In cinque anni, dal 1989 al 1994, gli
Helmet, band newyorkese capitanata dal cantante e chitarrista Page Hamilton,
hanno sfondato le porte dell’alternative rock, entrando con prepotenza in un
panorama musicale votato al Seattle sound e alle sue (mediocri) propaggini. Un
suono violento e monolitico (da intendersi nell’accezione migliore di una
creatività artistica coerente e insensibile alle mode) ha pervaso tre dischi
che hanno fatto la gioia degli amanti della musica estrema. Il primo, Strap It
On (1990), uscito per l’indipendente Amphetamine Reptile Records, era un
esordio incapace di compromessi, addirittura assordante per la forza belluina
di canzoni quadrate e ringhianti, strutturate su riff stoppati e accordi di
chitarra dissonanti e su una ritmica feroce e fantasiosa al contempo; gli altri
due, Meantime (1992) e Betty (1994), usciti per la major Interscope, pur
suonando altrettanto compatti e rabbiosi, rispetto al predecessore, facevano
intravvedere attraverso la sigillatura siderurgica dei brani anche tenui
aperture melodiche. Cinque anni sugli scudi, dunque, e poi, un rapido declino,
che 1997 portò la band a un temporaneo scioglimento durato sette anni. Dopo
questo lungo iato, Page Hamilton, padre padrone del marchio di fabbrica Helmet,
rimise insieme la band grazie a nuovi innesti nella line up e tornò a sfornare
dischi che, con buona pace degli eccitanti esordi, appannarono, e non poco, il
mito di uno dei gruppi più leggendari degli anni ’90. Quella che un tempo era
una corrazzata capace di sfondare il muro del suono, divenne ben presto un
mercantile in disarmo alla deriva verso bonacce di un monocorde metal impastato
con fiacche melodie pop. Dal monocromatismo accecante del decennio precedente
si passò, dunque, a un suono incolore e allineato. Dead To The World è così
l’ennesimo disco di una band che non ha più nulla da dire e anche se lo sforzo
di modernizzare il suono è presente, la strada imboccata resta quella di un
hard rock di maniera, che mostra i muscoli ma non è più in grado di far paura.
In una scaletta fiacca e uniforme viene davvero difficile salvare qualcosa,
anche perché, a parte Green Shirt, cover scelta dal repertorio di Elvis
Costello, il resto suona tutto desolatamente uguale. Consideratemi pure un
inguaribile nostalgico, e probabilmente lo sono con i miti della mia
giovinezza, ma la sensazione è che Page Hamilton tenga in vita una creatura col
respiratore artificiale. Tanto che non si può nemmeno parlare di canto del
cigno: il cigno, triste ammetterlo, ha smesso di cantare vent’anni fa circa.
VOTO: 5
2 commenti:
Sono una delle band della mia adolescenza. Imbarazzanti le ultime prove. Non capisco perché non si sciolgano.
@ Andrea: me lo sono chiesto anche io. Sarebbe meglio.
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