Un tempo lo
chiamavamo Alt Country, anche se, a dire il vero, questa definizione è sempre
andata un po’ stretta all’inafferrabile creatività musicale che da sempre anima
i dischi a firma di Kurt Wagner e soci. Flotus, figlio di una lenta e lunga
evoluzione sonora e fratellino maggiore di The Diet, nato per partogenesi
occasionale dal progetto estemporaneo HeCTA della scorso anno, spoglia
definitivamente le canzoni dei Lambchop da ogni qual si voglia riferimento al
roots americano, concentrando ogni idea compositiva sul concetto, spesso troppo
sfuggente, di Alternative. Alternative cosa? viene spontaneo chiedersi. Forse,
si potrebbe parlare di alternative rock, volendo dare a questa definizione
l’accezione più ampia possibile. In realtà, per essere un tantino più
circoscritti, Flotus si muove in territori più contigui a certa elettronica
(Radiohead e l’ultimo Bon Iver, sembrano essere adeguati termini di paragone) o
a un certo pop colto, raffinato e ombroso, i cui riferimenti potrebbero essere
i The National o, tornando un po’ indietro nel tempo, gli scozzesi Blue Nile.
Di sicuro, questo nuovo lavoro dei Lambchop è ben confezionato e possiede un
hype molto moderno, accattivante soprattutto per quegli ascoltatori che fanno
della tendenza un motivo di vanto. Insomma, un cambiamento, e forte, c’è stato,
e si riflette con tutta evidenza nelle undici tracce di Flotus. Il disco,
tuttavia, non riesce a convincerci fino in fondo e l’impressione che resta,
dopo molti ascolti, è che se anche qualche buona idea non manca, la scaletta
finisce però per suonare come un esercizio di stile, come a voler dimostrare,
cioè, che i Lambchop sanno sempre rinnovarsi suonando attuali, obliqui e
stilosi. Più realisti del re, più boniveriani di Bon Iver stesso (il titolo del
primo brano, In Care Of 8675309 fa venire più di un sospetto). Eppure, le
ricercatezze elettroniche e il mood da “mi taglio le vene, ma con superbo
distacco”, finiscono per appesantire un linguaggio, che in altre occasione era
stato in grado di essere efficace e toccarci il cuore (senza tornare troppo
indietro nel tempo, cito Oh (Ohio) del 2008). Anche a voler soprassedere
sull’uso del vocoder (ma la voce di Wagner non è bellissima in sé?), che sta
alla musica come il gambaletto color carne al sesso, cioè che più toglie
respiro al disco è l’estenuante lunghezza del minutaggio (settanta minuti
complessivi), con cui Wagner mortifica il miglior brano del lotto (la citata In
Care Of 8675309) o ci frantuma gli zebedei, è proprio il caso di dirlo, con la
maratona intellettualoide di The Hustle, diciotto minuti ammorbanti che
chiudono un lavoro sostanzialmente inutile. Insomma, se un tempo potevamo dire,
senza timore di essere smentiti, che i Lambchop difficilmente sbagliano un
disco, Lotus finisce, invece, per inserirsi nella scia di Mr. M (2012), il
precedente e poco convincente capitolo, facendoci sospettare che, per il
momento, Kurt Wagner abbia già scoccato le migliori frecce al suo arco.
VOTO: 5
Blackswan, sabato 19/11/2016
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