mercoledì 30 aprile 2014
martedì 29 aprile 2014
CAPAREZZA - MUSEICA
Per dirla parafrasando Lester Bangs a proposito dei
Clash, Caparezza è l'unico rapper che conti davvero qualcosa. Non è solo una
questione di abilità linguistica e metrica, che pone tra lui e il resto del
panorama hip hop italiano una distanza siderale; né la capacità di stare sempre
sul pezzo, di riuscire cioè a posare uno sguardo attento, disincantato e
ironico, sulle vicende, politiche e sociali, del nostro paese. Oggi, Caparezza
porta a compimento anche il proprio percorso musicale e
artistico iniziato nel lontano 1995, pubblicando il suo disco più completo
e maturo, e migliorando quello che da sempre è stato il suo vero punto debole,
e cioè la capacità di scrivere, oltre che splendidi testi, anche buone
canzoni. E' questo, oltre ai contenuti di cui diremo a breve, uno degli
elementi salienti di Museica, le cui diciannove tracce (per una
durata di oltre settanta minuti) dispiegano una varietà e una
qualità compositiva finalmente all'altezza del messaggio. Strano a dirsi,
ma Museica si allontana sempre più dagli schemi tipici dell'hip hop (il Capa, a
dire il vero, ha sempre dimostrato una certa insofferenza per le
convenzioni del genere), tanto che a conti fatti, e con le dovute proporzioni,
somiglia molto da vicino a un disco rock, oltretutto con qualche
(riuscitissimo) deragliamento in ambito metal (Argenti Vive). Il combinato
disposto tra questo cambiamento e il livello alto, a volte altissimo, dei riferimenti
culturali contenuti nelle nuove canzoni, alza l'asticella
qualitativa dell'ascolto e impone fin da subito una riflessione. Cosa ne
sarà di questo splendido disco che cita Dadaismo, Modigliani, Van
Gogh, Dante, Frida Kahlo, Piero e Alessandro Manzoni (folgorante
l'immagine di Lucia e Renzo...Piano!), Giotto, Goya e molti altri artisti e
scrittori che hanno contribuito alla crescita dell'umano sentire? Perchè due
sono le possibilità: o (soprattutto) il pubblico più giovane sarà spinto
dalla curiosità di scoprire quali e quante meraviglie si celano dietro i
testi effervescenti e urticanti del Capa, oppure il cd verrà riposto,
per reciproca incomprensione, nell'ambito più remoto della libreria itunes,
da tutti coloro che si sentiranno spiazzati da un'opera ricca di
rimandi che una cultura medio bassa nemmeno immagina.
Oltretutto, il rapper di
Molfetta non lesina attacchi frontali alla dilagante subcultura degli
smartphone, asfaltando con il vetriolo della feroce Mica Van Gogh il retroterra
di insipienza che ci ha regalato vent'anni di berlusconismo. Quale che sia
l'esito che Museica avrà sui più giovani ascoltatori (ma non solo), è fuor di
dubbio che Caparezza abbia pubblicato un disco originale e non di facile
assimilazione, capace, a Dio piacendo, di farsi carico di quel
compito divulgativo che, nell'epoca dei twitter, i libri non riescono più ad
assolvere. Sarebbe un successo ben più redditizio di quello commerciale
se qualcuno, spinto dall'ascolto di Museica, avesse lo stimolo di
scoprire lo spirito iconoclasta del dadaismo (Comunque dada), la storia dei
falsi di Modigliani, che nel 1984 misero in ambasce il mondo accademico
italiano (Teste di Modi), le vicende che legarono Filippo Cavillucci detto
Argenti (letteralmente massacrato dal sommo poeta nel canto VIII dell'Inferno) e
Dante (Argenti Vive), la storia della grande musica rock così magistralmente
raccontata attraverso le copertine di dischi leggendari (Cover). In scaletta,
oltre a tanti momenti davvero riusciti (su tutti Canzone A Metà, Avrai Ragione
Tu, Mica Van Gogh, Argenti Vive, Cover, Troppo Politico), anche qualche
riempitivo (Figli D'Arte, Compro Horror) e il solito carico di feroce ironia
che morde alla gola le ipocrisie, il perbenismo e la fuffa
politica che ci circonda. Per tutti quelli che sono in fissa coi girasoli e non
coi cellulari.
VOTO: 8
Blackswan, martedì 29/04/2014
lunedì 28 aprile 2014
domenica 27 aprile 2014
LIVING DEAD LIGHTS – BLACK LETTERS
Ascoltare un buon disco
rock, rumoroso e grintoso come richiedono i manuali di scuola, e che
soprattutto susciti interesse dalla prima all’ultima traccia, non è cosa che
capita tutti i giorni. Se poi a farlo non sono scafati rocker dal nobile pedigree
ma ragazzi alle prime armi la soddisfazione è, se possibile, anche superiore. I
losangelini Living Dead Lights hanno all’attivo un solo Ep, pubblicato nel 2010,
e una vita artistica vissuta su e giù dai palchi di europa e mezza America. Si sono
presi il tempo necessario, circa due anni, per scrivere, suonare e limare nei
minimi dettagli il loro primo full lenght. Non hanno voluto lasciare nulla al
caso, consapevoli comunque che tanto perfezionismo non avrebbe mitigato affatto
la forza dirompente di dodici canzoni che si ascoltano tutte d’un fiato. Hanno
dato uno sguardo al passato, da cui hanno preso ispirazione e rubato i trucchi
del mestiere (un pensiero ai Buckcherry e ai Guns ‘N’ Roses è più che immediato),
hanno ripassato la lezione del punk per costruirsi una certa autorevolezza e
hanno maneggiato il tutto con l’urgenza espressiva della gioventù, schiacciando
l’acceleratore a tavoletta per correre il più velocemente possibile. Il
risultato finale è un disco davvero cazzuto, che mescola la forza bruta (l’uno
due iniziale di I’ll Be Your Frenkenstein e It’s Drowning In My Veins si
addentra in territori metal core), a un approccio intelligente e (quasi) mai
banale alla melodia. Tolti un paio di episodi poco convincenti perché troppo
ruffiani (il singolo This Our Evolution e Johnny hanno un impianto così smaccatamente
radiofonico da apparire poco credibili se si vuole aspirare all’aura di veri
rocker), la scaletta offre momenti di dardeggiante furore: la doppietta
iniziale già citata, l’adrenalinica Follow, il punk 2.0 di Hey Stranger!
(eccellente lo screaming del frontman Taka Tamada) gli ammiccamenti vintage
della blueseggiante I’m Dead To Myself, ci accompagnano verso un finale che
sfocia nell’acustico, grazie all’intensa ballad Ghosts & Saints. I Living
Dead Lights non saranno certo la salvezza del rock, come qualcuno si è già premurato
di scrivere, ma è indubbio che con questo Black Letters abbiano portato al
genere una bella ventata di freschezza. Da tenere d’occhio: il debutto è ottimo.
VOTO: 7+
Blackswan, domenica 27/04/2014
sabato 26 aprile 2014
venerdì 25 aprile 2014
BLACK LABEL SOCIETY – CATACOMBS OF BLACK VATICAN
Ho riascoltato Catacombs Of
Black Vatican parecchie volte per convincermi di aver capito bene. Anche perché
Zakk Wylde, nessuno lo può negar, è probabilmente il miglior chitarrista metal
in circolazione (non me ne voglia mister Mustaine) e i suoi Black Label
Society, a prescindere da ogni valutazione oggettiva, mi piacciono molto (non
mi perdo una loro uscita nemmeno se minacciato di morte). E poi, diciamocelo
senza remore, vien male parlare male di uno che ha alle spalle un passato lungo
così. Tuttavia, l’entusiasmo con cui ho scartato e messo sul piatto cd non è
stato ripagato che in minima parte. Forse perché uno si aspetta sempre di
trovare qualcosa di diverso, un quid, una scintilla che illumini di immenso il
nuovo disco di un inarrivabile guitar hero qual è Wylde. Invece: niente, nada,
zero zerello. Catacombs Of Black Vatican è uguale a uno qualsiasi dei dischi
dei BLS. Anzi, identico. A partire dalla copertina, truzza e brutta all’inverosimile,
così come per la produzione musicale, artificiosa e innaturale, piena di
riverberi e di tamaraggine molto FM americana. Se il gioco, almeno con il
precedente Order Of The Black, era ancora avvincente, oggi, è proprio il caso
di dirlo, non diverte più tanto. Colpa di una scaletta al minimo dell’inventiva
anche nella disposizione dei brani e di un songwriting che non graffia mai, perché
zeppo di deja vu, di soluzioni scontate, fruste, ripetitive e di un certo
esibizioni tecnico fine a se stesso. Certo, sentire Wylde prodursi in uno dei
suoi memorabili assoli è sempre un bell’ascoltare. Eppure, il copioso utilizzo
degli armonici artificiali e della plettrata alternata, marchi di fabbrica dell’irsuto
chitarrista, non sortisce più lo stupore di un tempo. Tanto che, alla resa dei
conti, le cose migliori dell’album, oltre al sanguigno hard rock blues con cui
ha inizio il disco (Fields Of Unforgiveness), sono proprio le ballate che, pur
nella loro convenzionalità, riescono ad arrivare dirette al cuore. Tutto il
resto non è brutto, ma terribilmente ordinario. Solo per fans.
VOTO: 6
Blackswan, venerdì 25 aprile 2014
giovedì 24 aprile 2014
mercoledì 23 aprile 2014
martedì 22 aprile 2014
BETH HART & JOE BONAMASSA – AMSTERDAM
Da quando questo blog è in
attività, ho scritto più a proposito di Bonamassa che di chiunque altro. Ci metto del mio, ovviamente, perchè amo
visceralmente il chitarrista newyorkese; tuttavia, è fuor di dubbio che Joe sia
uno stakanovista come pochi al mondo. Cd e dvd, sfornati uno via l’altro senza
soluzione di continuità, in solitaria, in compagnia degli ormai disciolti (?)
Black Country Communion, e da ultimo, come se non bastasse, con la cantante e
cantautrice losangelina, Beth Hart. Non abbiamo fatto a tempo a gustarci la
tetralogia londinese di Tour De Force (ne parleremo magari nei prossimi
giorni), ed ecco che esce nei negozi un doppio cd e doppio dvd (anche in
formato blu ray) intitolato Amsterdam, registrato la sera del 22 giugno dello
scorso anno nel leggendario Koninklijk Theater Carre del capoluogo olandese. La
domanda a questo punto sorge spontanea: vale la pena acquistare l’ennesima
prova live di un artista che, pur essendo davvero talentuoso, è invasivo come
il prezzemolo nella cucina italiana? La risposta, dal punto di vista di chi
scrive, è un SI grande come una casa. Un si che vale a prescindere che siate
fans completisti di Bonamassa o che invece vi approcciaste per la prima volta a
questi due grandi rocker che, già in passato con le due prove in studio (Don’t Explain
del 2011 e See Saw del 2013), ci avevano titillato il velopendulo. Perché, a ben ascoltare (e guardare), questo è
un live travolgente, emozionante e suonato come Dio comanda, tanto che l’impresa
ardua diviene fin da subito riuscire a tirarlo fuori dal lettore (cd o dvd che
sia). Non solo per la scaletta del live act che, più o meno, ricalca quella dei
due album in studio; ma soprattutto, direi, per i comprimari (si fa per dire)
che affiancano i nostri due eroi durante l’esibizione. Un sezione fiati
puntuale e mai invasiva (Lee Thornburg alla tromba, Ron Dziubla al sax e Carlos
Perez Alfonso al trombone), una leggenda come Blondie Chaplin (Beach Boys e
Rolling Stones) alla chitarra ritmica, Carmine Rojas al basso (aprite per curiosità
la pagina di wikipedia che lo riguarda e stupitevi scoprendo con chi ha suonato
questo signore), Arlan Shierbaum alle tastiere e un fenomeno come Antonio Fig
dietro le pelli (Antonio Fig, per citarne uno, ha suonato con Miles Davis). Il
risultato sono due ore di musica che non vorresti finissero mai, durante le
quali Bonamassa, per una volta più essenziale e defilato del solito, sviscera
tutta la sua sapienza chitarristica, mentre Beth Hart, in surplus di decibel, veste
in maniera sempre più convincente gli abiti di una Tina Turner 2.0 (la loro
versione di Nutbush City Limits è, a mio avviso, di gran lunga superiore all’originale).
Tra le meraviglie in scaletta, vale la pena ricordare, la toccante Strange Fruit,
le travolgenti Something Got A Hold On Me (Etta James) e Well, Well, e una Miss
Lady (Buddy Miles) indimenticabile. Per riscoprire il piacere di ascoltare un
grande disco dal vivo o per non farsi mancare proprio nulla del buon Joe
Bonamassa: qualunque sia il motivo, non perdetevi questo live.
VOTO: 8
Blackswan, martedì 22/04/2014
lunedì 21 aprile 2014
CLOUD NOTHINGS – HERE AND NOWHERE ELSE
Mai piaciuti I Cloud
Nothings, e lo dico senza usare perifrasi utili ad addolcire la pillola. Troppo college
band, troppo finto alternativi, troppo pop ad annacquare un punk mai davvero
decisivo. Insomma, una musica buona per adolescenti che vorrebbero farsi
passare per duri, ma che poi al primo accenno noise, tremebondi, si fanno il
segno della croce. E questo, nonostante al progetto musicale del terzetto di
Cleveland abbia messo mano un guru dell’alternative come Steve Albini (Big
Black, Rapeman, Shellac, e una miriade di produzioni che vanno dai Fugazi agli
Slint passando per i Nirvana). Oggi, Albini, dopo il deludente Attack On Memory
del 2012 (vedi motivi su esposti), ha lasciato la cabina di regia e ha passato
il testimone a John Congleton (John Grant, St. Vincent, Anna Calvi, Micah P.
Hinson, etc). E il cambio di rotta , strano a dirsi, ha permesso ai Cloud
Nothings di sfornare il loro album migliore. Certo, non vi è stato lo
stravolgimento di una formula che sembra ormai parte del dna della band: i
ganci melodici e la ricerca del ritornello facile facile abbondano anche in
Here And Nowhere Else. Eppure, gli spunti più decisamente pop non sono mai
puerili, mai fini a se stessi, ma si inseriscono alla perfezione in un
linguaggio divenuto finalmente adulto. Anzi, a tratti addirittura austero (come
ci fa capire la copertina del disco) e decisamente essenziale (come spiega lo
scarno packaging del cd). Il minimo sindacale di durata (trentadue minuti) e
otto canzoni urlate, dirette, capaci di percuotere i timpani con una ritmica
possente e una chitarra altrettanto solida. Il gioco funziona, insomma, e se è
vero che il punk è tutta un’altra cosa, questo noise pop, un po’ emo e un po’ post,
alla lunga è riuscito a convincere anche un detrattore come il sottoscritto.
VOTO: 7
Blackswan, lunedì 21/04/2014
Iscriviti a:
Post (Atom)