Cari amici di RADIOPANESALAME, stasera a partire dalle ore 22.00 circa, sul sito Spreaker della radio, andrà in onda Viaggio Al termine Della Notte, speciale da brivido di Attenti A Quei Blu dedicato alla festa di Halloween. Che per noi, in realtà, è solo un pretesto, visto che di Halloween non ci interessa un'emerita ceppa, ma abbiamo una gran voglia di passare un pò di bella musica. Stasera, le canzoni saranno a tema e quindi preparatevi a un pò di sano Gothic Rock o, come si dice in Italia, Dark. Insieme a Cure, Joy Division, Bauhaus e molti altri, ospiti dell'episodio saranno anche Dj Ale e DJ Fra, meglio noti al secolo come Ale & Franz.
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Ogni mattina Phil
Elliot si sveglia con le narici piene di sangue e le giunture bloccate
dall’artrite. Phil ha le «migliori mani di tutta la Nfl», il corpo devastato
dai placcaggi e il problema di riprendersi il posto da titolare nell’attacco
dei North Dallas Bulls. Pur di giocare è disposto a convivere con «paura e
dolore», a imbottirsi di analgesici e fabbricarsi protezioni artigianali, più
sottili della norma, in modo da recuperare la velocità che ha perso per via
degli infortuni. Dopotutto il football è la sua vita. Ma il «vero divertimento»
va in scena nell’attesa tra una partita e l’altra, con le groupie e i parassiti
che circondano il club, le rivalità tra i giocatori, il braccio di ferro con i
dirigenti, i postumi di un matrimonio fallito, le dosi di speed e mescalina per
tirare avanti: un vortice di autodistruzione da cui Phil sembra poter fuggire
solo grazie a Charlotte, una vedova di guerra incontrata per caso in uno dei
deliranti festini della squadra.Attraversato dalle canzoni di Bob Dylan e dei
Rolling Stones e dal soffio libertario della controcultura, I mastini di Dallas
racconta l’altra faccia dello sport, mettendo a nudo le logiche del business
milionario dietro le carriere degli atleti. Nel mondo del football Gent
proietta con effetti grotteschi – come fa DeLillo in End Zone – le paranoie e
le distorsioni di quel «complesso tecnomilitare» che era l’America ai tempi del
Vietnam.
C’è
un termine che ricorre con una continuità inquietante nelle pagine di questo
romanzo : paura. Paura del dolore, paura di perdere tutto, paura di non essere
all’altezzza, paura che la notorietà e il successo svaniscano, paura dei
tifosi, paura di sè stessi, del proprio cinismo e indifferenza, paura dei compagni,
dell’allenatore, paura di essere solo un ingranaggio senza identità in quella
macchina da guerra letale che è una squadra di football. Da partita a partita,
otto giorni in cui Phil Elliot, flanker dei Dallas Cowboys, racconta al lettore,
in prima persona e senza fare sconti, le proprie paure di giocatore ed essere
umano. Un terrore così radicato e invasivo che per combatterlo è lecito tutto :
l’abuso di droghe e di medicinali, sbornie colossali, sesso d’accatto e
tradimenti di ogni sorta. Il viaggio di Gent attraverso il mondo del football è
tanto allucinato da lasciare il lettore senza fiato. Perché anche se siamo
abituati a ipotizzare eccessi e bella vita legati agli ambiti sportivi che ci
sono noti, I Mastini Di Dallas apre il sipario su una passata realtà (il
romanzo si svolge alla fine degli anni ‘60) che nemmeno il più cinico di noi
riuscirebbe a immaginare. I giocatori rappresentati dalla prosa cruda ed
efficace di Gent sono gladiatori senz’anima che si muovono in un contesto
deprivato da ogni forma d’etica che non abbia connotati paramilitari (giocare a
football e combattere in Vietnam sono i due rovesci della stessa medaglia). Guerrieri
che confondono la vita reale con il campo di battaglia, devastatori
lanzichenecchi, stupratori seriali, tossici all’ultimo stadio, bestie da soma
sfruttate da allenatori e dirigenti che non conoscono umanità e vivono di
statistiche e filmati: questi sono i protagonisti di una settimana in cui lo
sport è solo una punizione da scontare e l’abuso, di ogni tipo, è l’unica vera
salvezza. Eppure, in un contesto tanto sordido, Gent riesce comunque a ricreare,
attraverso le proprie malinconiche riflessioni, l’epica del football americano.
Da un lato la coralità degli eccessi e del cinismo, dall’altro il soliloquio di
un atleta atipico, inserito negli ingranaggi distorti del sistema, eppure
consapevole della realtà e del proprio destino, capace ancora di uno scarto
critico, di compredere la sottile linea di confine fra bene e male. In un mondo
ipocrita, che in nome di Dio e del dio denaro, chiude gli occhi e accetta le
peggiori turpitudini, Elliot ha ancora la forza per imboccare la via della
salvezza. Ed è proprio questo suo percorso di crescita a condannarlo. A nulla
valgono le sue indubbie doti di giocatore a mantenerlo all’interno del sistema,
né pesano gli eccessi folli, peraltro condivisi coi propri compagni, a
decretarne l’espulsione. Elliot viene messo fuori gioco, in un finale crudele e
inaspettato, dalla sua incapacità a irregimentarsi, dalla sua propensione a
scegliere l’individualismo critico rispetto alla stolida abnegazione verso
regole che trasformano la passione sportiva in logica del business. In
definitiva, per Gent lo sport diventa una sorta di metafora necessaria a
rappresentare un periodo controverso della storia americana e lo scontro fra
due culture agli antipodi: quella conservatrice, reazionaria e militarista connotata
da un Texas retrogrado e violento, e quella nascente, hippie e libertaria, che
risuona nelle canzoni di Dylan e nella testa di Elliot. Crudo, grottesco e
sempre al limite, il romanzo di Gent è imprescindibile non solo per chi ama lo
sport, ma anche per tutti coloro che vogliono gettare uno sguardo, cinico ma
decisivo, su un’epoca di grandi cambiamenti che condurrà l’America e il mondo
verso una nuova direzione.
Il
libro di Gent fu pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1973. Solo
adesso, a quarant’anni di distanza, viene edito anche in Italia.
Nel
1979, ne venne fatto un film per la regia di di Ted
Kotchef, con Nick Nolte nei panni di Phil Elliot.
Non sono pochi quattro album in studio, eppure gli
Alter Bridge sono ancora alla ricerca di una propria definitiva identità. Il
fatto è che la band vive da sempre di contraddizioni, dovute probabilmente alla
consanguineità quasi totale con i Creed
(di cui Mark Tremonti, Brian Marshall e Scott Philips facevano/fanno parte) e
con quel post grunge, sottogenere radio friendly del sound di Seattle,
buono per le vendite ma dai contenuti risicati assai. Mainstream, ma non
abbastanza da fare il grande botto commerciale (a differenza dei citati
Creed), tecnicamente eccelsi, ma non così arditi da mettersi in gioco
fuori dai consueti stilemi, gli Alter Bridge continuano a proporre un heavy
metal solido ma al contempo decisamente melodico. Il che non è un difetto, per
carità, solo che l’ascoltatore è costretto a muoversi sulla linea di confine,
indeciso se poggiare il piede da una parte o dall’altra della frontiera. In
Fortress, tutto risulta ben suonato, ben confezionato, ben prodotto. Eppure,
anche dopo ripetuti ascolti, resta quel senso di confusione, ispirato così bene
dalla copertina dell'album : il titolo Fortress, ovvero fortezza,
contrapposto alla foto di un rudere su cui incombe una tempesta. Potenza e
fragilità, la promessa di un suono roccioso e nel contempo l’immagine di una
costruzione che può sgretolarsi da un momento all’altro. Cosa sono dunque gli
Alter Bridge ? Se si dovessero giudicare queste dodici canzone dalla perizia
tecnica con cui vengono eseguite, la standing ovation sarebbe d'obbligo.
D'altra parte, Mark Tremonti è uno tra i migliori chitarristi del circuito
metal (e lo è, a mio avviso, soprattutto per gusto e misura) e Myles Kennedy
non ha certo bisogno di grandi presentazioni, basta andare ad ascoltarlo su
uno dei dischi di Slash per rendersi conto di quali eclettiche capacità
vocali sia dotato. Tuttavia, l'impressione è che queste canzoni manchino di
cuore, siano frutto di un accurato lavoro a tavolino che miscela con sapienza
post grunge, heavy classico e una buona dose di prog con il consueto appeal da
FM, senza però quel dispendio di sudore da cui nascono le emozioni. Insomma,
sembra davvero esagerato tanto consumo di decibel e una potenza di suono così rumorosa,
per un disco che si limita a minacciare senza mai passare alle vie di fatto. Un
pò come prendere a mazzate qualcuno con una di quelle clave di gomma che si
usano per i travestimenti di carnevale. Così, non stupisce assolutamente
trovare il meglio di questo album nei brani in cui i tempi rallentano,
lasciando il passo alla ballata o a composizioni più strutturate quali Lover, All
Ends Well e la title track (la migliore del lotto anche per il grande lavoro
alla chitarra di Tremonti), in cui Kennedy dispiega tutto il proprio
armamentario da vocalist sopraffino. In definitiva, Fortress è un lavoro che
non dispiace (la litote è d’obbligo) ma che lascerà un po’ di amaro in bocca a
tutti coloro che si attendevano una sana dose di cattiveria. Troppo rumore per
nulla.
Originari
di Bath, centro termale della contea di Somerset, Roland Orzabal e Curt Smith,
danno vita giovanissimi ai Graduate, gruppo di mod revival (vedi Jam) che nel
1980 piazza un singolo, Acting My Age, nella top 100 britannica. I graduate
però rappresentano solo un trampolino di lancio. Orzabal e Smith si sentono
maggiormente attratti dal post punk e dalle nuove sonorità elettroniche che di
lì a breve apriranno l’epoca del synth pop e della new wave. Abbandonati alla
loro sorte gli altri componenti dei Graduate, i nostri eroi formano un nuovo
gruppo, The History of Headaches, a cui quasi subito cambiano nome in Tears For
Fears, ispirandosi a un trattamento psicoterapeutico inventato dallo psicologo
Arthur Janov. Orzabal e Smith hanno fin da subito le idee ben chiare: fondere
il rock sixties di matrice beatlesiana con il pop, l’elettronica e una punta di
psichedelia. Grazie al produttore Dave Bates vengono messi sotto contratto
dalla Phonogram Records, che nel 1981 pubblica il loro primo 45 giri, Suffer
The Children. Dopo altri due singoli di successo, Pale Shelter (1982) e Mad
World (1983), esce il loro primo full lenght, The Hurting (1983, Voto : 7).
Fin dai primi ascolti si capisce che Orzabal è cresciuto con l’intera
discografia dei Beatles sotto il
cuscino.
I due però sono bravi ad attualizzare e rinfrescare quelle melodie, e
a rimeditare in chiave adulta il synth pop che impazza in quegli anni, usando
le tastiere con gusto ed equlibrio, senza disdegnare le chitarre. L’album, quasi un concept sull’infanzia
difficile vissuta da Orzabal (la foto del bambino in copertina è in tal senso
assai esplicita), piace molto al pubblico inglese, così tanto che in breve tempo
vola al primo posto delle charts britanniche. Merito di un pugno di singoli
dalla melodia irresistibile : oltre ai citati Mad World (che Gary Jules riporterà
al successo nel 2005 reinterpretandola per la colonna sonora di Donnie Darko),
Suffer the Children e Pale Shelter, a far sfracelli è soprattutto un brano molto dance intitolato Change, premiatissimo
nelle vendite anche in Italia. Spinti dall’inaspettato successo dell’esordio, i
Tears For Fears, perfezionano la loro idea di musica, distaccandosi ulteriormente dal
synth pop, e rendendo sempre più complessi i testi delle canzoni, che oltre
alla psicologia e all’infanzia, questa volta rivolgono uno sguardo anche alla scena
politica nazionale e internazionale.
Quando esce Songs From The Big Chair
(1985, Voto : 8) il nuovo suono è frutto di un impasto equilibratissimo fra
rock e pop, che parla un linguaggio universale e scala le classifiche di tutto
il mondo (USA compresi), arrivando addirittura a conquistare quattro dischi di
platino. L’ispirazione è ai massimi livelli, le melodie aquistano qualità grazie
a un taglio malinconico, e talvolta ombroso, che non toglie però vitalità
a brani che possiedo un alto contenuto energetico. Così su MTV e per radio impazzano veri
e propri tormentoni (di qualità) che portano il nome di Shout e Everybody Wants
To Rule The World (entrambe prime negli Stati Uniti). Ma il meglio, a ben
ascoltare, è altro : il blues sofferto di I Believe, il basso pulsante che
introduce il rock adrenalinico di Broken, la solarità funky dell’incredibile
Heads Over Heels, forse la loro miglior canzone di sempre.
Dopo quattro anni di
guadagni e lodi sperticate, i Tears For Fears tornano sulle scene con un album
che si discosta non poco dai suoi due predecessori. The Seeds Of Love
(1989, Voto : 6,5), costato un milione di sterline e il quasi fallimento
della casa discografica, si presenta come un disco raffinato, pretenzioso e
ricco di sonorità jazzy e soul che danno lustro alla grande passione di Orzabal
per i Beatles. Non tutto è centrato, a tratti il suono si fa verboso e ricco di
orpelli, e la super produzione con ospitate di grido (Phil Collins, Manu
Katchè, Oleta Adams), imbolsisce un po’ il tutto. Ma le cose buone comunque
non mancano, a partire dal singolo Woman In Chains, alla hit Sowing The Seeds
Of Love, beatlesiana fino al midollo, e al soul cristallino di Advice For The
Young At Heart, sicuramente la miglior canzone del disco. Alla fine delle
registrazioni Smith se ne va, sbattendo la porta, stufo dell’egocentrismo di Orzabal
e del suo modo cerebrale e pignolo di approciarsi a composizione e produzione.
Dal canto suo, Orzabal, si tiene stretto il marchio di fabbrica e continua a
sfornare dischi, questa volta però di livello modesto. Elemental (1993, Voto
: 5) e Raul And The King Of Spain (1995, Voto 4) sono flop di
vendite e mostrano un artista al raschio del barile, che ha ormai perso il tocco magico. Nel 2001, finalmente
Orzabal e Smith, che per tutto il decennio precedente non avevano smesso di
attaccarsi e insultarsi attraverso la stampa specializzata, si riappacificano, tornano a frequentarsi,
meditano la reunion e cominciano a pensare a un nuovo
album. Dopo numerose traversie, e solo nel 2005, viene alla luce Everybody
Loves A Happy Ending (2005, Voto : 6,5), buon lavoro in cui è ancora la
passione per la musica dei Beatles a farla da padrona, anche se questa volta l’elettronica
è quasi completamente abbandonata a favore di strumenti acustici. Splendida la
title track, migliore episodio di un album che, nonostante l’impegno del duo, vende
davvero pochino.
Ricevo dalla nostra freelance Cleopatra e
integralmente pubblico.
Cari amici, con una settimana rutilante come quella
appena trascorsa, gli "effetti speciali " non sono affatto mancati. La
rinascita di Forza Italia e la cancellazione del Pdl con l'azzeramento di tutte
le cariche, lo strappo di Alfano che non ha presenziato all'ufficio di
presidenza del Pdl, lo scandalo legato al Datagate, le polemiche legate alla
nomina di Rosy Bindi alla Commissione parlamentare Antimafia e la convention di
Matteo Renzi alla Leopolda, sono i temi caldi della settimana.
Stavolta,comincio proprio dal Sindaco di Firenze che come una "prima
donna" riempie,spesso, le prime pagine dei giornali con i suoi slogan.
Matteo Renzi sugli attivisti del Movimento 5 Stelle : " Sono
150, vanno sul tetto e costano 3 milioni di euro al mese ". Mi pare
una definizione un po' sbrigativa e superficiale. Piaccia o no, il M5S ha
rinunciato ai rimborsi elettorali, caro Sindaco, mentre gli altri partiti ( tra
cui il Pd ) si sono spartiti la bellezza di 56,3 milioni di euro.
Renato Brunetta ( FI ) a proposito della nomina di Rosy Bindi alla
Commissione Antimafia : " Se lei non si dimette, sarà guerriglia su
tutto ". Il falchetto minaccia la tenuta delle larghe intese, perchè
il nome del candidato non è stato condiviso collegialmente. C'è da chiedersi
come mai all'ex Pdl faccia tanto gola questa carica...se ci pensate bene, è
facile intuirne il motivo.
Denis Verdini ( FI ) intervistato da Report : " Per la vendita
di case ho preso 800 mila euro in nero. Ma è una cosa normalissima. Si fa così
nella vita ". No comment.
Antonio Di Pietro ( IdV ) a proposito di indulto e amnistia : " Se
passa l'indulto e l'amnistia, gli italiani li prenderanno a calci nel culo.
Sono scorciatoie politiche per non affrontare il problema del sovraffollamento
delle carceri " . E bravo Tonino! Una frase colorita per rendere più
chiaro un concetto..Le solite parole e nessun fatto.
Gianfranco Fini, rompe il silenzio con un libro e una fondazione :
" Berlusconi non è finito. Ha ancora un vasto consenso nel paese
" . Per favore, non ricordarcelo !
Marco Pannella sul Cavaliere : " Berlusconi non è Tortora, ma
anche lui è un perseguitato " . Pannella si è distinto, poco tempo fa,
per aver dato del " gran zozzone " a Epifani in occasione della
manifestazione sull'eutanasia, promossa dalla associazione Luca Coscioni. Il
segretario del Pd si è guadagnato l'onorificenza di Gran Zozzone per avere
affermato che le sentenze si rispettano. Mi permetto una considerazione. Dalle
file del Partito Radicale sono usciti illustri personaggi come Capezzone, un
voltagabbana di proporzioni imbarazzanti. E che dire del comportamento di
Pannella che per ben quarant'anni si è aggregato alle forze politiche più
disparate per rimanere a galla ?
Carlo Giovanardi ( senatore ex Pdl ) a proposito dello stupro di gruppo
ai danni di una minorenne a Modena " Se la sessualità viene presentata
come un bene di consumo, è inutile scandalizzarsi ". Giovanardi, ha
già ampiamente dimostrato di avere bisogno di un aiuto.
Mario Borghezio ( eurodeputato del Carroccio) alla trasmissione
radiofonica " La Zanzara " : "La Kyenge? E' la salvezza
della Lega, una propagandista aggratis. La fortuna politica è avere un
avversario imbecille ". Anche il ministro Kyenge ha la propria fortuna
politica !