un linguaggio, che in altre occasione era stato in grado di essere efficace e toccarci il cuore (senza tornare troppo indietro nel tempo, cito Oh (Ohio) del 2008). Anche a voler soprassedere sull’uso del vocoder (ma la voce di Wagner non è bellissima in sé?), che sta alla musica come il gambaletto color carne al sesso, cioè che più toglie respiro al disco è l’estenuante lunghezza del minutaggio (settanta minuti complessivi), con cui Wagner mortifica il miglior brano del lotto (la citata In Care Of 8675309) o ci frantuma gli zebedei, è proprio il caso di dirlo, con la maratona intellettualoide di The Hustle, diciotto minuti ammorbanti che chiudono un lavoro sostanzialmente inutile. Insomma, se un tempo potevamo dire, senza timore di essere smentiti, che i Lambchop difficilmente sbagliano un disco, Lotus finisce, invece, per inserirsi nella scia di Mr. M (2012), il precedente e poco convincente capitolo, facendoci sospettare che, per il momento, Kurt Wagner abbia già scoccato le migliori frecce al suo arco.

VOTO: 5





Blackswan, sabato 19/11/2016

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