Sono stanco, devo riposare. Non riesco più a tenere il passo che la gestione quotidiana di questa pagina impone, e allora rallento un pò. Scriverò ancora, questo è certo ( ho in progetto anche altri post congiunti ), ma almeno per il momento, procederò più lentamente, con cadenze più dilatate. D’altra parte, questo blog era nato per essere una sorta di corale condivisa con più amici, e invece in poco tempo mi sono trovato a mandarlo avanti praticamente da solo. Purtroppo, quando si sta fuori di casa per più di dodici ore al giorno, a fare peraltro un lavoro di merda, e non si ha internet in ufficio, ciò che viene semplice ai più per me si è traformato in una quotidiana battaglia contro il tempo. Una battaglia che non significa solo scrivere accerchiato dal casino e aggredito dagli impegni, ma anche, e forse soprattutto, riuscire a svolgere tutte quelle attività, letture, ascolti, visioni, che stanno alla base di ogni post. Ora, nonostante scribacchiare sia una cosa che mi da immensa gioia, mi sento completamente spremuto e capisco di non riuscire più a gestire questo progetto con lo stesso entusiasmo e la stessa dedizione di qualche mese fa. Soprattutto, ed è ciò che più mi mortifica, mi spiace sinceramente non riuscire a scrivere con costanza sui vostri blog, e rispondere con la dovuta sollecitudine ai tanti commenti che lasciate sul mio ( che sono anche le due cose che contano davvero). Nonostante i progressi della tecnologia, io giro ancora con solo due mani, due occhi e un cervello che, per quanto allenato, ogni tanto va in tilt. Nessun chip nella corteccia cerebrale che mi permetta di accelerare i processi intellettivi, nessuna diavoleria tipo ipad o iphone che mi consenta di essere operativo anche mentre viaggio in metropolitana o sto seduto sulla tazza del cesso. Vi chiedo pertanto scusa per le mancanze dei mesi scorsi e per quelle che seguiranno e vi chiedo di perdonarmi se, magari per un po’, non riuscirò a essere attivo come vorrei. So che questo post chiama in risposta un bel “chissenefrega ! “ ( e ci sta benissimo ), ma lo trovo comunque doveroso nei confronti di quelle persone, davvero tante, che mi hanno sempre esternato gentilezza, attenzione e affetto con assoluta gratuità.
Beatles contro Rolling Stones, l'eterna lotta, il bene contro il male, la ponderatezza contro gli istinti, i bravi ragazzi col caschetto contro i cattivi ragazzi di "Lascereste uscire vostra figlia con un Rolling Stone?", le proteste pacifiche e le derive mistiche contro le provocazioni e il "Sex, drug & Rock'n'roll", "Revolver" contro "Sticky fingers", "Sgt. Pepper" contro "Exile on main street", il diavolo e l'acqua santa e diciamoci la verità, quale dei due scuote di più?....
Il diavolo e l'acqua santa, partiamo proprio da questo duello eterno, duello che in fin dei conti non c'è mai stato veramente, anzi, è più che noto che le due band tutto erano tranne che rivali, tanto che alla cerimonia per la nomina a baronetti dei quattro di Liverpool nella zona riservata agli amici della band erano seduti proprio Jagger e soci, e il testo del primo singolo degli Stones, "I wanna be your man" porta le firme di Lennon e McCartney. Rivali no, nemici tantomeno e allora, al di là dei giochi di marketing che per decenni hanno diviso le fazioni dei fans da una parte o dall'altra e che hanno alimentato e continuano ancora oggi ad alimentare interminabili discussioni, cosa lega i Beatles agli Stones? Io credo che sia la complementarietà la chiave di volta di tutta la faccenda; non sono infatti soltanto le apparenti differenze tra le due band a tenere banco, ma anche e soprattutto quanto queste differenze contribuiscano ad avere un quadro davvero completo e quanto in un certo senso senza i Beatles non ci sarebbero stati gli Stones come li conosciamo e viceversa. Tutti gli aspetti discordanti issati a bandiera dalle schiere di fans da una parte vanno a compensarsi con gli opposti aspetti dall'altra, a partire dalle radici musicali, il rock blues per gli Stones, genere per definizione e storia immutabile nel tempo, e il beat per gli scarafaggi, nato proprio in quel periodo e quindi abbastanza giovane da poter essere ampliato e sperimentato, proprio come Lennon e compagni hanno saputo magistralmente fare; blues e beat, apparentemente nulla a che vedere l'uno con l'altro, eppure insieme, visti dalla debita distanza, rappresentano il vecchio e il nuovo, il classicismo e l'avanguardismo, il solido, potente e sferzante blues di Londra e la piccola Liverpool che prepara la sua esplosione a suon di hit e vagiti che diventeranno sonorità seminali per i decenni a venire; tutto il resto deriva probabilimente proprio da questa differenza iniziale, anche gli atteggiamenti e il modo di interpretare la propria musica e mandare i propri messaggi: i Beatles sono i veri figli della working class, vengono da una città fino a quel periodo abbastanza defilata per quel che riguardava la musica o le mode, e di conseguenza la loro visione del mondo aveva tutta un'altra prospettiva rispetto a chi come gli Stones arrivava dalla City, dalla Londra delle esplosioni modaiole, dei club superaffollati e delle radio locali a profusione.
Da queste diverse basi di partenza iniziano le carriere delle due probabilmente più importanti band della storia del rock e della musica in generale, due band essenziali tra cui scegliere "la migliore" senza riserve è cosa pressochè impossibile, anche perchè le vicendevoli influenze sono più che evidenti, e secondo me non è un mistero il perchè l'ispirazione degli Stones e la loro creatività siano andate scemando dal '72 in avanti, poco dopo la scissione dei Beatles. Le preferenze in questo caso dipendono dai gusti, ovviamente, e per come la vedo io da come ognuno di noi inquadra la musica, da quale dimensione le si da. Io ad esempio preferisco, per attitudine, inquadrare la musica nella dimensione live, quella di un concerto, che sia in uno scantinato buio, in uno stadio o in spiaggia davanti a quasi un milione e mezzo di spettatori (Ogni riferimento al concerto degli Stones a Copacabana è puramente voluto), e dovendo scegliere tra i due, con una pistola puntata alla tempia (e credo sarebbe l'unica possibilità in cui darei una risposta) il mio voto andrebbe agli Stones, per questa e per diverse ragioni di cui la più importante è sicuramente il fatto che il sound degli Stones, derivando dai suoni grezzi e polverosi del blues, è più viscerale e più coinvolgente oltre che più spettacolare, mentre quello dei Beatles essendo sperimentale è molto più elaborato, sicuramente più sofisticato e da affrontare in maniera più attenta e ponderata. Quel che solitamente mi piace sottolineare quando si affronta questo discorso è che l'unica vera differenza abissale tra Beatles e Rolling Stones secondo me sta in una aspetto tanto apparentemente banale quanto in realtà estremamente significativo: i Beatles scrivevano prima i testi e poi la musica, mentre gli Stones facevano l'esatto contrario; ne consegue che la musica dei Beatles è asservita ai testi, mentre per gli Stones sono i testi a seguire la musica. E' questo in fondo l'ago della bilancia, e non significa certo nè che i Beatles non abbiano composto dei veri capolavori di arrangiamento nè tantomeno che gli Stones non abbiano scritto testi splendidi, ma provate a pensare al pezzo che più vi ha conquistato di una e dell'altra band, qual è la cosa che ricordate più facilmente? Io scommetto che nel caso dei Beatles saranno le parole e nel caso degli Stones la musica, e ancor più facilmente il riff iniziale di Keith Richards, e tutto ciò non può essere un caso.... Potrei star qua altre decine di ore a scrivere di quanto Beatles e Stones siano diversi e di quanto sotto sotto si completino a vicenda, ma il concetto in fondo resta uno, io non posso fare a meno dei Beatles, credo che nessuno con una passione anche solo accennata per la musica, per l'arte o per la cultura ne possa fare a meno, e i loro dischi sono un ascolto quasi obbligatorio ogni settimana, ma le vibrazioni viscerali delle 5 corde di Keith Richards, la verve di un animale da palcoscenico come Mick Jagger, i ritmi rock'n'roll e le sferzate elettriche, l'istrionismo di Mick Taylor quando era uno di loro, il sapiente tocco del defilato Ron Wood, l'impassibilità impressionante di Charlie Watts e la potenza e l'energia che solo gli Stones ti sanno rovesciare addosso dal bordo di un palco sono cose che mi scuotono dentro, forse più delle splendide e incisive parole di Lennon e delle spiazzanti melodie di McCartney, che ci posso fare? "It's only rock'n'roll, but I like it! !"
La rivalità fra Beatles e Rolling Stones è una leggenda metropolitana, un’invenzione dei media. I due gruppi non solo si stimavano, ma in qualche modo collaboravano affinchè le reciproche uscite discografiche non andassero a sovrapporsi. Bastava un colpo di telefono e il gioco era fatto: questo mese usciamo noi, il prossimo è tutto vostro. E bacio in bocca a sugellare l’accordo. Non solo. E’ lo stesso Keith Richards, nella sua biografia intitolata Life, a raccontare dell’amicizia con John Lennon e di un leggendario viaggio attraverso l’Inghilterra che i due intrapresero adeguatamente sballati da vagonate di sostanze psicotrope. Niente odio, insomma, nè rapporti tesi o reciproche antipatie e scorrettezze assortite.
La rivalità, questa si, realmente esistente, è semmai quella fra i fans dell’una e dell’altra band, che da sempre rivaleggiano per stabilire a chi, tra Beatles e Rolling Stones, spetti il primato in fatto di caratura artistica, originalità e, mettiamola anche così, di linguaggio del corpo al servizio delle mode.
Ma è davvero possibile sostenere il primato degli uni sugli altri ? Ci sono elementi oggettivi, che prescindono quindi dal gusto personale, per sostenere che i Beatles siano stati più seminali degli Stones o viceversa ? Personalmente amo sia gli uni che gli altri, ho le due intere discografie e penso sinceramente che la mia vita su questa terra sarebbe stata meno bella se non avessero convissuto, fra i miei ascolti, tanto per fare un esempio, due dischi quali Revolver ed Exile On Main Street.
Beatles e Rolling Stones sono stati e sono le due facce della stessa medaglia. Due facce che si mostrano differenti non certo sulla distinzione fra pop e rock ( superficialmente aprioristica e ingiustificata ) o fra bravi e cattivi ragazzi ( le cronache raccontano che in fatto di sballo e di nefandezze i Beatles non fossero certamente secondi ai più “ sporchi “ Rolling Stones ). Semmai la differenza è da ricercare fra le diverse matrici culturali da cui nascevano le canzoni degli uni e degli altri: il blues e la tradizione nera americana per gli Stones, la rielaborazione in chiave intellettuale e avanguardistica di un suono più marcatamente british per i Fab Four. Ed è curioso notare come la svolta decisiva, per entrambi i gruppi, arrivi a metà degli anni ’60, quando il cammino di entrambe le band prese un passo ben preciso verso direzioni diverse da quelle fino ad allora imboccate. I Beatles svestirono i panni, ormai stretti, di un beat brillante ma sostanzialmente innocuo, e iniziarono il loro viaggio sperimentale con l’uscita di Rubber Soul; i Rolling Stones, per contro, abbandonarono la struttura a covers dei loro ottimi, ma derivativi, primi album, e esordirono con Aftermath, Lp interamente a firma Jagger & Richards. Ciò che seguirà, non c’è bisogno che sia io a raccontarlo, sarà storia e sarà leggenda, sarà, soprattutto, la nascita di un nuovo rock, che in poco più di due anni porterà alla luce due album simbolo quali Sgt Pepper ( 1967 ) e Beggar’s Banquet ( 1968 ).
Beatles o Rollig Stones, dunque ? Personalmente, non vorrei mai essere costretto a scegliere, ma se ci fosse la classica pistola alla tempia a obbligarmi, opterei, non senza dilaceranti dubbi, per il gruppo di Liverpool. Una scelta, la mia, che, seppur difficile, non si basa esclusivamente sul gusto personale, ma su riflessioni che mi paiono essere strutturate anche su qualche dato oggettivo. Ho sempre avuto infatti l’impressione che, absit iniuria verbis, gli Stones abbiano soprattutto inventato un suono, mentre i Beatles abbiano invece creato musica ex novo. Musica che, a ben vedere, prima non esisteva. L’introduzione del loop, ad esempio, che nel rock viveva, diciamo così, solo a livello di intuizione; una maggior consapevolezza nell’utilizzo del crossover e della contaminazione ( ascoltate Norvegian Wood, anno domini 1965 ); e per citarne un’altra, il colpo di genio del suono della chitarra registrato e riprodotto al contrario. Ma ci sono anche le canzoni a determinare questa scelta. C’è Tomorrow Never Knows, un’ipotesi di tre minuti di musica ultraterrena che nessuno è mai più riuscito a comporre ( ci si sono avvicinati i Radiohead, credo, ma non ne sono sicuro ); c’è Helter Skelter che supera addirittura i confini del punk e anticipa di vent’anni il metalcore ( ascoltatela per bene e poi ditemi ); c’è il sogno a occhi aperti della psichedelica Strawberry Fields Forever, cadenzata da una ritmica tanto attuale da sembrare figlia degli anni ’00. E c’è I’m A Walrus, 4 minuti e 37 secondi che non riesci ad afferrare nemmeno dopo mille ascolti compulsivi. Queste, nella mia prosa raccogliticcia e poco esaustiva, sono le parole che raccontano i Beatles, il più grande consesso di geni confluiti in un’unica rock band ( ho un amore viscerale anche per George Harrison, uno che ha dalla sua uno stile imitato da molti ).Non potrò mai fare a meno di amare tutte e due le band. Ma, obtorto collo e senza nulla a togliere agli immensi Stones, i Fab Four sono proprio tutta un’altra Storia.
BY BLACKSWAN
mercoledì, 28/03/2012
Adesso, cari Killers, scegliete voi. A destra della pagina potre votare il sondaggio Beatles Vs Rolling Stones.
Ricevo dalla nostra freelance Cleopatra e integralmente pubblico:
Ho sempre coltivato un profondo interesse per tutto ciò che culturalmente si trova agli antipodi rispetto al mondo occidentale.La Cina,ad esempio,è uno di quei luoghi misteriosi,controversi ed affascinanti che per tradizioni,abitudini e stili di vita avrei voluto conoscere e visitare.Spesso,però,quel che si legge a proposito di questo paese soprattutto in tema di rispetto per i diritti umani lascia alquanto esterrefatti. Risale a qualche settimana fa una notizia apparsa sui quotidiani : " Cina. In Tv prima dell'esecuzione ". Esecuzione capitale,per intenderci.Si tratta di un reality trasmesso da una importante rete televisiva cinese nel quale una giornalista,ormai divenuta una celebrità,prima dell' " ultimo atto " intervista i condannati a morte.Ultima frontiera della morbosità in video? Non c'è dubbio,tant'è che ogni sabato sera,dal 2006,questo macabro appuntamento tiene incollati al video decine di milioni di telespettatori con il placet delle autorità cinesi che, invece,attribuiscono al programma una finalità educativa senza eguali.Del resto,è convinzione diffusa in Cina che la pena di morte sia un atto di giustizia oltre che un efficace deterrente.L'esistenza di questa trasmissione ha destato uno scalpore tale da indurre
qualcuno a dedicarci un approfondimento.Proprio la scorsa settimana un giornalista australiano ha mandato in onda un reportage intitolato " Dead man walking " (dall'omonimo film interpretato da Susan Sarandon e Sean Penn) descrivendo la brutalità di questo reality il cui vero leitmotiv è soprattutto la morbosità.Se l'intento del giornalista era quello di sensibilizzare l'opinione pubblica mondiale e di mettere un freno all'acquiescenza di fronte ad una programmazione così selvaggia ed incurante verso ogni minima forma di civiltà e rispetto per la dignità umana,ha centrato l'obiettivo.Il programma pare sia stato sospeso per alcuni imprecisati motivi interni alla rete televisiva. Al reality cancellato non corrisponde,purtroppo,la fine delle atrocità e degli abusi sugli esseri umani.E le vittime sacrificali sono proprio i cinesi.
Una potenza mondiale in piena espansione economica con una rapida industrializzazione ( è anche membro permanente nel Consiglio di Sicurezza alle Nazioni Unite con diritto di veto ) si macchia ancora di ignominie degne dei più feroci regimi.Vi elenco le più significative.
In tema di pena di morte,la Cina è tuttora in testa alla "black list": il 90% delle esecuzioni capitali nel mondo si consuma nell'Impero del Dragone anche se non si dispone di dati ufficiali in materia.Le cifre oscillano tra le 8.000 e 10.000 persone all'anno.Tra i circa 65 reati che prevedono la pena capitale oltre all'omicidio si annoverano anche il traffico di droga,i reati economici,politici,di opinione e persino l'uccisione di animali sacri.L'organizzazione della condanna a morte avviene attraverso manifestazioni di massa durante le quali,dopo la lettura della sentenza,la pena capitale viene eseguita : all'atrocità si aggiunge l'abominio consistente nell'esibire i condannati in pubblico con le mani legate dietro la schiena,la testa reclinata e un cartello legato al collo recante il nome e il reato commesso (ci tengo a sottolineare che la pallottola usata per l'esecuzione è una spesa a carico dei
familiari del reo). Alla piaga della pena di morte è strettamente correlato il fenomeno del traffico di organi : quasi il 100% degli organi trapiantati in Cina provengono dai corpi dei condannati.Nessun consenso scritto all'espianto è richiesto al prigioniero ( tantomeno alla famiglia ) anche se ufficialmente è previsto dalla legge.La realtà,infatti,è ben diversa in quanto i condannati sono permanentemente incatenati,non possono contattare i propri legali e la loro posta è soggetta a censura.Sul tema dell'espianto,però,sembra esserci una schiarita in quanto sarebbe previsto nei prossimi cinque anni il divieto di donazione degli organi dei condannati a morte nell'ottica di ridurre il numero delle pene capitali e di controllare il crescente fenomeno delle infezioni contratte a causa degli
organi,spesso infettati per via delle scarse condizioni igieniche in cui versanoi prigionieri durante la detenzione.In materia religiosa,la Cina non brilla per flessibilità.Tutte le religioni sono illegali eccetto il comunismo,unico credo.I cristiani,i buddhisti,gli islamici e ogni altro appartenente ad una fede religiosa sono perseguitati con efferatezza e spietato accanimento.Come? Attraverso il Laogai ( abbreviazione di Laodong Gaizao Dui ) che vuol dire riforma per mezzo del lavoro,una sorta di campo di concentramento che ha lo scopo di perpetuare la macchina dell'intimidazione e del terrore con il lavaggio del cervello per tutti gli oppositori politici fornendo così una inesauribile forza lavoro a costo zero.Il programma consta di 16 ore di lavoro giornaliere nei campi o in miniera,indottrinamento e giuramento di fedeltà al partito e in caso di trasgressione sono previste torture fisiche e psicologiche.
La sequenza di brutalità prosegue con la famigerata "politica del figlio unico". In Cina per sposarsi e mettere al mondo un figlio è obbligatorio ricevere una licenza speciale emessa dal governo : ancora oggi non è consentito ai genitori di avere il numero desiderato di figli e la donna incinta che trasgredisce può essere sottoposta ad aborto forzato o, in certi casi, anche a sterilizzazione. Solo i ricchi e i burocrati del partito,dietro pagamento di multe esorbitanti, possono permettersi di avere un secondo figlio oppure le coppie contadine che hanno avuto una femmina come primogenito nella speranza della nascita di un maschio. La politica del figlio unico ha causato gravissimi danni collaterali come l'eccidio di femmine,il traffico di donne e la riduzione in schivitù anche sessuale e un numero crescente di suicidi.Il controllo delle nascite,così come è attuato,è disumano e crudele: non voglio pensare che la soluzione al problema della mancanza di risorse possa consistere nella sterilizzazione di massa o nella pratica di aborto forzato.Perchè piuttosto non si predilige una politica più attenta al miglioramento nella distribuzione degli approvvigionamenti? La risposta è semplice dal momento che prevale la logica di uno spreco e di una sovrapproduzione dettati da un crescente e sfrenato consumismo.Tutto questo dimostra quanto sia forte il paradosso in questo paese : pur vivendo una fase di modernizzazione,il contrasto tra un capitalismo selvaggio e uno stato onnipresente, la coesistenza di miseria e crescita economica,di individualismo forsennato e di cieca obbedienza alle regole collettive creano al sistema un impasse farraginoso.La democrazia è ancora lontana,purtroppo,e fino a quando permarrà un equilibrio precario tra modernizzazione e tradizionalismo la Cina resterà un gigante dai piedi di argilla.
La canzone era iniziata da pochi minuti, quando il cliente al banco sbuffò. Cosa c'è, gli chiesi annoiata mentre asciugavo i bicchieri, niente niente, è che devo andare a quel cavolo di corso di ballo, accidenti a me quando le ho detto di sì, si lamentò lui fissando il bitter senza limone nel suo bicchiere. Bevi lentamente, consigliai io, e dille che volevi aspettare che finisse la canzone. Il cliente riuscì a sforzarsi in un sorriso tiratissimo, e sicuramente pensò che avevo fatto altre volte battute migliori. Non sto scherzando, dissi io, finisci di bere ti prepari psicologicamente e fra un quarto d'ora vai. Il sorriso del cliente vacillò verso il nulla, fissava il bicchiere e scuoteva la testa, no devo andare ho finito, vedi? E scolò in un sorso il suo bitter, coraggiosissimo. Non puoi non ascoltare tutta la canzone, gli ricordai severa. Sì va bene la ascolto, mi disse come a una bambina che vuole a tutti i costi ripetere la filastrocca che ha imparato all'asilo, però dopo la canzone vado, sì sì poi vai, lo rassicurai io con un sorrisino diabolico, ah, a proposito: la canzone dura quindici minuti.. Cosa..?, ed è appena iniziata, mettiti comodo e non pensarci.
Avevo quella compilation da un po', ma solo quel giorno del 2000, mentre mi immedesimavo in un cliente accasciato, ho ascoltato tutti i quindici minuti sentendoli, secondo dopo secondo fino alla fine, solo allora mi hanno incuriosita: già al terzo minuto la canzone è pronta per finire eppure prosegue, cambia, riprende da capo, si ripete e si rinnova, è nata con lei la mia passione per un certo tipo di canzoni; ed ora mi perdonerete se userò una terminologia che forse non a tutti è accessibile, ma l'argomento richiede precisione anche nell'indicare la tipologia dei brani, in modo da evitare inutili confusioni, parlo infatti delle canzoni lunghe.
Successivamente ho fatto la conoscenza di diversi album, composti da poche coinvolgenti canzoni lunghe, oppure anche da canzoni brevi ma collegate fra loro come a formare una storia in musica, al punto che ascoltare le canzoni in ordine casuale era deludente, perché sembravano finire a metà; e in effetti le canzoni lunghe non sono altro che un insieme di possibili canzoni brevi, amalgamate fra loro e incentrate su un unico nucleo melodico che viene ampliato e arricchito, felicemente o con accanimento a seconda dei gusti e delle capacità. Ascoltavo a ripetizione Scenes from a memory dei Dream Theater e Nursery Crime dei Genesis e mi immedesimavo in storie musicali senza precedenti; infatti non tutti gli appassionati di musica sanno che avvenne nel 1997 e non nel 2000 la mia cosiddetta nascita musicale, e precisamente con Pleasant Dreams dei Ramones, album che di lungo ha solo i titoli e nemmeno tutti, e ci impiego più io a pronunciarli singolarmente che loro a suonarmeli tutti assieme.
I Ramones non potevano non conquistarmi con la loro energia, e furono senz'altro ottimi compagni in quei primi anni, soprattutto se sparati al volume massimo, e non in sottofondo come pretendeva mia madre che i vicini si lamentano. Ma l'unica cosa che ottenni dal mio vicino fu di sentirmi una merda tecnologica quando mi presentò, senza uscire dalla sua cameretta dall'altra parte della strada, e semplicemente girando una manopola, vari brani dei Nirvana, mentre le mie casse, tanto temute da mia madre, avevano al confronto la potenza di uno sputacchio ubriaco. Va da sé che la mia musica è stata da sempre solo mia. Per questo motivo, credo, mi era più congeniale ascoltare brani che, con la forza di uno schiaffo o la delicatezza di una carezza e una durata spesso corrispondente, potevano soddisfare velocemente esigenze musicali estemporanee ma ostacolate sul nascere dalla famiglia, e sempre accompagnandoli se non precedendoli con la mia promessa (fasulla) che la prossima ti piacerà è diversa, aspetta, sta finendo.
A me le canzoni brevi da cantare a squarciagola erano sempre piaciute, cantare era un modo per sfogarmi della quotidianità soffocante di CasaMia ma, come ogni cura, corporale o mentale non importa, anche cantare certe canzoni può portare all'assuefazione, e questa rende necessari accorgimenti aggiuntivi, ad esempio ballare durante l'ascolto - e sfido chiunque a rimanere fermo mentre ascolta i Ramones non prima di aver cosparso la soglia della vostra cameretta di teste d'aglio per tenere lontana la famiglia. La canzone breve per me è sempre stata il momento della ribellione e dell'affermazione, alla canzone breve mi appellavo anche al lavoro, quando al bar il Capo o un Cliente qualsiasi opponevano un mal di testa alla serie infinita e non del tutto intonata di te-ke-ke-ke-tu-ma-bebi-oue sculettanti dietro il bancone, finché non ho capitolato optando per la compilation One Shot Disco volume 1, composta da brani senza dubbio più lunghi, più orecchiabili, e sicuramente più conosciuti agli avventori, nonostante non fossero mai entrati in una discoteca completa di palla al soffitto. Benché apprezzata da tutti gli altri, la compilation cambiò la mia vita, ovvero il mio modo di ascoltare musica e di vivere la musica, grazie alla traccia 4, nonché ultima, del lato b dell'mc1: quei quindici minuti magici.
Se fino a quel momento la musica era stata una sorta di condimento dal sapore temporaneo nella mia vita, un intrattenimento e un sottofondo, o un'arma dal taglio netto e preciso resa insospettabile dalla mia voce monotona e delle mie mosse improvvisate, o un filo musicale sul quale camminavo in precario equilibrio, dopo d'allora gradualmente, scoperta dopo scoperta, quel filo si è sollevato, apparendo verticale al mio fianco e prendendo sempre più corpo di accompagnatore fedele della mia esistenza su questa terra. Se la mia famiglia non contattò mai un esorcista fu solo perché, grazie al mio lavoro e alla mia macchina, passavo sempre più tempo fuori casa. Io che avevo sempre ascoltato musica all'impiedi, iniziai lentamente ad ascoltarla anche da seduta, a lasciarmi avvolgere da lei, ad evadere grazie a lei, non era più una distrazione o una difesa, non era più un inno alla facciata allegra e sfacciata, bensì un ascolto silenzioso, più raccolto eppure molto più partecipe. Mentre crescevo il mio corpo e la mia voce si placarono, e prese il sopravvento la mente, mai più semplice spettatrice incompresa della mia vita, ma protagonista assoluta, perché finalmente la musica era riuscita ad entrarmi dentro, sottoforma di canzoni lunghe che avevano tutto il tempo di aggirare le mie difese per penetrare indisturbate, o addirittura ben accolte perché riconosciute come indispensabili e vitali, perché mi fornivano la chiave necessaria all'evasione e alla conoscenza di me.
Mi piacciono le canzoni lunghe e molto musicali, così mi sono espressa l'unica volta che ne ho parlato. Le parole non mi hanno mai incuriosita, ho sempre stonato su canzoni in inglese di cui non capivo una mazza spuntata, e ancora oggi è così. Quelle poche volte che ho avuto a che fare con traduzioni, sono rimasta delusa come quando vedo un film del quale ho letto il libro: l'ambientazione è totalmente diversa, i personaggi non sono quelli giusti, mancano scene che io avevo immaginato importanti. Ogni canzone mi racconta una storia, lo fa attraverso la sola musica, e quando scopro che le parole dicono altro mi crolla un mito; gli strumenti sono personaggi che entrano in scena o la lasciano al momento opportuno, da soli o in coppia o in cricca; la voce è uno strumento in più, un timbro senza il quale mancherebbe un pezzo di quella storia; il ritmo della musica dà il ritmo della narrazione e allo stesso tempo degli avvenimenti; ed ognuno è libero di scegliere lo strumento preferito in una canzone, vale a dire l'eroe in cui immedesimarsi. Ogni canzone mi racconta una storia, e se ascoltata in momenti, periodi o epoche differenti può suscitare in me sensazioni fra loro addirittura contrastanti, proprio per questo motivo ci sono canzoni che oggi non mi dicono nulla, ci sono canzoni che solo oggi finalmente mi parlano, e ci sono canzoni che mi raccontano per l'ennesima volta la stessa storia ma solo oggi mi sembra di poterla capire davvero.
Anche grazie a quel brutto vizio di monopolizzare la musica al lavoro, per controbilanciare i vizi del fumo e della telefonata improvvisa dei miei colleghi, quindi con la motivazione ufficiosa che se sono l'unica a lavorare, sono anche l'unica in grado di capire quale sia la musica giusta per lavorare, da quel lontano 1997 io cammino fra note e strumenti, voci e silenzi messi in musica, e non mi sono mai chiesta perché. Ma ora che ci penso, non posso confermare di scegliere ora fra canzoni lunghe e canzoni brevi secondo istintività emotive nettamente separate, né riesco a scegliere una canzone piuttosto che l'altra per fare di lei la mia tipologia preferita, forse semplicemente alcune mi sembrano più rare delle altre, perciò quando le incontro mi lasciano estasiata. E più cammino, più mi sembra che le locande fidate in cui sono solita fermarmi si spostino con me, come un seguito musicale sempre pronto ad accogliermi conforme alle mie sensazioni e allo stesso tempo stimolante nuove suggestioni. A La Canzone Lunga fanno con calma, son dei chiacchieroni, mi coinvolgono nella preparazione dei pasti, mi offrono un bicchierino per prepararmi lo stomaco e intanto mi raccontano qualche novella, a volte anche girandoci attorno, quasi con ritrosia, mi servono il pasto lentamente, proponendo via via dolci salsine in aggiunta o spezie piccanti, non disdegnando talvolta di concedermi un assaggio della ricetta originale, semplice ed essenziale. A La Canzone Breve mi servono in fretta, poche chiacchiere ma non meno piacevoli, è la compagnia che conta e a certe note nemmeno io so dire di no, il pasto è ottimo benché preparato quasi in men che non si dica, e se ci sono gli strumenti adatti non mancano neanche qui virtuosismi sostanziali, né lesinano su caffè e ammazzacaffè, e mai nessuno mi ha impedito di ottenere lo stesso piatto all'infinito o almeno fino a quando dal mondo esterno non sento urlare e abbaassa! almeno!
Come molti tossici, anche io ho iniziato a drogarmi per caso, te la offrono, sei di natura curiosa, cosa fai, non la prendi? Inizialmente mi arrivava sempre da qualcun altro, poi ho incominciato a procurarmela io stessa ogni volta che ne sentivo il bisogno. Da un po’ di tempo a questa parte però ho un nuovo pusher, uno che ne consuma avidamente perciò sa bene cosa significa averne bisogno, e anche quali sono le rarità, le leggende e gli aneddoti; te la cavi con poche storie delle tue, mi ha detto sin dalla prima volta, ma io sapevo che prima o poi sarebbe venuto a cercarmi. Ebbene, quel momento è arrivato: in una notte tempestosa ho sentito bussare, e quando ho aperto lui era lì pronto a riscuotere, mi ha allungato con nonchalance una dose di BCC live riffato che sapeva mi avrebbe tolto il fiato, e mi ha detto sai, ho quest'idea di post congiunti, e con te ne vorrei fare uno. In breve: la musica dà dipendenza e Blackswan, modello di passione, alla lunga vorrà lo scritto che gli spetta. La canzone che canticchio da allora è: È un vero onore per me. Ah, dite che non esiste? Mah, cosa ne sapete voi di canzoni lunghe.
E' da quando conosco Elle e visito il suo bel blog, che sono affascinato dalla sua insolita passione per le canzoni lunghe. Una passione, lo ammetto, che mi ha sempre lasciato sorpreso,dal momento che l’approcio alla musica nella prospettiva del minutaggio è sempre stato argomento di storia e sociologia e non la ragion d’essere di un particolare godimento nell’ascolto. Insomma, la questione mi ha intrigato così tanto da farmi venir voglia di convogliare in un post i miei ragionamenti in proposito. Tempo fa, quindi, avevo cominciato a sviluppare un'idea e a buttar giù qualche riga, ma mi ero fermato perchè non aveva senso farlo da solo. Ho pensato invece che fosse giusto coinvolgere chi mi aveva ispirato quelle riflessioni e ho proposto a Elle di scrivere questo articolo a quattro mani. Con il duplice vantaggio per il lettore di accostarsi alla materia tramite lo sguardo di due diverse sensibilità e di godere anche su questo blog di una prosa, quell di Elle non la mia, davvero notevole. Non è mia intenzione martoriarvi gli zebedei raccontandovi quanto la durata della canzone rock sia cambiata nel corso degli anni e grazie all'avvento della tecnologia.Tuttavia qualche accenno si rende necessario. Un tempo i supporti fonografici si limitavano al 78 giri e poi, a partire dagli anni '50, al 45 giri, che conteneva due canzoni, una per lato, dellla durata massima di 3 o 4 minuti. Il 33 giri, la musicassetta e quindi il cd e da ultimo la musica digitale, hanno ovviamente dilatato le possibilità di espressione artistica, consentendo di allungare il minutaggio delle canzoni e complessivamente quello di un’opera musicale ( i 74 minuti di durata di un cd ha aperto un nuovo scenario musicale composto di filler o riempitivi, bonus tracks e ghost tracks ). Ma la durata di un brano, a prescindere dall'ispirazione del singolo artista, non è stata determinata solamente dalla qualità del supporto fonografico, bensì ha acquisito diverse caratteristiche a seconda delle epoche storiche e dei diversi movimenti musicali. Si pensi, ad esempio, al prog-rock, movimento in voga a partire dalla fine degli anni '60 che, ispirandosi a una visione colta e di ispirazione classica della musica popolare, produsse un allungamento dei brani, che venivano ad assumere la forma della suite ( mi vien subito in mente Supper’s Ready dei Genesis ), e la possibilità di partorire veri e propri concept album ( di nuovo i Genesis con The Lamb Lies Down On Broadway o gli Who con Tommy ).Oppure, si pensi ancora a certi generi musicali, come il southern rock, in cui le canzoni avevano spesso quel taglio da presa diretta che procedeva, sorprattutto dal vivo, a colpi di infuocate e lunghissime jam session ( Free Bird dei Lynyrd Skynyrd o Whipping Post degli Allman Brothers Band che dal vivo si esprimeva in 25 tiratissimi minuti ). Erano anni, quelli, in cui, esauritasi in parte la febbricitante ricerca iniziata a partire dalla metà degli anni '60, rockers e rock band lavoravano maggiormente allo sviluppo egocentrico ed estetico di un rock in parte già esausto, privo di forza propulsiva, spesso fine a se stesso. L'ego, svelato a colpi di creatività nel corso del decennio precedente, ora veniva a pavoneggiarsi in tutto il suo ( spesso inutilmente ) prolisso e cangiante cromatismo. E guarda caso, sul finire degli anni '70, esplode come rinascita, furente, impetuosa, devastante, il movimento punk, che traccia una riga sul passato appena conclusosi, accorcia il verbo del rock e parla una lingua, velocissima e ditruttiva, concentrata in due, tre minuti massimo ( insomma, quasi un ritorno alle origini ).
Esiste, dunque, una durata di canzone che possa definirsi “giusta” o “ adeguata “ ? Ovviamente no. C’è semmai il gusto e la sensibilità dell’ascoltatore che fa propendere per un genere piuttosto che per un altro o che induce a preferire brani lunghi e articolati a sparate incandescenti brevi come l’attimo di un respiro. Ma soprattutto esiste la creatività di un artista che non può essere vincolata al minutaggio e deve potersi esprimere senza limitazione alcuna.
Da un lato dell’emiciclo del rock vive il minuto e mezzo di Judy Is A Punk dei Ramones, dall’altro i ventiquattro minuti di Ebene, primo movimento di Irrlicht , capolavoro del 1972 firmato Klaus Shultze. Entrambe decisive e imprescindibili per l’arte che rappresentano, in barba a ogni standard di tempistica imposto dalle case discografiche. E qui sta l’arcano. Perchè l’unica lunghezza assolutamente inadeguata a una canzone è quella prevista dal contratto, quella che serve solo a vendere e che è costruita a tavolino, per il passaggio in radio o su Mtv. Quella, insomma, che uccide la fantasia e la libertà d’espressione in nome del profitto.
In cantina ho così tanti fumetti, che se li metto tutti in fila e ci cammino sopra, posso arrivare fino al mio ufficio senza sporcarmi le suole delle scarpe.C’è stato un periodo della mia vita in cui leggevo solo Tex, Zagor, Il Comandante Mark, Nathan Never, Ken Parker, Nick Raider, Alan Ford e Dylan Dog. E Topolino, soprattutto. Il Topolino era la lettura della domenica mattina. Mi svegliavo, e con il nuovo albo sotto l’ascella, sciabattavo fino in cucina, mutande e maglietta, a fare colazione. Tazzone di tè con tanto limone, sacchettone delle Macine posizionato a lunghezza braccio e via di lettura. Una quindicina di biscotti dopo, gli occhi sempre incollati al fumetto, riponevo la tazza nel lavello ( che se no da mia madre arrivavano randellate potentissime fra capo e collo ), esprimevo con un portentoso rutto tutto il mio apprezzamento per il fiero pasto ( e qui il coppino arrivava implacabile ) e mi dirigevo verso un’altra tazza, seduto sulla quale davo vita a leggendarie performance che duravano fino all’ultima pagina del fumetto. L’eroe di quelle pagine era ovviamente Paperino, la cui esuberanza a tutto tondo lo rendeva di gran lunga più amabile del troppo compassato, e anche un filo saccente, Topolino. Insomma, Paperino era un vero e proprio catalizzatore di simpatia : sfigato all’inverosimile, angariato da uno zio meschino e avarissimo e sfottuto a nastro da quel bastardo di Gastone, che cercava peraltro, con fastidiosa sicumera, di fregargli la fidanzata. Era davvero impossibile quindi non immedesimarsi in questo personaggio che, nonostante le fattezze di papero, somigliava incredibilmente al più comune degli esseri umani. E poi, a ben vedere, Paperino dava la paga a Topolino anche nel rapporto con le reciproche morose. Perchè diciamocelo : Paperina e Minnie sono sempre state due cacacazzo di prima grandezza, petulanti, lagnose e prevaricatrici. Ma mentre Topolino, per il quieto vivere, abbozzava sempre con la ragionevolezza del buon padre di famiglia, Paperino almeno, prima di capitolare ( perché alla fine sempre lì si va, a capitolare ), la responsabilità di qualche sano scazzo ogni tanto se la prendeva. Insomma, per tanti anni della mia vita, Paperino è stato un eroe: l’ho amato incondizionatamente e ho accettato aprioristicamente anche i lati meno gradevoli del suo personaggio. Oggi, che sono adulto, che ho vissuto e ho esperienza, che so cosa significhi soffrire e faticare per essere leale e coerente con le proprie scelte, vedo cose che il bambino che ero non riusciva nemmeno a intuire, e che alla fine mi hanno fatto cambiare idea. Perché se ciriflettete senza farvi suggestionare dalla straripante simpatia di Donald Duck, vi renderete conto che Paperino piace così tanto perché rappresenta in modo perfetto l’italiano medio : esuberante, compagnone, passionale, volubile, istintivamente generoso, casinista e, in qualche modo, ingenuamente intraprendente. Ma anche : codardo, ignorante fino alla soglia dell’analfabetismo, pronto a fottere il prossimose i conti non tornano e a violare la legge se la necessità impone. Il classico, mi scuseranno gli amici napoletani se non scrivo correttamente, che chiagne e fotte: si dispera, si arrabatta, piange miseria, ma appena ne ha la possibilità, non si fa scrupoli a picchiartelo nel culo. Topolino, invece, anche se pedante e smorto come un impiegato del catasto, si propone quale alfiere di un’etica irrinunciabile, è severo ma giusto, ha senso dello Stato, è morigerato e, soprattutto, non transige in tema di legalità. Topolino non ha appeal, me ne rendo conto, ma, visto con gli occhi di un adulto, è molto meno stronzo di quanto mi apparisse anni fa. Al punto che gli perdono anche il nozionismo da professore delle medie e quella congenita incapacità di stare un filo sopra le righe. Dalla sua, però, ha una fiera dignità, sobrietà di modi e gentilezza d’animo. Di questi tempi, anche nel mondo del fumetto, non è poco.