In ambito musicale, nulla
più si crea e tutto si ricicla. C’è chi lo fa male, e ci propina la solita
zuppa, e c’è invece chi lo fa bene, riutilizzando in modo innovativo ingredienti
risaputi. Quando ciò accade, possono nascere dischi bellissimi oppure, caso
ormai rarissimo, può nascere un nuovo suono, cioè quella peculiarità che
trasforma in marchio di fabbrica la musica di un artista o di un gruppo (a
esempio: la chitarra di Keith Richards) o trasforma un movimento in un genere (a
esempio: Seattle e il grunge). Da Atlanta, Georgia, tre ragazzi, il cantante Franklin
James Fisher, il bassista Ryan Mahan e il chitarrista Lee Tesche, giungono a
noi con una ventata di incredibile freschezza e un disco che, è proprio il caso
di dirlo, rappresenta un unicum nel panorama odierno. Gli elementi che
confluiscono in Algiers sono noti: gospel e blues, e poi industrial, post punk,
goth rock, noise rock. L’innovazione sta, però, nell’aver pensato di far
convivere la grande tradizione afroamericana con suoni lontanissimi per
collocazione geografica e dimensione temporale. Il risultato è spiazzante,
emozionante e, ne converrete, disturbante: come ascoltare le canzoni della
grande Mahalia Jackson suonate dagli Einsturzende Neubauten nella sala d’attesa
dell’inferno. Il gospel degli Algiers perde ogni connotazione religiosa e ne assume
semmai una politica (il gruppo è apertamente e dichiaratamente marxista); e soprattutto
sembra rappresentare un’umanità di replicanti in lugubre viaggio verso l’eterna
dimora. Ecco, allora, che l’iniziale Remains suona esattamente come il passo
dolente di un gruppo di schiavi destinati non ai campi di lavoro ma alle fiamme
dell’inferno, mentre Blood è un piano sequenza sulle fucine dell’Ade, catena di
montaggio della dannazione eterna. E anche quando rientrano in un alveo più
convenzionale (Games), gli Algiers creano una ballata spettrale di sangue,
catene e dolore che non lascia scampo. Non c’è una sola canzone in questo disco,
che non sia decisiva e al contempo inquietante, un solo minuto che scorra
inutile. Algiers ci prende con forza, stupra le nostre consuete capacità di
ascolto, imponendoci un’attenzione uditiva e immaginifica che pensavamo aver
perso per sempre. New Orleans e Berlino, chitarre lancinanti, campionamenti,
sintetizzatori, spirituals, elettronica, industrial noise: se non è innovazione
questa, ditemi voi cosa lo è. Gli Algiers sono destinati a grandi cose e questo
debutto si candida seriamente a miglior disco dell’anno.
VOTO: 10
Blackswan, sabato 04/07/2015
1 commento:
Caspita: spiritual espressionista dell'era globale colorato di tinte apocalittiche, non c'è gioia e speranza: solo disincanto e dolore.Le tinte forti sono ben sottolineate dagli effetti e dagli strumenti.Il 10 ci sta tutto.Grazie per avermi fatto conoscere questo gruppo!
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