Due cose mi
stanno sommamente sul cazzo : in primis, ciò che venne definito “edonismo
reaganiano” e che, durante gli anni ’80, massacrò di superficialità ogni ambito
socio culturale, ( dalla moda alla cucina, dalla letteratura al cinema, dalla
televisione alla musica ), e in secundis,il sentimentalismo ( cuorefarimaconamore-oddiosenzatenonpossovivere!), cioè la versione da casalinga disperata degli struggimenti sturm und drang
del romanticismo ( che, peraltro, con l’amore avevano poco o nulla da spartirre
). In quegli anni, per certi versi terrificanti (e forse proprio per questo
indimenticabili ), spesso le due cose finivano per fondersi, e in ambito
musicale venivano partorite delle ciofeche tanto trash e melense, che per
rimettere a posto l’apparato uditivo dovevi fare un ascolto intensivo e
prolungato di Fistfull Of Metal degli
Antrax. In particolare, nacque un sottogenere della new wave che prese il nome
di New Romantic, movimento che vedeva militare fra le proprie fila gente del
calibro ( si fa per dire ) dei Visage ( ricordate Fade To Grey ? ), dei Culture
Club ( trattengo a stento i conati ), di Limahl ( mi tocco i coglioni ), e
soprattutto loro, gli Spandau Ballet e i Duran Duran. Come ogni rocker che si
rispetti, evitavo accuratamente questo genere musicale con la stessa pertinacia
con cui un vampiro sta lontano da uno spicchio d’aglio o da un puntale d’argento.Tuttavia,
i passaggi radiofonici e televisivi delle canzoni sia dell’uno che dell’altro
gruppo erano talmente invasivi che, volente o nolente, finivi inevitabilmente per
farti una “cultura” in materia. Nel 1982, nonostante parecchia ottima musica in
circolazione ( ricordo i Birthday Party è il loro Junkyard, Springsteen con
Nebraska, gli Iron Maiden con The Number Of The Beast, i Cure di Pornography ),
appena uscivi di casa, un mondo di ragazzine urlanti e di poppettari dall’improbabile
ciuffo era lì a ricordarti, se mai ce ne fosse stato bisogno, che verso i primi
posti delle classifiche di tutto il mondo veleggiavano soprattutto due dischi :
Diamond degli Spandau e Rio dei Duran Duran, ossia il dandismo d’accatto di
Tony Hadley e il bel faccino da cicisbeo di Simon Le Bon. Inutile soggiungere
che ai tempi consideravo questa musica come Il sottoprodotto di una
sottocultura per cui l’essenza viveva esclusivamente nell’apparire e non nei
contenuti. Oggi, che sono un po’ più grandicello e ho un atteggiamento molto
meno snob nei confronti della musica, mi approcio a quei due dischi con lo sguardo
quasi indulgente.
Merito, soprattutto, di quella nostalgia canaglia che mi
tiene legato con doppio giro di corda agli anni in cui tutto, o quasi, era
leggerezza e speranza. In particolare, ma sono pronto a dissociarmi da me
stesso e da questa affermazione, Rio mi sembra un buon disco. E’ vero : Simon
Le Bon non sapeva cantare, gli altri suonavano col culo, se non ci fosse stata
MTV col cazzo che i Duran avrebbero avuto successo e aggiungiamo anche che la
copertina del disco, che ben rappresentava la disperata e ossessiva
fascinazione per l’esotico che imperava in quegli anni, è a dir poco indecente.
Però le canzoni c’erano e tutto sommato erano buone. Canzoni pop e indolore, ma
tuttavia in grado di reggere il logorio del tempo e trasformarsi col passare
dei decenni ( quest’anno sono tre ) in evergreen : l’ariosa title track, la
rockeggiante Hungry Like A Wolf, la sensualissima The Chauffeur e soprattutto
Save A Prayer, penultima canzone del lato B e probabilmente la migliore in
assoluto della produzione del gruppo di Birmingham. Se da un punto di vista
formale, Save A Prayer è un classico del suono patinato e suadente dei Duran,
il testo al contrario è oscuro, sibillino, ambiguo. Parla d’amore, ma non si
capisce se si tratti di un’estemporanea avventura ( “Alcuni la chiamerebbero storia di una
notte Ma noi possiamo chiamarlo paradiso “ ) o dell’inizio di una lunga
relazione ( “Non chiedermi perché manterrò la mia promessa, Io Scioglierò il
ghiaccio “ ), anche se la sensazione dominante è quella di ascoltare il
racconto di un rapporto comunque destinato a finire, soprattutto per colpa di
lei ( “Ma la paura è nella tua anima “
) . Di certo, l’interplay fra le
note e le liriche è efficacissimo e si sviluppa leggero nonostante l’abbondanza
di Synth, mentre si ha la sensazione che il gruppo più marcatamente anni ’80 della
storia, pur non tradendo le proprie prerogative pop, per una volta riesca a
scavalcare l’angusto steccato temporale e trovare la giusta misura per universalizzare
il linguaggio.Non è solo il bel crescendo melodico a intrigare ( l’intreccio
delle tastiere e i controcanti sono musicalmente ineccepibili ), ma è
soprattutto il pathos, trattenuto e sottotraccia, a fare la differenza,
istillando nell’ascoltatore un rilassato senso di malinconia e un languore
nostalgico che una piccola stretta del cuore collega a un ricordo lontano.
PS : suggerirei di ascoltare
la canzone senza giardare il video che l’accompagna : è talmente brutto che
renderebbe vano il benevolo contenuto del mio post.
Blackswan, domenica 30/09/2012