L'ambizione maggiore di questo blog, oltre a quella di
raccontare storie di musica, è soprattutto mettersi alla ricerca di artisti
poco conosciuti e condividerli coi propri lettori. La soddisfazione,
poi, è massima quando riusciamo a portare alla luce musicisti che
diversamente sarebbero fagocitati dall'immenso sottobosco di quel rock
emergente, destinato in realtà a non emergere mai. E' il caso di Jeff
Shepherd, giovane e irsuto artista proveniente da Chicago, che a febbraio ha
pubblicato il suo primo full lenght, affacciandosi con tante speranze sul
mondo crudele dello star system. Il disco e il suo autore li ho incrociati
per caso girovagando in rete, anche se, a parte il video di The Worst
Withdrawal, il singolo apripista, e qualche video amatoriale, di notizie
relative a Shepherd se ne trovano davvero pochissime. Così, mi sono messo
all'ascolto praticamente al buio, consapevole solo, dopo aver letto le
poche informazioni che compaiono sulla pagina Facebook dell'artista,
di trovarmi di fronte a una band di Americana Country Punk e Rock 'n' Roll
(sic!). Una definizione, questa, nella quale confluisce tutto e il
contrario di tutto, e che, di primo acchito, lascerebbe perplessi anche gli
ascoltatori più avventurosi. Tuttavia, se uno si fa accompagnare da una
band (e che band!) che indossa un nome così suggestivo ("i
poeti della prigione"), merita credito e tutta l'attenzione possibile. E
poichè, talvolta, le intuizioni pagano, le undici canzoni che animano i tre
quarti d'ora di durata dell'album risultano, almeno in alcuni casi,
davvero interessanti. La proposta di Sheperd, per quanto strana possa sembrare
la definizione riportata poco sopra, spazia effettivamente per tutti i
generi indicati, con un più marcato accento roots dovuto al fatto che i
Jailhouse Poets dispiegano il consueto armamentario di strumenti tradizionali,
che comprendono fiddle, banjo (occhio al banjoista, Marco Sassman, perchè fa
cose egregie) e lap steel guitar. Il disco si apre con Gone, che mi pare la
canzone maggiormente rappresentativa del songwriting di Sheperd: up tempo
country, con la lap steel in bella evidenza, mood malinconico, e una
performance vocale di una sincerità commovente. Le sonorità rurali (con il
banjo di Sassman a farla da padrone) tornano in Tragic Love e Sink Down,
nelle quali tuttavia si avvertono anche accenti cowpunk e fragranze
irlandesi (almeno per Tragic Love, il mio primo pensiero è corso ai Pogues).
Dello stesso tenore è anche l'arrembante Forever Young, uno dei brani più
riusciti dell'album, nella quale duellano, adrenalinici, banjo,
violino e chitarra elettrica. In scaletta, tuttavia, c'è spazio anche per
altro, e Shepherd trova modo di tirare fuori il rocker che è in lui:
Jukebox Junkie è un gagliardo rock blues, giocato sull'interplay fra banjo
e chitarra elettrica, mentre Ghosts spinge il piede sull'acceleratore del
rock, e ci regala un ritornello di facile presa. Il singolo, The Worst
Withdrawal, e Broken (Eric Church è dietro l'angolo), sono i due brani meno
riusciti del lotto, non brutte ma, a mio avviso, prescindibili, mentre
Son, ballata acustica che chiude il disco, manca di carattere e passa quasi
inosservata. E a proposito di ballate, molto meglio sono California, e
soprattutto Hold On, nostalgica riflessione sul tempo che passa, che gira dalle
parti del miglior Jason Isbell. Consigliatissimo a tutti quelli che amano un
suono marcatamente americano, Jeff Shepherd And The Jailhouse Poets potete
scaricarlo da ITunes o dal sito dell'artista, www.jeffsheperdmusic.com.
VOTO: 7
Blackswan, mercoledì 09/03/2016
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