Alla fine degli anni ’60,
San Francisco è il cuore pulsante della scena musicale statunitense: qui, tra
visioni psichedeliche e deliri in acido, prende forma la nouvelle vague del
rock a stelle e strisce, capitanata da gruppi come Grateful Dead e Jefferson
Airplane, che ben incarnano i fermenti culturali e artistici della città.
Frisco, però, è anche il luogo che dà i natali artistici ai Creedence
Clearwater Revival, band formatasi a El Cerrito, piccolo borgo ai confini
orientali della città, capitanata dal chitarrista e cantante John Fogerty. Il
quale, a dispetto delle sperimentazioni lisergiche tanto in voga nella bay
area, ha in mente un solo concetto: il Revival. Fogerty ama senza mezzi termini
gli anni ’50, il rock’n’roll primitivo di Chuck Berry, Little Richard e Eddie
Cochran, il blues e il folk nelle loro accezioni più pure, e guarda come
riferimento stilistico Dale Hawkins, trentenne musicista della Lousiana, che
rilegge il rock e il blues delle radici con accento sudista, creando un
sottogenere che prenderà il nome di Swamp Rock. In piena rivoluzione power
flower, Fogerty attua una sorta di controriforma tradizionalista, rimette al
centro del suo progetto il roots rock e la musica nera, scrive canzoni
essenziali, utilizza le cover (guarda caso una delle più celebri è proprio
Suzie Q di Dale Hawkins) per riaffermare il vincolo col passato. Un’operazione,
questa, che in mano ad altri poteva risultare una stucchevole operazione di
maquillage di sonorità già note, e che, invece, in mano a Fogerty e alla sua
band si trasforma, con pochi, ma straordinari dischi, in uno stile ben definito,
che sarà la salvezza del rock’n’roll. Così, se si può affermare che senza Elvis
Presley i Creedence Clearwater Revival non sarebbero mai esistiti, è
altrettanto vero che Fogerty ha il merito indiscusso di aver traghettato
Presley oltre il guado degli anni ’60, consegnandolo nelle mani di Bruce
Springsteen e Bob Seger, solo per citare due dei nomi che pagano debito verso i
CCR. Zeppe di riferimenti ai ’50 e intrise di una negritudine vibrante, le
canzoni di Fogerty mettono al riparo il rock dai mutamenti genetici del nuovo
mondo psichedelico, riportandolo a una forma essenziale, selvaggia, stradaiola,
eppure altrettanto policromatica. E’ Fogerty il padrone assoluto della
controrivoluzione: la sua penna, che omaggia con devozione i classici, ha il
potere di trasformare in note, melodie pensate per saccheggiare programmazioni
radiofoniche e scalare le classifiche; la sua voce, potente e cartavetrata,
rievoca il sudore delle piantagioni, possiede la veemenza di un grido
definitivo di libertà. Fogerty canta come vorrebbe cantare un nero se solo ne
fosse capace: aggredisce l’ascoltatore, gli graffia le orecchie, gli gonfia il
cuore di ingenuo entusiasmo, e poi lo spinge a liberarsi dai vincoli delle
convenzioni, a ritrovare la purezza nella catarsi del ballo. E’ il 1969, l’anno
cruciale per la band, che dopo un esordio convincente ma ancora acerbo,
inanella tre dischi leggendari: Bayou Country, Green River e Willy And The Poor
Boys. Un vero e proprio tsunami creativo: è’ come se Fogerty sapesse che
l’urgenza è tutto, e che il suo rock, così puro, ingenuo ed essenziale, rischia
di essere sommerso dall’imperante cambiamento circostante. I Creedence, allora,
in dodici mesi, sparano a raffica i loro colpi migliori, raggiungendo la
perfezione stilistica (che non è solo forma, ma è soprattutto energia allo
stato puro) con il celebratissimo Willy And The Poor Boys.
Uscito il 2 novembre
del 1969, Willy scala le classifiche e vende un milione di copie, certificando
in modo definitivo la grandezza della band, una delle poche al mondo capace di
pubblicare tre album di fila e tutti a cinque stelle. Manifesto dello Swamp
Rock, Willy And The Poor Boys proietta il passato nel futuro, è un disco
classico e al contempo avveniristico, suona naif ed esuberante, ma è
tinteggiato anche di sfumature dark, che risentono dei tempi funestati dal
doloroso conflitto del Vietnam. La copertina e l’iniziale country rock della
solare Down On The Corner esplicitano il contenuto di quello che potremmo
definire una sorta di concept album: riportare la musica in strada (“Down On The Corner, Out in the street”),
in mezzo alla gente, riscoprirne così la vera essenza, che è aggregazione,
condivisione, divertimento e stare insieme. Niente intellettualismi, dunque, la
musica è solo genuinità, purezza, è il linguaggio semplice delle radici (“Willy and the
Poorboys are playin'Bring a nickel; tap your feet. Rooster hits the washboard
and people just got to smile”). Non è un caso che in scaletta ci siano anche due sublimi cover (Cotton
Fields di Leadbelly e il traditional, anche questo passato dalle mani di Leadbelly,
Midnight Special, un divertito r’n’b dal mood festaiolo) e uno strumentale,
forse superfluo se decontestualizzato (Poorboy Shuffle), necessarie però tutte
a rimarcare il concetto di una musica che per essere vitale deve tornare alle
radici, alla terra del blues o alla strada dei buskers, patrimonio della gente
semplice che si innamora della melodia ma fatica a comprendere i voli pindarici
del movimento psichedelico. Se Don’t Look Now vibra d’amore per Elvis Presley,
reinventato in chiave country folk, la gemma hard rock di Fortunate Son indica
che il revivalismo di Fogerty sa sposarsi anche con la stretta attualità. Brano
fortemente antimilitarista, che sbertuccia il mal vezzo dei figli di ricchi, di
notabili e di militari di imboscarsi per evitare la leva obbligatoria. Un
scelta di barricata, audace e ironica, che si innesta nella querelle politica
dell’epoca, come una decisa presa di posizione a favore della working class (“It
ain't me, it ain't me, I ain't no senator's son, son.It ain't me, it ain't me; I ain't no fortunate one, no”). Chiude una scaletta di straordinaria intensità, Effigy,
ballata elettro acustica dall’incedere crepuscolare, che pur non rientrando fra
i brani più popolari della band, è senz’altro uno degli episodi più riusciti
della carriera di Fogerty. La chitarra del leader guida la band in sei minuti
in cui si coagulano melodramma, amarezza e innovazione. E’ uno scarto
riuscitissimo rispetto alla formula collaudata del revivalismo, un lungo
lamento, epico e tristissimo, che segnerà in futuro il songwriting di Neil
Young o quello di un antieroe misconosciuto, ma geniale, chiamato Jason Molina.
Da questo disco in avanti, la carriera dei Creedence inizia la sua parabola
discendente. Se il successivo Cosmo’s Factory (1970) mantiene alto il livello
di ispirazione di Fogerty (qui, le grandi hit si sprecano), ma comincia a
mostrare la corda di un suono che non conosce più sorprese, con Pendulum (1971)
e soprattutto con Mardi Gras (1972) la band, orfana di Tom Fogerty attirato
dalle sirene di una carriera solista che non decollò mai, arriva al capolinea e
si scioglie. La storia dei Creedence Clearwater Revival è durata solo quattro
anni, eppure nonostante il breve periodo di attività, i quattro ragazzi di El
Cerrito sono entrati nella leggenda. E’ bastato un anno, il 1969, e tre dischi
favolosi, l’ultimo dei quali, Willy And The Poor Boys, ha rappresentato
l’anello di congiunzione tra passato e futuro, e ha riscritto le regole del
rock’n’roll come oggi ancora lo conosciamo.
Blackswan, lunedì 16/01/2017
5 commenti:
Il mio primo disco dei CCR. A tutt'oggi resta il mio preferito.
http://abottleofsmoke.blogspot.it/2009/09/i-migliori-della-vita-9.html
Gran bella celebrazione, la tua :)
Monty: Grazie ! Anche per me è uno zenit, come quasi tutti gli altri dischi dei CCR.
Aggiungo, band di culto del Drugo Jeff Bridges ne "il grande Lebowski".
E chi ha visto cosa fa il Drugo, sa che la cosa non è da sottovalutare.
Blackswan, vedo che sei sempre al passo con le ultime tendenze musicali del momento.
Volevo segnalarti allora una nuova band che magari non conosci: i Beatles.
Sono quattro ragazzotti di Liverpool ancora acerbi, ma credo sentiremo parlare a lungo di loro... ;)
@ Ezzelino : Direi proprio di no :)
@ Marco: se tu avessi letto articoli così in passato, forse oggi ascolteresti meno schifezze :)
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