Un vecchio eremita dei boschi, folle profeta fondamentalista. Un insegnante che si rifugia nel rigido autocontrollo della ragione. E un ragazzo al bivio tra l'una e l'altra strada, spinto irresistibilmente verso l'eccesso della fede. Nel sangue di questi tre uomini si annida il seme di un'unica ossessione, scorre la paura, si avverte il mistero di un'esistenza che pare impossibile comprende e e accettare. Nel suo romanzo più famoso, Flannery O'Connor ha descritto con sofferta partecipazione i meccanismi esistenziali profondi di ogni fanatismo. Un libro che ha quasi cinquant'anni, ma è tuttora attualissimo.
Ci sono talmente tante cose
da dire a proposito del secondo, e più celebre romanzo di Flannery O'Connor,
che trovare l'abbrivio per parlarne, e parlarne compiutamente, non è
impresa semplice. Conviene allora iniziare proprio dalle prime pagine del
libro, che si aprono con il vecchio prozio Tarwater, seduto al tavolo
della cucina, morto stecchito durante la colazione del mattino. La
rappresentazione della morte, senza alcun filtro: improvvisa, cruda, diretta.
Ancora non sappiano nulla del romanzo che andremo a leggere, ma già
capiamo quale sarà il clima del racconto, ne siamo disturbati, ci sentiamo
soffocare. Il cielo è dei violenti, e la violenza sta in primo luogo nella
scrittura. La O’Connor è un autrice dalla prosa limpida e fluida, che si nutre
di splendide immagini e di un vocabolario quanto mai ricco (soprattutto
nell'uso dell'aggettivo). Ma sa nel contempo gestire alla perfezione i tempi
della fiction, afferrare con forza il lettore, spingendolo,
strattonandolo, immergendolo (verbo che non ho usato a
casaccio) all'interno di una trama che, se da un lato lo perplime (si
fa davvero fatica a entrare nel contesto della storia e accostarsi ai
personaggi), finisce pero' al contempo per sedurlo abilmente con riflessioni e
interrogativi che impongo la massima concentrazione. C'è una forza bruta nella
narrazione, una drammaticità estrema, un continuo ammiccamento all'orrore e
alla follia, che ci legano a doppio filo con le duecento pagine scarse del
romanzo, senza mollarci più. Una scrittura che, come dicevo poc'anzi, disturba,
così come è disturbante la trama del romanzo, in cui l'azione è ridotta ai
minimi termini e si sviluppa essenzialmente attraverso
le dinamiche che animano i rapporti fra i tre protagonisti: il prozio
Tarwater, cristiano stolido e oltranzista, archetipo di ogni
fondamentalismo, folle figura di eremita pescata dalle più oscure pagine del Vecchio
Testamento; il maestro Rayber, suo nipote, ferocemente laico, discepolo
della scienza e della logica, alfiere del predominio della ragione sul
trascendente; e infine, il giovane Tarwater, il ragazzino plasmato dal delirio
predicatorio del prozio e che, in bilico fra tormento ed estasi, fra fede e
desiderio di affrancarsi dall'ortodossia del dogma, si trova all’improvviso a
fare i conti con una vita normalizzata. Tre solitudini al confronto, tre
solitudini che confliggono, ma che sono in qualche modo indissolubilmente
legate fra loro. La prima, accettata e voluta per volere divino, la seconda
subita e interiorizzata per incoscienza, la terza dovuta al caso e alle
vicissitudini della vita, e mai metabolizzata completamente. Tre
solitudini malevoli, che generano follia, astio, farneticazioni, violenza; tre
solitudini che cercano il dominio sulle altre, imponendo, in un folle gioco di
rincorse, la propria visione della vita e il proprio impianto etico. Fede
cieca o altrettanto cieca ragione, finiscono per rappresentare i due
rovesci della medesima medaglia, gli opposti che impongono al lettore,
alle prese con due mondi apparentemente opposti, ma terribilmente simili,
l'estenuante esercizio della riflessione. In mezzo a queste tre figure dalle
mastodontiche implicazioni psicologiche, c'è poi Bishop, il figlio mentalmente disabile
del maestro: innocenza e grazia, testimonianza del fallimento (o della
imperscrutabilità) del disegno divino, ambito trofeo delle ambizioni profetiche
dei due Tarwater, scudo umano della pertinacia di Rayber. Una figura che a
un lettore disattento può apparire come semplice comparsa, ma che in
realtà rappresenta la chiave di lettura del libro. Bishop è Gesu' sacrificato
sulla croce, è l'uomo che il Salvatore rappresenta, è la nostra caducità, la
capacità di guardare le cose con uno sguardo limpido e privo di condizionamenti,
è la vittima di ogni fanatismo, è la colpa che non riusciamo a cancellare dalla
nostra anima. Il giovane Tarwater (il nome significa: acqua di catrame) vuole
battezzarlo, spinto da una cieca follia di (auto)redenzione; il padre, che si
oppone al battesimo, si impone, per converso, di soffocare tutti gli
slanci affettuosi verso di lui, per non doversi così misurare con il
mistero (divino) dell'amore. Agnello sacrificale di un'allucinazione
collettiva, Bishop morirà annegato per mano del giovane Tarwater, che altro non
fa, se non portare a compimento ciò che Rayber aveva interrotto, qualche
tempo prima, per un'estemporanea resipiscenza. Vittima di un'orripilante
violenza, Bishop muore per garantire la pace a suo padre e a suo cugino: solo
la violenza possiede infatti la forza catartica per appianare i
conflitti e sciogliere il tormento delle passioni. L’atto estremo, il
passo definitivo, quello che non da scampo, traccia la strada per il Regno dei
Cieli. E’ la logica di ogni fanatismo.
Nessun commento:
Posta un commento