5) BEN HOWARD - I FORGET WHERE WE WERE
Un
disco in cui Howard, pur senza inventare nulla di nuovo (la materia è pur
sempre quella ormai consunta dell'indie folk), allestisce una scaletta di
splendide canzoni umorali e malinconiche, andando a citare con gusto
alcune icone del passato quali Nick Drake e John Martin, e artisti più
recenti del calibro di David Gray e Damien Rice, coi quali sono davvero
parecchi i punti in comune. Come nello splendido bianco e nero della
copertina, i dieci brani di I Forget Where We Were si muovono fra
le luci e le ombre di una sensibilità sempre in bilico fra dolcissime
malinconie (il treno in corsa suggerito dalla ritmica di Rivers In Yours
Mouth produce i languori di un lontano ricordo che torna a noi
all'improvviso, lasciandoci sulle labbra un nostalgico sorriso) e sprofondi
notturni di un'amarezza senza fine (lo straordinario incipit di Small Things,
una delle canzoni più belle ascoltate quest'anno). Tra folky picking magistrali
(In Dreams da brividi) e schegge di post rock (la conclusiva All Is Now
Harmed), Howard disegna col tratto sfumato della matita un soundscape autunnale
per viaggiatori malinconici, la cui percezione della realtà risulta sempre
foriera di dolorosi ricordi. Curato nella produzione, che mette in risalto
soluzioni chitarristiche azzeccate per equilibrio e misura (sapiente l'uso
del riverbero), drammatico, senza però mai sfociare nel melò, privo di fillers
e sincero negli struggimenti, senza tuttavia perdere il proprio equilibrio
formale, I Forget Where We Were si candida a essere uno dei dischi più
riusciti di questo 2014. Non certo un'opera innovativa, niente che ci faccia
gridare al miracolo, è vero, ma un disco composto di piccoli,
fragili gioielli emozionali che sapranno scaldarci il cuore nelle fredde
notti di questo ormai conclamato inverno.
4) DAMON ALBARN – EVERYDAY ROBOTS
Un disco adulto e misurato,
in cui Albarn impasta il proprio vissuto artistico senza rinnegare alcunché ma
trovando invece una nuova consapevolezza. In questo senso, all’interno della
medesima scaletta, convivono elettronica e pop-rock, jazz e campionamenti, folk
e soul, gospel e world music, in una sinossi il cui equilibrio è temperato
dallo sguardo malinconico e disilluso della mezza età. Non esiste più la
rockstar dietro le canzoni di Everyday Robots, ma semplicemente un uomo, un
crooner meno baritonale ma quanto mai espressivo, che racconta se stesso e il
mondo che lo circonda, l’incomunicabilità (Hostiles), la solitudine (Lonely
Press Play), la dipendenza dalle droghe (You And Me), e che nonostante ciò è
ancora in grado di divertirsi e divertire (Mr. Tembo) e di sorridere nello
squarcio di sole finale di Heavy Seas Of Love, brano santificato dalla
collaborazione con Brian Eno. Il mood che pervade il disco tuttavia è
decisamente malinconico, anche se Albarn gestisce la materia da consumato
artigiano, tenendo a distanza melodramma e pathos, preferendo la prosa alla
poesia, il ragionamento all’impeto. L’andamento folk etereo, quasi onirico, di
Hostiles, il beat notturno di Lonely Press Play, il pianoforte jazz di the
Selfish Giant, la disperazione trattenuta di You And Me (sette minuti di
esplicita confessione sull’abuso di eroina: “carta stagnola e accendino, la nave va da una parte all’altra”) e
quella di Hollow Ponds, con l’assolo di corno francese a richiamare il Miles
Davis del Concierto De Aranjuez, rappresentano i vertici di un disco bellissimo
e alcune delle cose migliori composte nell’ormai più che ventennale carriera.
L’eterno ragazzo, l’enfant prodige del brit pop, l’irrequieto Peter Pan dei
mille progetti e delle altrettante collaborazioni, sembra aver trovato la dimensione
più congeniale alla seconda parte della sua carriera artistica. Come un fuoco
che non divamperà più ma la cui fiamma continua a scaldare con seducente
intensità. La discrezione consapevole di una classe infinita.
3) SUN KIL MOON - BENJI
Ci sono artisti che meriterebbero un monumento. Per
quello che hanno fatto in passato, per quello che fanno nel presente, per
essere in grado di gestire l'ipercreatività artistica tenendo fede alla propria
coerenza espressiva, pur mantenendo sempre alta la qualità della proposta. Uno
di questi, uno degli esempi più fulgidi, è Mark Kozelek, un nome da sempre
lontano dallo show business, che ha cresciuto almeno due generazioni di
ascoltatori appassionati di slow core e malinconia. Una carriera iniziata nel
1989, con il progetto Red House Painters e una manciata di dischi che
raccontavano l'epica della tristezza, proseguita in solitaria partendo
dall'amore per gli Ac/Dc (What's Next To The Moon) e consacrata con i Sun Kil
Moon, sacerdoti narcolettici di un folk rock minimale e disperato. Si
potrebbe addirittura parlare di frenesia produttiva se la parola
frenesia non creasse un curioso ossimoro con la lentezza che
caratterizza le canzoni di Kozelek: diciasette album in studio, un pugno di ep
e raccolte, tredici dischi live, le recenti collaborazioni con Jimmy Lavalle e
Desertshore. Eppure, l'impressione è sempre stata quella di un artista che,
salvo rarissimi casi, abbia in testa in modo chiaro le coordinate di un
percorso, le parole giuste per raccontare storie intrise di lirismo e
disperazione. Non è un caso, quindi, che questo nuovo Benji sia il punto più
alto della discografia di Kozelek fin dai tempi del celebratissimo Down
Colorful Hill: un disco difficile, ostentatamente intimista e autobiografico,
in cui il songwriting si spoglia di ogni accento rock ed elettrico per
cogliere, in sembianze esclusivamente acustiche, la quintessenza della poetica
kozelekiana. Premessa d'obbligo è che Benji (registrato a San Francisco a metà
dello scorso anno) non può risolversi in pochi e superficiali ascolti. Ci sono
infatti certi dischi che non si limitano a donare emozioni, ma pretendono da
noi un tributo in termini di attenzione, solitudine, empatia. Con tale
predisposizione d'animo, si può davvero cogliere il senso di un'opera la cui
architettura è basata su arrangiamenti minimali, sottili come il segno di una
linea, eppure decisivi nelle piccole sfumature che prima mettono
in nuce, e dopo svariati ascolti esaltano, un'ispirazione altissima per tutti i
sessantadue minuti della scaletta. A partire dal dramma autobiografico della
malinconica Carissa, brano che apre il disco ricordando la morte di una cugina
a causa di un banale incidente domestico, per concludersi con Ben's My Friend,
un spiraglio di luce pop impreziosito da un bell'assolo di sax. In mezzo altre
nove canzoni in cui Kozelek apre l'abum dei ricordi (i dieci minuti evocativi
di I Watched The Film The Song Remains The Same), narrando piccole storie di
quotidianità (la dolcissima Micheline, su una bambina affetta da un ritardo
mentale), tributando alla malinconia degli affetti commossi omaggi in
chiaroscuro (I Can't Live Without My Mother's Love, I Love My Dad). Un'ora di
folk dimesso, dolente e ossessivo, sul quale svetta il
deragliamento psichedelico di Richard Ramirez Died Today Of Natural
Causes, cantato alle frontiere del rap in un accalcarsi di voci sbilenche e con
il rullante secco ed essenziale di Steve Shelley a chiosare malevolo il brano.
Benji è un'opera impegnativa, su questo non ci piove, ma la pazienza di
ripetuti ascolti premierà l'ascoltatore, regalandogli uno dei momenti musicali
(e poetici) più intensi di questo 2014.
2) CHRIS CACAVAS & EDWARD ABBIATI – ME AND THE DEVIL
Questa
musica ti prende alle spalle, è un evento inaspettato, un’epifania improvvisa
che ti coglie di sorpresa quando meno te lo aspetti. Magari perché non sai
assolutamente chi siano Chris Cacavas e Edward Abbiati (ed è probabile, se non
hai cavalcato in lungo e in largo per le sconfinate praterie del rock); oppure
semplicemente perché, pur conoscendoli, pensi sia impossibile che due mondi
tanto distanti riescano a venire a contatto fra loro senza confliggere, ma
creando qualcosa di unico, bellissimo. Non sono poche le cose, infatti, che
separano questi due artisti, anche anagraficamente assai lontani. Chris Cacavas
è una vecchia volpe del rock, uno che ha scritto pagine importanti di storia, e
che a metà degli anni ’80 dava lustro, con i suoi Green On Red, a quel
movimento auto-definitosi Paisley Underground: genere che pescava nel roots e
nella psichedelia per ridefinire le coordinate dell’american music. Abbiati,
invece, ha radici diverse e una storia più recente: di origini anglo-italiane,
dal 2007 è a capo del progetto Lowlands, combo pavese di folk- rock che trae
ispirazione tanto dalla tradizione americana che da quella inglese. Certo, i
due avevano già collaborato in passato, visto che Cacavas ha mixato i primi due
dischi della band nostrana; ma l’idea di un disco insieme, nasce un po’
casualmente, più per intuito che per un’effettiva e condivisa progettualità.
Racconta Abbiati : “Ho invitato Chris a
Pavia, ma non pensavo da subito di arrivare a un album. L’unica regola era che
nessuno dei due avrebbe scritto una nota o parola prima di trovarci; avremmo
improvvisato. Io non avevo neanche mai composto con altri, sono abituato a
lavorare da solo, ma le canzoni sono nate in modo spontaneo, scrivevamo e
registravamo subito sul mio iPhone per non dimenticare nulla, passavamo al
pezzo seguente. Un piccolo miracolo.” Il risultato finale, effettivamente,
ha qualcosa di miracoloso: dieci canzone perfette, palpitanti, genuine, senza
una nota fuori posto, suonate splendidamente con il contributo di un gruppo di
artigiani dello strumento, quali il bassista e chitarrista Mike “Slo-Mo” Brenner
(Jason Molina) e il batterista Winston Watson (Warren Zevon, Bob Dylan). Nel
disco confluiscono non solo i gusti e le esperienze dei due musicisti, ma anche
uno spettro di sonorità variegatissimo che spazia dal country al rock e al
soul, il cui prodotto finale è una miscela in cui si percepiscono reminiscenze
che portano a Neil Young, Nick Cave, Afghan Whigs, addirittura Cure. Me And The
Devil, registrato in cinque giorni in un granaio alla periferia di Pavia, è un
disco che però non paga dazio al deja vu e suona inusuale e attualissimo,
immerso in una penombra emotiva che caratterizza il mood dell’intera scaletta.
Against The Wall, il brano con cui si apre il disco, è sostenuto da una ritmica
ossessiva e potente e sfocia in un cupo ritornello che sembra pescato dal
repertorio di Greg Dulli. La title track mette in bella evidenza l’armonica e
gioca con suggestioni funky blues. Oh Baby, Please ruffianeggia con il sax di
Andres Villani sostenuto dal solido lavoro di Cacavas al piano elettrico in un
crescendo di notturna sensualità. I due minuti e mezzo di The Week Song,
delicata ballata con la lap steel di Brenner in bella evidenza, introducono uno
dei capolavori del disco, Hay Into Gold, mid-tempo dal sapore anni ‘90, con un
malinconico ritornello che mi ha fatto pensare ai Dinosaur Jr suonati dai Cure.
La nerboruta Long Dark Sky possiede il piglio elettrico dei Crazy Horse che
replicano in chiave rock certa new wave targata Eurythmics. Can’t Wake Up è il
country che sbarca sulle rive del Po’, la splendida The Other Side è una
ballata elettrica tra Neil Young e Pearl Jam, I’ll See Ya è intimismo da pelle
d’oca alla Elliott Smith, mentre Rest of My Life è la chiosa “vedderiana” per
un disco intenso, che non ha un momento di stanca e coinvolge fin dalle prime note.
In una stagione che fino a ora non ha riservato eclatanti sorprese, per quanto
mi riguarda, questo è un album che probabilmente entrerà nella top five delle
cose migliori del 2014.
1) LUCINDA WILLIAMS – DOWN WHERE THE SPIRIT MEETS THE BONE
Quanti sono i dischi che
diventano nostri, che dopo il primo approccio ci obbligano a ripetuti ascolti e
poi col tempo entrano a far parte del nostro bagaglio culturale? Quanti quelli
di cui ci ricorderemo ancora fra tre, cinque, dieci anni ? Nel 2014, avrò
ascoltato ormai più di quattrocento cd e ammetto che i contorni di molti di
questi mi appaiono già sfumati, se non addirittura dimenticati. Quindi,
rispondendo alla domanda retorica di cui sopra, direi non più di due o tre
all’anno. Per il semplice motivo che, come suggerisce il titolo del dodicesimo
disco in studio di Lucinda Williams, la musica spesso resta in superficie, fra
le cose frivole di questo mondo, e difficilmente scende nel profondo della
nostra anima, laggiù dove lo spirito incontra l’osso. La Williams, a sessantun
anni suonati, ci regala venti nuove canzoni che partendo dalle orecchie ci
scivolano dentro, senza clamori, con risoluta lentezza, e ci pervadono, come un
virus benevolo che arriva a intaccarci financo le ossa. Tanto che, una volta
metabolizzata la lunga scaletta dei due cd che compongono Down Where The Spirit
Meets The Bone, diventa difficile staccarsi dall’ascolto, se non facendoci
violenza. Parlavamo, una settimana fa circa, a proposito del disco di Slash, di
come l’estrema lunghezza di un disco sia difficilissima da gestire anche per un
artista affermato e creativo: troppo alto il rischio di annoiare, praticamente
impossibile mantenere un livello qualitativo costante. Insomma, la presenza di
filler è direttamente proporzionale alla durata dell’opera. E’ quindi
stupefacente che nell’ora e tre quarti di Down Where The Spirit Meets The Bone
la Williams non perda un sol colpo, regalandoci una scaletta ove si susseguono,
senza soluzione di continuità, belle canzoni e autentici capolavori.
Centoquattro minuti in cui un suono tipicamente e orgogliosamente americano
viene sviscerato in tutte le sue declinazioni, dal rock al country, dal blues
al folk. Ad accompagnare Lucinda un ensemble
di musicisti da paura, che suonano sciolti, quasi sornioni, facendo scivolare
dentro noi i mille volti di quell’America di interstatali perse nel nulla che
non smettono mai di affascinarci. Le chitarre di Val Mc Callum e Greg Leisz al
comando, e un pugno di camei da far tremare le vene nei polsi: Bill Frisell,
Jonathan Wilson, Jakob Dylan, Stuart Mathis (Wallflower), Pete Thomas e Davey
Faragher (Elvis Costello) e Tony Joe White. E poi, c’è la voce immensa della
Williams, dal timbro inconfondibile, talvolta carezzevole nelle sue sfumature
caramellate, altre volte lenta, strascicata, leggermente impastata, come nel
risveglio da una nottata di eccessi alcolici. Venti canzone venti, che si
aprono commuovendoci alle lacrime con il folk spettrale di Compassion (in cui
viene musicata una poesia di Miller Williams, poeta e padre della cantautrice)
e si chiudono con una delle più belle cover mai ascoltate, Magnolia di JJ Cale,
dieci minuti di jam che lasciano col fiato sospeso. In mezzo, tanta, tantissima carne, tutta
cucinata alla perfezione: il rock melodico di Burning Bridges e When I Look At
The World (due melodie impagabili), quello scontroso di Foolishness e
Everything But The Truth, gli afrori sudisti della sudatissima West Memphis, il
country malinconico di It’s Gonna Rain, il soul della struggente One More Day.
Arrivati alla fine di questo lungo viaggio sonoro, c’è il desiderio
insopprimibile di cominciare da capo, di nuovo, ancora una volta, e poi una
ancora, fino a farci venire i crampi alle orecchie. Perché Lucinda è riuscita
laddove quasi tutti gli altri falliscono: ci ha toccato nel profondo, in quel
luogo dentro noi dove lo spirito incontra l’osso. E fra dieci anni saremo qui,
a parlarne ancora. Già un classico.
PS: Lucinda Williams è il miglior disco dell'anno sia per il blog che per i suoi lettori. Una scelta non scontata, dal momento che la Williams è un'artista che si muove ben al di fuori dei territori musicali più frequentati del nostro paese. Ciò significa che, probabilmente, quando è lontana da mode e tendenze, la musica, come l'arte, sa regalare ancora emozioni vere: sincerità, passione e quella dose di sudore che rende l'esperienza del rock qualcosa di unico, da scoprire e condividere ogni giorno.
Blackswan, martedì 30/12/2014
6 commenti:
bene ben e molto bene damon.
ci può stare anche sun kil moon, sebbene un po' noiosetto, ma i primi 2 no!
@ Marco: Invece, dovresti ascoltarli, potrebbero piacerti.
Sul n1 concordiamo 😉
Damon immenso
il disco di lucinda williams l'ho ascoltato ed è da suicidio. :)
dei secondi per ora mi è bastato il brano postato, ma se proprio voglio farmi del male cercherò anche l'intero album... :D
@ Offhegoes:non avevo dubbio alcuno :)
@ Marco: è solo perchè non hai l'America dentro te :)
Grazie per avermi fatto scoprire Larkin Poe. Un disco esageratamente bello. Auguri!
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