Il primo ascolto del secondo capitolo della discografia
delle californiane Warpaint (sotto contratto però con la britannica Rough
Trade) mi ha lasciato perplesso. Ecco, mi sono detto, il disco perfetto per far
gridare al miracolo gli alternativi da sushi bar: estetica esasperata (a partire dalla
copertina) e quel suono dark ambient molto modaiolo che abbiamo già ascoltato
un milione di volte almeno, in tutte le sue possibili declinazioni. Poi, però,
siccome i dischi vanno ascoltati più e più volte finché non se ne viene a capo,
si scopre che sotto la patina stilosa
esiste un cuore che batte, intelligenza e, perché no, visione. Le dodici
canzoni che compongono la scaletta del disco, infatti, possiedono una
cattiveria di fondo a tratti destabilizzante (CC), manifestano attacchi da
sindrome bipolare (il pulsare delirante di Disco//Very) che spiazzano anche l’ascoltatore
più scafato, si infilano nel tunnel dell’ovvio per uscirne repentine con uno
scatto di originalità che non ti aspetti (Love Is To Die). Le Warpaint citano, ma
lo sanno fare con gusto, senza perdere il timone del progetto: per inclinazione
artistica rimandano soprattutto ai Blonde Redhead, ma richiamano alla mente
anche i Massive Attack nel trip hop ipnotico di Hi, o i Radiohead nell’acustico
monocromatico di Teese. Nonostante ciò, le quattro ragazze risultano, ad
esempio, decisamente meno derivative e mostrano un piglio personale più
facilmente identificabile rispetto alle Savage, altro gruppo dark oriented al
femminile con cui si sono tentati da ultimo impropri imparentamenti. Warpaint, a
conti fatti, risulta un disco che possiede un metodo più che un’anima, un
rigore quasi matematico nel creare suggestioni che non hanno nulla a che fare
con la malinconia, come un ascoltatore distratto potrebbe pensare, bensì creano
una tessitura onirica dall’andamento cupo e invasivo. E’ un disco dal pulsare continuo,
sorretto da una linea di basso che è la vera chiave di lettura di un monocorde
stato emotivo, in cui le variazioni sul tema dipendono esclusivamente dalla
frequenza del battito. In questo, e nient’altro, risiede la bellezza del disco:
nella consapevolezza, cioè, di definire un percorso e uno stile che si perfezionano, ascolto dopo
ascolto, canzone dopo canzone, fino all’uno-due finale di Drive e Son, vertici
di una scaletta che convince in crescendo.
Voto: 7,5
Blackswan, domenica 16/02/2014
1 commento:
meno male che non ti sei fermato al primo ascolto...
già adesso, un serio candidato al titolo di mio disco dell'anno!
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