10) TOM OVANS - LAST DAY ON EARTH
Poi,
Ovans, possiede una voce che tramortisce, cruda, alcolica, graffiante, capace
di un timbro colloquiale, quasi dimesso, che all'improvviso si inalbera in
fiotti di roca rabbia. In questa lunga scaletta (quella del
primo disco più elettrica mentre quella del secondo decisamente più
acustica), c'è tutta l'America che vale la pena di conoscere: la provincia
rurale, l'afrore del Mississippi, la desolazione di autostrade perse nel nulla,
la polvere di un peregrinare antico che si attacca agli stivali e ti brucia la
gola. Chitarra, slide, lap steel, armonica sono tutto il mondo di Ovans, un
mondo a cui approcciarsi con filologico stupore perchè capace di narrare
la storia e le tradizioni di una nazione molto meglio di tanti libri.
Soprattutto, e questo è il motivo più importante fra tutti, è che Ovans è
uno di quegli artisti che non ha nulla da perdere perchè alla musica ha dato
tanto, senza aver ricevuto nulla in cambio. Ci si presenta nudo, a mani vuote e
con un cuore grondante di dolore. Non c'è trucco e non c'è inganno: qui si
canta la vita, così com'è, senza artifici o abbellimenti stilistici, come se
fosse l’ultimo giorno da vivere su questa disgraziata terra. Allora,
canzoni come War e Caroline, lo sferragliamento neilyounghiano della title
track e il disincanto malinconico di California's Not What It Used To Be (da
quanto Dylan non scrive una canzone così?) ci svelano tutta la forza dirompente
di un disco capace di sfiorare vette eccelse con accordi e parole da pochi
cents. Chi ama la musica americana e la schiettezza se ne innamorerà
perdutamente: sono palpiti veri.
9) THEE SILVER MT.ZION MEMORIAL ORCHESTRA - FUCK OFF GET FREE WE POUR LIGHT ON EVERYTHING
Soprattutto,
poi, in un disco come Fuck Off Get Free... in cui l'estetica sonora del
gruppo supera definitivamente gli angusti recinti di genere per elevarsi a uno
status più alto, ove le definizioni perdono decisamente significato. Siamo
di fronte, infatti, a un'apocalisse cacofonica, a un caos organizzato di chitarre,
violini, voci e pianoforte, in cui folk, blues, rock e post-core si
fondono in una sinfonia estrema di dissonanze e disperazione, per sciogliersi
poi in languide suggestioni e fremente romanticismo. Sei canzoni (si fa per
dire) per cinquanta minuti di musica che spinge la melodia, sempre cupa o
estatica, comunque mai indulgente nei confronti dei desiderata
dell'ascoltatore, verso i confini estremi che separano la convenzione
dallo sperimentalismo puro. Succede così nei primi due brani, Fuck Off Get
Free… e Austerity Blues, che ci scaraventano per venticinque
minuti in una tempesta elettrica stratificata, in cui folk e blues vengono
martoriati da un ardore tanto selvaggio da percuotere anche anima e
orecchie. Un uno-due anarcoide e destabilizzante che basterebbe da solo a
farci gridare al miracolo, se non fosse che dopo c'è altro, molto altro. Un
mondo parallelo, verrebbe da dire, che contraddice tutto ciò che abbiamo
ascoltato finora: tre brani più morbidi, ma egualmente appassionati, che dopo
il naufragio ci conducono verso un approdo più rassicurante (e quasi
sinfonico) ma non per questo meno suggestivo. Il risultato finale è un
disco complesso perchè libero di essere, bellissimo perchè di una sincera e
cristallina purezza. Un disco che restituisce forza e autorevolezza al
rock, da tempo mai così integro e
lontano dalle mode del momento.
8) GROUPER – RUINS
Una fuga ad Aljezur, in
Portogallo, per allontanarsi dalla visione disarmante di un monumento eretto in
nome dell’amore e ore trasformato in rovine. Un folk minimale e intimista,
lontano anni luce dall’ambient dei lavori precedenti, pianoforte e voce, per
provare ad allentare la stretta del dolore attraverso la potenza evocativa
della musica. Mettersi a nudo, osservare le ferite, cercare il lenimento delle
note, risollevarsi, trovare una nuova luce, il riscatto. Il buio di un nuovo
edificio, ove nascondersi e registrare su un quattro piste ciò che non è più,
ciò che non saremo mai più. Tutt’intorno, l’eco di una natura leopardiana, che
incombe nel gracidare delle rane, ricordandoci che la sofferenza degli uomini e
la loro distruzione è necessaria perchè la specie si conservi. Si parte dal
rintocco funebre dell’iniziale Made Of Metal, si percorre una strada che
dall’oscurità conduce attraverso i fantasmi che infestano le rovine, si giunge
a un nuovo inizio (la conclusiva Made Of Air), in cui l’anima evapora verso un
barbaglio di sole. In mezzo, sei canzoni sgranate, dolenti, gravide di immani
silenzi, dagherrotipi di un mondo non più riproducibile, di una vita ormai
trascorsa, che solo il tempo ci restituirà, benigna, nella dolcezza malinconica
di sfumati ricordi. Ma prima occorre passeggiare sulle rovine, ferirci gli
occhi alla vista dei nostri detriti, superare lo sfacelo del nostro dolore.
Perché il metallo si trasformi in aria e ci lasci liberi.
7) COUNTING CROWS - SOMEWHERE UNDER WONDERLAND
Un lavoro essenziale e diretto che, per converso,
si apre con Palisades Park, una delle canzoni più lunghe e complesse della
discografia dei corvi: otto minuti abbondanti, eppure non una nota in più
o fuori posto, una piccola suite in cui tutto è necessario, un capolavoro a
incastro (intelaiatura jazzy, digressioni improvvise, ritornello scalpitante)
in cui domina la voce multiforme di Adam Duritz, che sceglie
però la strada della narrazione a scapito della consueta recitazione. E
che Palisades Park sia una canzone immensa, non vi sono dubbi: finisce e
hai già voglia di riascoltarla, e a ogni nuovo ascolto scopri un particolare che
ti era sfuggito, un'intonazione, un leggero controtempo, un palpito, un battito
del cuore. Tanto bella che se anche il disco finisse ora, saremmo
definitivamente appagati, inebriati da un ritorno che nessuno
avrebbe scommesso così intenso. C'è dell'altro però, ci sono altre otto
canzoni (siamo al minimo storico) che costituiscono una scaletta coesa,
compatta, sostanziosa, a tratti, persino possente. Earthquake Driver
e Dislocation mostrano i muscoli del rock ma possiedono anche grandi
potenzialità radiofoniche; Scarecrow pesca un ritornello dalla melodia
cristallina; Elvis Went to Hollywood regala un inusitato tripudio di chitarre;
God Of Ocean Tides ritorna esattamente là, dove tutto ebbe inizio, somewhere in
the middle of America, mentre il country rock di Cover Up The Sun suona come un
classico dei Greatful Dead in prospettiva 2.0. Concludono il disco John
Appleseed's Lament, l'unico brano "normale " in scaletta, e
Possibility Day, in cui Duritz vola altissimo, regalandoci una delle "sue"
canzoni, quattro minuti acustici, intimi, commossi. Pronto ovviamente a
essere smentito da chiunque, ho l'impressione che per trovare un disco dei
Counting Crows così bello e convincente debba tornare indietro nel tempo fino a
Recovering The Satellites. Era il 1996 e sono passati quasi vent'anni.
Tuttavia, questa resta una delle poche band del pianeta che,
quando è in credito di ispirazione, riesce ancora a far battere il mio cuore di
un amore appassionato e sincero.
Un
grande disco.
6) MARIANNE FAITHFULL – GIVE MY LOVE TO LONDON
E c’è la voce, poi, quella
voce, così sgraziata, roca, aspra, feroce. Una voce che afferra le canzoni alla
gola e, letteralmente, le sbrana. Canzoni bellissime, come quelle che
costituiscono la scaletta di Give My Love To London, e che la Faithfull ha però
il potere di spogliare della loro immanenza portandole a un livello superiore
di spiritualità. Una tendenza all’assoluto, che parte dalle proprie rovine
interiori, dal proprio doloroso vissuto, e che la voce, quella voce, rende
universali, come se l’abisso da cui provengono fosse l’habitat naturale del
genere umano. Scrivono per lei penne ispiratissime: Nick Cave, Steve Earle,
Roger Waters, Anna Calvi, Ed Harcourt, ognuno con il suo stile ben definito,
che diventa addirittura inconfondibile, nel tratto dell’ex-Pink Floyd (Sparrows
Will Sing) e in quello di Re Inchiostro (l’incedere presbiteriano di Late
Victorian Holocaust). Eppure, ciò che resta dopo ogni ascolto, ben aldilà della
qualità dei singoli brani, è solo lei, Marianne: un dolore, un’esistenza, una
voce. Le cicatrici interiori ci sono tutte, e si specchiano nelle rughe del
volto, si riverberano nello spleen malinconico che avvolge di tenebra il disco.
Ciò che però il tempo non ha toccato è l’intensità interpretativa di un’artista
discesa negli inferi e poi risorta. Con quella voce.
Blackswan, domenica, 28/12/2014
5 commenti:
Tom Ovans spettacolare.... Superato Dylan....
E i Counting Crows finalmente tornati.... Si sono fattinaspettare ma ne e' valsa la pena!
Alla Faithfull onestamente preferisco Lucinda Williams il cui album di quest'anno meets both the spirit and the bone 😀
Il mio podio 2014 e' femmina....Lucinda,Lana et Counting Crows 😎
Abrazo fuerte hermano
ma salendo in classifica i dischi non dovrebbero migliorare, anziché peggiorare?
gli album di grouper e marianne faithfull se ascoltati interamente sono garanzia di coma assicurato :D
Ma non avevo postato qualche cosa?
Ho sbagliato blog?
Che strane coincidenze...
Beh saluto di cuore Tom Waits e l'avevo proprio dimenticato....
@ Offhegoes: i primi cinque domani, ma credo che le nostre scelte siano in linea, soprattutto su Lucinda :) Abbraccio
@ Marco: effettivamente mancano Taylor Swift e Avicii, ma credo ci penserai tu a metterli in buona evidenza :))
@ Nella: mi sa che la febbre ti abbia tolto un pò di lucidità. Hai pubblicato sul post precedente e qui di Tom Waits non c'è nemmeno l'ombra :))
Sempre positiva la mancanza di lucidità, spesso ti fa vedere più chiaro del vero!
Seratissima, amico caro!
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