Il texano Jimmy Lafave,
qui al suo diciottesimo album, inverte la tendenza e alla veneranda età di
sessant’anni ci consegna il suo disco più bello. Strano a dirsi, ma non sempre
la maturità è sinonimo di stanchezza; anzi, a volte, il tempo riesce a liberare
una creatività inespressa. Lafave è sempre stato un ottimo interprete, un
artista di grande coerenza per gusto e stile e un artigiano del folk rock con il
santino di Dylan infilato nel taschino della giacca. Il suo songwriting, però,
non è mai riuscito a lasciare il segno, nonostante qualche prova di pregevole
fattura. Alla fine, quando probabilmente ormai più nessuno se lo aspettava, Lafave
ce l’ha fatta e questo ennesimo full lenght non solo si candida a restare nel
tempo, ma ci consegna un artista che sembra aver imboccato la strada di una
seconda, e qualitativamente superiore,
giovinezza. The Night Tribe è uno di quei dischi che quando inserisci nello
stereo della macchina ti vien voglia di guidare per ore: puntare l’orizzonte,
abbracciare gli spazi, andare all’infinito, non importa dove. Tredici canzoni
di americana classica, ballate di pura classe, morbide, avvolgenti, in cui
pianoforte e chitarre conducono l’ascoltatore somewhere in the middle of
America. Un disco suonato meravigliosamente, in cui non c’è una virgola, un
suono che sia fuori posto (ascoltate la cover di Journey Through The Past di
Neil Young e resterete a bocca aperta). Ma questo, lo si sapeva già, era nelle
corde del songwriter texano da tempo: levigare perfettamente le canzoni per
coprire una creatività senza grandi picchi. Qui, invece, a convincere sono
proprio le canzoni, che scorrono fluide, scintillanti, nobilitate da
cristalline melodie. L’uno due iniziale, ad esempio, è da ko: il passo
caracollante di The Beauty Of You e la dolcezza di Maybe evidenziano un
scrittura mai così convinta, in cui il perfetto interplay fra le chitarre e il
pianoforte (grande prova di Rodoslav Lorkovic) è il marchio di fabbrica di un
disco lungo (quasi un’ora) ma intensissimo. Ci sono ancora dei momenti non
molto brillanti (Talk To An Angel, ad esempio, è troppo zuccherina per essere
credibile), ma sono solo attimi di una scaletta che tiene incollati allo stereo
e in cui svetta Queen Jane Approximately, scintillante cover di Dylan (ma va?),
in cui l’allievo non sfigura davanti al maestro. Che sia un episodio
estemporaneo sarà il tempo a dircelo; di certo, Lafave sembra aver imboccato la
via giusta per farsi notare dal grande pubblico e farsi amare visceralmente.
VOTO: 8
Blackswan, domenica 14/06/2015
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