Il decimo disco di Layla
Zoe conferma quanto di buono fatto finora da questa ragazza canadese, che, a dispetto
della copertina molto stilosa, che le trasmette un aura da fotomodella,
assomiglia in verità più a Janis Joplin (che proprio bella non era). Poco male,
visto che Layla forse non calcherà mai una passarella nella sua vita, ma su un
palco e con un microfono in mano appare molto più seducente di qualsiasi
copertina di Vogue. Breaking Free, disco votato al più classico rock blues
possibile, appare, fin dal primo ascolto, ribadire concetti ben noti a tutti
gli appassionati di genere; eppure, nonostante la continua sensazione di deja
vu, le undici canzoni in scaletta possiedono un’anima e sono attraversate da una
passione, che non sempre si ha la possibilità di percepire in questi anni di
musica di plastica. Zoe, dal canto suo, sfoggia una grandissima voce, di quelle
potenti, che gonfiano ogni centimetro dell’aria circostante le casse dello
stereo, così che un paragone con la grande Janis, a prescindere dalla
somiglianza estetica, non è poi troppo peregrino. Il suo stile, a dire il vero,
non è forse dei più originali; in compenso, si ha sempre la sensazione che Layla
creda fortemente in quello che canta, tanto che, con una certa frequenza, ci
ritroviamo ad osservare la superficie delle nostre braccia increparsi a causa
della piacevole sensazione da pelle d’oca. Ad accompagnarla nel disco (e sul palco),
tre musicisti di grande spessore: Gregor Sonnenberg al basso,
Hardy Fischötter alla batteria e il superlativo Jan Laacks alla chitarra
elettrica (un cameo di Sonny Landreth alla slide guitar in Wild One completa la
line up). Settantun minuti di rock blues, che mostrano i muscoli (la vibrante
Backstage Queen che apre il disco, ad esempio) o che si sciolgono in languori
malinconici come nella pianistica e struggente He Loves Me. Tante belle
canzoni, insomma, ma con due picchi che da soli valgono il prezzo del
biglietto: una Wild Horses (Rolling Stones) sospesa a mezz’aria, nonostante
carica di un dolente pathos blues, e Highway Of Tears, la miglior ballata
ascoltata quest’anno, undici minuti disperati (ma veramente disperati) su cui
aleggia il fantasma di Gary Moore. Un pezzo talmente bello che è quasi
impossibile passare al brano successivo senza sentirsi in colpa. Così, diventa
stucchevole ribadire, per correttezza recensoria, che certi dischi non cambiano
di una virgola la storia, perché, poi, quando li metti sul piatto, capisci che
lavori come Breaking Free diventano metro di giudizio per tutte le uscite dell’anno.
VOTO: 7,5
Blackswan, giovedì 16/06/2016
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