Se è vero che tre indizi fanno una prova, il terzo
album in studio di Lana Del Rey, uscito tra l'altro a solo un anno di distanza
dal precedente Ultraviolence (2014), ci consente di superare ogni dubbio su
un'artista che per molti sembrava frutto di patinate congetture
architettate a tavolino e destinata quindi a spegnersi velocemente come un
qualunque fuoco di paglia. Honeymoon ci dimostra invece che Lana c'è, è
presente con la sua idea di musica, e non è solo un mero strumento di
marketing ma musicista a tutto tondo, coi suoi pregi e i suoi difetti. Che,
alla luce dei fatti, non sono molti, ma oggi emergono inequivocabilmente. Se lo
splendido esordio Born To Die (2012) ci aveva sorpreso per originalità, e il
complicato e cupo Untraviolence aveva segnato una tacca in più sul paletto
di crescita dell'artista, Honeymoon rappresenta un piccolo passo indietro,
un cedimento strutturale, forse inevitabile anche alla luce della velocità
con cui la cantante newyorkese è balzata agli onori delle cronache. Se da un
lato, infatti, il suono e le atmosfere sembrano ancor più curate che
nei capitoli precedenti e la forma canzone consolida, come marchio di
fabbrica, una visione indie pop dagli accenti crepuscolari, Honeymoon
mostra però il fianco a una certa stanchezza compositiva, come se la Del Rey
fosse rimasta intrappolata in un loop senza soluzione di continuità.
Quattordici canzoni per sessanta minuti sono un'esagerazione, soprattutto
perchè una volta ascoltata l'iniziale title track, tutto scorre identico,
dall'inizio alla fine, con un'idea che, anche se buona, ripetuta all'infinito,
finisce per condurre inevitabilmente alla noia. Piatta e monocorde, Lana si
trascina fino alla fine aggrappata al medesimo refrain, senza un'intuizione che
riesca a produrre le ottime sensazione che avevamo provato ad ascoltare i
precedenti due album. Dov'è finita la femme fatale sempre in bilico fra abisso
e paradiso, fra tormento e estasi, fra violenza e lenimento? In Honeymoon c'è
solo la replica della Del Rey di Ultraviolence e il disco sembra il
parto sparagnino di chi, suo malgrado, ha esaurito le idee. Tanto che
la cover rinsecchita di Don't Let Me Be Misunderstood di Nina Simone,
posta alla fine dell'album, è talmente brutta da farci rimpiangere tutto
quello che abbiamo ascoltato prima. Tra uno sbadiglio e l'altro.
VOTO: 6
Blackswan. mercoledì 22/10/2015
3 commenti:
Concordo: piatta e monocorde sono gli aggettivi più appropriati. Stavolta la noia ha preso il sopravvento, per me la sufficienza è fin troppo generosa.
@ Lucien: la sufficienza l'ho messa solo per non far arrabbiare troppo il Cannibale :)Comunque, è un sei stiracchiato, dato in virtù di qualche brano decente.
Hai fatto bene, mo s'incazza The Cannibal (che ce l'ha header) semo fottuti! :D
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