Ben vengano artisti come
Damien Rice, capaci di dar voce al loro tormento interiore, di universalizzare
gli autunnali paesaggi della propria malinconia, di mettersi a nudo, di esibire
con pudicizia anche i romiti più nascosti dell’intimo, suggerendo un legame di
condivisione con l’ascoltatore. Materia, questa, non facile da gestire: il percorso
è sdrucciolevole e impervio, perdere la bussola è un attimo, come è un attimo
travalicare quel confine sottile che separa il lirismo dal melodramma. Rice,
classe 1973, due album all’attivo (splendido il primo, intitolato O), torna in
studio dopo otto anni per riproporci il suo folk esile, eppure al contempo
denso di emozioni, caratterizzato da interpretazioni vocali straordinariamente
intense e da un suono che, quando si mantiene scarno, essenziale, riesce a
colpire sempre nel segno. O, poc’anzi citato, è stato l’apice di scrittura del
talentuoso songwriter irlandese; e, tutto sommato, anche il successivo 9,
connotato da sonorità più elettriche, non aveva deluso le aspettative. Ma come
si diceva, la materia non è fra le più semplici da elaborare: occorre avere le
idee ben chiare, mantenersi a distanza, dominare il pathos. My Favourite Faded Fantasy
è, in questo senso, il disco meno riuscito di Rice, vittima forse di un eccesso
di elaborazione stilistica e di una irritante verbosità, come se negli otto anni
trascorsi lontano dagli studi di registrazione si fosse creato un accumulo di
idee davvero difficile da ordinare. Così, quando Rice asciuga il suono e fa le
cose semplici, è capace di toccarci il cuore come aveva a suo tempo già fatto
con canzoni del calibro di The Blower’s Daughter: il fragile arpeggio di
chitarra che introduce la title track, la melodia contagiosa di I’ Don’t Want
To Change You e l’intensità colloquiale di The Greatest Bastard portano alla
luce una grande scrittura e sono i momenti più intensamente drammatici dell’album.
Ma in altri frangenti, questa magia si perde tra arrangiamenti ampollosi e un
vaniloquio prolisso che procura più di uno sbadiglio (It Takes A Lot To Know A
Man, Trusty And True). Il risultato è dunque un disco riuscito a metà, che
procede a corrente alternata, fra picchi di seducente lirismo e lunghi momenti
di stanca inconcludente. Un accumulo eccessivo che soffoca l’urgenza e che ci
lascia soddisfatti a metà.
VOTO: 6,5
Blackswan, domenica 09/11/2014
3 commenti:
Bel brano, la tua recensione mi ha incuriosito, grazie!
disco noiosetto.
il buon damien un'altra canzone come the blower's daughter non so se riuscirà a tirarla più fuori...
Il primo album è un capolavoro, ma questo disco rischia di dimostrare che il buon Damien ha un grande futuro...alle spalle.
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