Ci sono band a cui basta
un disco, magari anche un singolo, per scalare le classifiche e diventare famose; e altre, invece,
che si dannano l’anima per anni senza cavare un ragno dal buco. E’ quello che,
più o meno, è successo agli Old Crow Medicine Show, band di stanza a Nashville,
formatasi sul finire degli anni ’90 del secolo scorso. Una gavetta dura, a sputar
sangue in piccolissimi locali di periferia o a raccogliere consensi agli angoli
delle strade (il nome del gruppo in tal senso è abbastanza esplicito), un po’ come
si fa ancora oggi a Dublino, in Grafton Street, o da noi, nei tunnel della
metropolitana. Ed è proprio durante uno di questi concerti improvvisati,
davanti a una farmacia di Boone, un paesone della North Carolina, che gli OCMS
vengono notati da Doc Watson, uno dei padri dell’american roots. Un bel intuito
quello avuto da Watson che, dopo averli ascoltati, se li porta a suonare al
Merlefest, festival di musica tradizionale che si svolge ogni anno in quel di
Wilkesboro. Da qui, dal cuore dell’America rurale, la band capitanata dal
cantante e violinista Ketch Secor ha iniziato un’ascesa di consensi e successo
che li ha portati a suonare al Grand Ole Opry, programma radiofonico in onda
ininterrottamente dal 1925 e che è considerato il massimo punto di arrivo per
la consacrazione di un musicista country. Ora, gli Old Crow Medicine Show li
conoscono tutti, sono il gruppo leader di quel movimento chiamato progressive
blue grass, vendono milioni di dischi e si piazzano sempre ai primi posti delle
posti delle classifiche di genere. Cinque dischi all’attivo (i primissimi lavori rilasciati
tramite il supporto dell’audiocassetta sono praticamente introvabili) una
manciata di Ep e una fama ormai consolidatissima di eccezionale live band, rappresentano
il pedigree di una delle realtà più stimolanti dell’intera scena country statunitense. Anche
perché questi sette ragazzi non si limitano a rinverdire i fasti della
tradizione, ma amano contaminare il suono folk con un approccio incredibilmente
punk rock: alternative country, quindi, suonato in acustico ma con la potenza e
l’energia di una band che suona in elettrico. A esaltare questo aspetto, che è una
costante di Remedy, dietro la consolle arriva l’inglese Ted Hutt (Gaslight
Anthem, Flogging Molly, etc), che ha lavorato in modo molto istintivo sulla
presa diretta, trasformando la scaletta del disco in una sorta di live act in
studio. Immediatezza, potenza, gran ritmo e strumenti sbrigliati sono il fiore
all’occhiello di quello che potremmo definire il miglior capitolo della
discografia degli OCMS. Canzoni che pescano dal blue grass, che citano Dylan
(la voce di Secor, senza possederne la fascinosa asprezza, ricorda da vicino
quella del menestrello di Duluth), che sfociano in up tempo travolgenti (per chi non mastica la
materia, rimanderei alle gighe dei Pogues, giusto per farsi un’idea) per poi adagiarsi su ballate pronunciate
con accenti decisamente bluesy. Un disco che si ascolta tutto in un fiato e che
trasmette la sanguigna passionalità di chi ha costruito la propria carriera
trasformando ogni concerto in un pogo travolgente (ascoltate 8 Dogs 8 Banjos e
comprenderete il potenziale live della band). In attesa che facciano un salto
dalle nostre parti (gli Old Crow Medicine Show non sono mai venuti a suonare in
Italia) non perdetevi questo disco: loro sono probabilmente la migliore roots
band in circolazione. E si sente.
VOTO: 8
Blackswan, sabato 12/07/2014
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