10. JUDY COLLINS & ARI HEST –
SILVER BLUE SKIES
Nasce così
Silver Skies Blue, che è in assoluto il primo disco della Collins
realizzato interamente in condominio con un altro artista e con molte
delle canzoni in scaletta scritte a quattro mani. Non tutto il materiale è
nuovo: le bellissime The Weigh e Aberdeen provengono dal repertorio di Hest,
Strangers Again, presente nell'edizione deluxe, è la title track del disco
precedente, mentre la malinconica Home Before Dark è la rilettura di un vecchio
brano della Collins preso da Fires In Eden, full lenght del 1990.
Poco importa, perchè questi brani si amalgamano perfettamente con le nuove
canzoni, formando una scaletta omogenea, in cui il fille rouge è l'interplay
fra le due voci, il soprano cristallino della Collins (a cui il tempo ha tolto
poco o niente) e il timbro da crooner di Hest. Disco di ballate, suonate
con eleganza da un ottimo gruppo di sessionisti (Russel Walden al pianoforte,
Zev Katz al basso, Doug Yowell alla batteria e Gerry Leonard alla chitarra
elettrica), Silver Skies Blues si muove attraverso quei territori folk pop nei
quali la Collins si destreggia alla perfezione, evocando nostalgici echi
californiani (I Choose Love), sfiorando mood ombrosi (la citata The Weight) e
schiudendosi in ariosi e solari soundscapes (Drifting Away). A vestire i
panni dell'avvocato del diavolo, si potrebbe forse obiettare che arrangiamenti
appena più asciutti avrebbero giovato maggiormente alla resa finale del disco.
Ma, in fin dei conti, si tratta di inezie. Quel che conta
davvero sono le canzoni, e in Silver Skies Blue sono tutte bellissime.
9.
BEN GLOVER – THE EMIGRANT
The Emigrant è, dunque,
una sorta di American Land (non a caso abbiamo parlato di Seeger e
Springsteen), un racconto di emigrazione che, però, perde i toni epici e
acquisisce, invece, il tratto delle riflessione intimista, per raccontare
l’uomo che si trova ad affrontare la perdita delle proprie radici, il
cambiamento, la sofferenza per adattarsi, la speranza di una nuova vita. Dieci
ballate in bilico fra folk irlandese e americana, in cui è la splendida voce di
Glover, calda, carezzevole e graffiante, a condurre l’ascoltatore verso momenti
di lirismo assoluto. Il classico The Auld Triangle (già nelle mani dei The
Dubliners e di Luke Kelly), And The Band Played Walzing Mathilda (resa celebre dalla versione dei Pogues),
l’alcolica Moonshiner (la cui origine, se irlandese o statunitense, è ancora
controversa) vivono di nuova luce poetica a fianco a nuovi brani straordinari,
come la commovente Heart In My Hand, scritta a quattro mani con Mary Gauthier
(vi troverete un retrogusto alla Waterboys), o A Song Of Home, in condominio
con Tony Kerr, che chiama in causa addirittura Dylan. Come per il disco degli
Orphan Brigade, The Emigrant esce sotto l’egida dell’italianissima Appaloosa
Records, che ha curato l’edizione italiana del disco, inserendo nel booklet la
traduzione (nello specifico, indispensabile) dei testi.
8.
OLAFUR ARNALDS – ISLAND SONGS
Oggi, Arnarlds torna a
casa sua, nei luoghi in cui è cresciuto e in cui si è formato come artista,
trasformandosi da batterista di un’oscura band heavy metal a musicista
raffinato e prolifico. Con Island Songs, infatti, il compositore islandese, per
sette settimane, ha raggiunto sette diverse location della sua terra natia,
dove insieme ad alcuni artisti locali ha eseguito sette “canzoni”, registrate
in presa diretta e documentate in tempo reale attraverso dei video girati dal
regista Baldvin Z. L’intero progetto lo trovate sul sito www.islandsongs.is, dove potrete
esplorare la mappa delle località visitate e guardare i filmati delle
esecuzioni. Island Songs è, dunque, un’opera multimediale, nata da un viaggio
che è contemporaneamente memoria e scoperta, in cui la forza evocativa della
terra dei ghiacci, visivamente potente per la sua vicinanza all’imperscrutabile
grandezza di Dio, trova qui una dimensione più intima e malinconica, raccontata
attraverso il minimalismo di piccole chiese, abitazioni modeste, interni caldi
e famigliari e visi segnati da un’esistenza ordinaria. Pianoforte, archi e
ottoni sono gli strumenti che Arnalds usa per evocare un road movie interiore
fra le terre d’Islanda, la voce eterea di Nanna Bryndis (cantante degli Of
Monsters And Men, che compare in Particles), l’apice emotivo per sbriciolare il
cuore dell’ascoltatore. Mettete, dunque, sul piatto Island Songs, chiudete gli
occhi e provate a immaginare il maestoso respiro della piccola Islanda: anche
se non l’avete mai visitata, vi ritroverete persi nell’evocativa bellezza di
paesaggi senza tempo. Un brivido di freddo a intirizzirvi la pelle, un tepore
malinconico a riscaldarvi il cuore.
7.
LUCINDA WILLIAMS – THE GHOSTS OF HIGHWAY 20
Highway 20 è in tal senso
un disco dolente, sofferto, che cammina in precario equilibrio sul ciglio del
baratro: da un lato, un vuoto di speranza, che mi ha ricordato, concedetemi il
volo pindarico, la poesia di Pavese (“Oh
cara speranza, quel giorno sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla”);
dall’altro, l’istintuale attaccamento alla vita, il bisogno primordiale d’amore,
che ci tiene in piedi, ci fa respirare, ci spinge ancora a puntare l’orizzonte (“Trust me, you can’t close the door on our
love, just because you made somebody cry”). Forzando un po’ la mano a
un’altra similitudine letteraria, si potrebbe affermare che, come L’idiota fu
per Dostoevskji il lavoro preparatorio per il successivo I Fratelli Karamazov,
così The Ghosts Of Highway 20 porta alle estreme conseguenze le riflessioni del
precedente Down Where The Spirit Meets The Bone: quel suono e quegli arrangiamenti
ci sono, così come ci sono Bill Frisell e Greg Leisz alle chitarre (uno degli
elementi decisivi per il mood dell’album); tuttavia, la Williams sceglie questa
volta la strada dell’ortodossia e della linearità, puntando su una narrazione
monocorde, meno rockeggiante e più intimista. Ne consegue che Highway 20 è un
disco impegnativo, scorbutico, che va riascoltato più volte per entrare in
sintonia con una fascinazione che richiede immedesimazione totale (difficile,
se no, anche per uno springsteeniano di ferro, comprendere, ad esempio, la
livida trasposizione di Factory). Non siamo, dunque, di fronte al grande
affresco di Americana dipinto in Down Where The Spirit Meets Bone, e i toni
epici del racconto vengono quasi completamente sfumati in un cupo soliloquio
interiore; qui, si chiede all’ascoltatore lo sforzo di compenetrare lo sguardo
in soggettiva dell’artista, di mettersi in moto sull’ Highway 20 e macinare
chilometri, macinare vita, macinare ricordi. Imparare, soprattutto, a convivere
coi propri fantasmi.
6.
DAVID BOWIE – BLACKSTAR
Eppure, Blackstar contiene
delle vette inarrivabili, delle canzoni che ammaliano, fino a stordirci. La new
wave 3.0 di Girl Loves Me, il drum’n’bass che sottende e quella voce tirata
allo spasimo, che evoca Gabriel. I Cant Give Everything Away, che suona
definitiva, come lo smaterializzarsi di un corpo e il dispiegarsi di ali verso
l’infinito del cielo. Oddio, si, quando l’ascolti, le lacrime sono vere, e ti
senti all’improvviso sereno, e senza peso, e perso nell’abbraccio di luce di
una melodia estatica. E poi, c’è Blackstar, la title track, una canzone
mausoleo, un reliquiario di ossidiana che custodisce le memorabilia di ciò che
Bowie sarebbe stato nei prossimi dieci anni: lo sfumare del tormento
nell’estasi (e viceversa), l’incastro delle melodie, le spinte più audaci
dell’elettronica, penombre mediorientali, languide vibrazioni soul, un rock
sfumato ed elusivo. Come a volerci dire, forte e chiaro, che non è un
testamento, non è un disco semplice e non è perfetto. Blackstar è solo quello
che doveva essere: l’ennesimo passo avanti di chi non ha mai pensato, nemmeno
per un istante, di fermare il proprio cammino. In terra e verso il cielo, dove
scoprirà, finalmente, se c’è vita su Marte.
5.
CHELLE ROSE – BLUE RIDGE BLOOD
E qui viene il bello: se pensate di trovarvi di fronte
a un disco di folk siete clamorosamente fuori strada. La Rose, infatti, appronta
una scaletta di rock blues elettro acustico, plasma la materia arricchendola di
sonorità roots, e la trasforma con la sua straordinaria voce, capace di
riprodurre il timbro strascicato e sofferto di Lucinda Williams oppure di
sputare fiotti di rabbia e amarezza come solo Patti Smith sa fare (e in
definitiva Chelle Rose è una sintesi perfetta fra le due). Le canzoni
raccontano la storia della songwriter, il rapporto con la propria famiglia e i
luoghi dell’infanzia, e indagano sull’essere umano, su anime in bianco e nero,
in cui i rari momenti di luce si perdono in un buio incombente e maligno. In
tal senso, Blue Ridge Blood è un disco i cui momenti morbidi sono distillati
con il contagocce: forse la sola Laid Me Down, illanguidita dal pianoforte,
porta un po’ di sole in scaletta (anche se c’è la voce arresa della Rose a
ricordarci che la notte è in agguato là fuori). Il mood prevalente, invece, è
crepuscolare, le ballate sono torbide e mai condiscendenti verso la melodia, i
brani sono comunque e sempre attraversati da frementi scariche elettriche e
distorsioni, che esplodono nel ringhio noise rock definitivo della superba
Gypsy Rubye. Se è vero che ogni genere ha una sua dark lady, oggi possiamo
tranquillamente dire che anche l’americana ne ha trovata una. Si chiama Chelle
Rose e ci ha regalato uno dei dischi più belli, sinceri ed emozionanti del
2016. Produce George Reiff e benedice Buddy Miller (tredici Grammy Awards
vinti), che prende in mano la chitarra per santificare la title track.
4.
MICHAEL KIWANUKA – LOVE & HATE
In
Love & Hate, infatti, le grandi canzoni si sprecano e anche quando i
brani si dilatano oltre il minutaggio standard, il tempo diviene realmente
relativo, mai affiora lo sconcerto della noia e l'unica cosa che si vuole è
ascoltare musica. Questa musica. Succede nei sette minuti di Father's Child,
straordinario mid tempo che vive di addizioni e si stratifica passo per passo,
trasformandosi da soliloquio a corale, e nell'altrettanto lunga title track, la
cui melodia contagiosa è costruita con cori in loop, ritmica secca, archi
che ci avviluppano di malinconia e un assolo di chitarra in acido, improvviso e
spiazzante. E dovremmo, forse, spendere parole anche per le altre canzoni
in scaletta, tutte attraversate da fremiti malinconici mai invasivi e da ganci
melodici che si vestono sempre con intelligenza, nonostante siano
straordinariamente catchy (il crescendo gospel di Black Man In A White World).
Kiwanuka, dunque, ha gestito il successo con intelligenza, non si è fatto
irretire dalle effimere sirene della notorietà e ha percorso la sua lunga
strada, la strada della musica che voleva. Ci ha messo tempo, ha lasciato che il
suo nome venisse risucchiato quasi ai limiti dell'oblio e, quindi, ci ha
regalato Love & Hate. Se per Home Again, possiamo parlare di un disco
interessante, ispirato, deliziosamente retrò e splendidamente suonato, per
questo seguito è inutile spendere troppi aggettivi. Ne basta uno solo: grande.
3. PARKER MILLSAP – THE VERY LAST DAY
La voce di Millsap è
straordinariamente potente e volitiva, si sposa perfettamente con le tonalità
più blues, e risulta graffiante, quando il ragazzo rockeggia, e languida,
invece, quando il passo lento della ballata viene a sfiorarci le corde
dell’anima. Difficile togliere questo cd dal lettore, una volta che si inizia
ad ascoltarlo: non c’è un filler che sia uno e tutto ci lascia a bocca aperta,
in attesa della sorpresa successiva. Si inizia con il guizzo rock acustico di
Hades Pleads, dall’incedere nervoso e con il violino di Foulks in evidenza, e
si continua con il movimento sinuoso della divertita e solare Pining, il primo
singolo tratto dall’album: due modi diversi di esprimersi, legati, però, fra
loro dal fille rouge di una voce ispiratissima e da una band che fa
dell’artigianato un prodotto d’eccellenza. Morning Blues è 100% american sound
e vede protagonista la voce di Parker, capace di svariate modulazioni. Heaven
Sent, sofferto racconto di un’omosessualità nascosta, è il vertice emotivo
dell’album: strofa che paga debito a The River di Springsteen e ritornello di
una bellezza che lascia storditi. You Gotta Move, blues da canicola
interpretato con devozione filologica, è un classico dal repertorio di
Mississippi Fred McDowell (su Sticky Fingers trovate la cover che ne hanno
fatto i Rolling Stones), Hands Up sfodera una sudatissima grinta rock, mentre
Jealous Sun è un breve, limpido acquarello folk. Chiude Tribulation Hymns,
emozionante finale dai toni quasi ieratici, che racchiude in sé un suono
antichissimo. Se, in questi ultimi anni, si può parlare di rinascita di un
solido movimento alternative country, lo si deve anche a dischi come The Very
Last Day e a questo giovanissimo autore, che insieme a Jason Isbell, Chris
Stapleton, Sturgill Simpson e John Fullbright, solo per citare alcuni dei nomi
più noti, sta dando nuovo lustro a un suono che sembra aver ripreso
un’inaspettata forza innovativa.
2.
THE ROLLING STONES – BLUE & LONESOME
Le pietre hanno smesso di
rotolare e si sono fermate, ergendo un monumento al genere: non un mausoleo di
sepoltura, ma una Mecca verso cui girare lo sguardo, per riscoprire
spiritualità, passione e radici. La band che tutti, anche il fans più
viscerale, davano bollita da tempo e tenuta in piedi solo dal rituale
magniloquente di concerti che, in limine vitae, apparivano tutti imperdibili,
torna con un canto del cigno che avrebbe fatto invidia a Checov: gli Stones nel
ruolo che fu di Svetlovidov, Willie Dixon, Howlin’ Wolf, Little Walter, Otis
Rush e Magic Sam a recitare la parte che fu di Nikita Ivanyč. Non c’è però
nostalgia né rimpianto: ci sono quattro “ragazzi” che non subiscono le angherie
del tempo che passa, ma lo dominano, facendo dell’esperienza virtù e di
un’antica passione energia vitale. Basta ascoltare una volta sola Blue &
Lonesome per rendersi conto di cosa sta andando in scena: l’interplay fra le
chitarre di Keith Richards e Ron Wood, i cui graffi lasciano cicatrici
indelebili, la voce potente di Jagger e la sua armonica bollente e insaziabile,
le rullate simbolo di un ineffabile Charlie Watts, il cameo di Sua Maestà Eric
Clapton, che in Everybody Knows About My Good Thing viene a rendere omaggio
agli dei e a certificare più di cinquant’anni di storia. E’ il passato che
diventa presente, e che delinea coordinate precise per il futuro. Godetevi,
allora, senza pregiudizi, queste dodici cover che arrivano direttamente da quel
periodo lontano in cui Jagger e Richards erano solo dei ragazzi affamati di
vita e ancora non sapevano che a quei dischi, ascoltati durante i pomeriggi
oziosi nel loro appartamento di Chelsea, avrebbero dovuto tutto. Oggi, possiamo
dire che queste canzoni sono diventate, a buon diritto, canzoni degli Stones.
Non è solo una questione di usucapione, per quanto legittima, ma è un vincolo
che ha a che vedere col sangue. Blue & Lonesome, dunque, è un disco
straordinariamente bello, perché inaspettato e definitivo. E’ il blues che
ritorna al blues, attraverso la leggenda. Attraverso il sangue. E’ la fine di
un’epoca e un nuovo inizio.
1.1 THE MARCUS KING BAND – THE MARCUS KING
BAND
La lezione del grande Duane Allman è stata mandata a
memoria e quello che in altre mani poteva essere un solido
disco di rock blues, nelle mani di King diviene un affresco cangiante, in cui
la chitarra, svincolata dal dogma southern “riff graffiante e assolo
interminabile”, preferisce esprimersi attraverso moduli jazzistici (qualcuno ha
detto In Memory Of Elisabeth Reed?). Il disco spiazza fin dalle prime battute:
jazz, soul e blues vestono di fiati la brillante Ain’t Nothing Wrong With That,
un brano che travolge per il suo contagioso entusiasmo e svela di che pasta è
fatta la chitarra di King, straordinario nel cesellare un assolo tanto icastico
quanto scintillante. Self Hautred, con l’ospitata di Dereck Trucks, imbocca la
strada della psichedelia e per cinque minuti e mezzo la sensazione è quella di
ascoltare i Beatles di Taxman suonati da una Allman Brothers Band in trip
lisergico. Rita Is Gone è un ballatone soul strappa mutande, con la voce miele
e liquerizia di Marcus che ci massaggia l’anima, omaggiando il grande Otis
Redding, mentre in Thespian Espionage si tenta un azzardo fusion, peraltro
perfettamente riuscito, in cui fluato e chitarra elettrica si passano il testimone
dell’assolo e la batteria di uno straordinario Stephen Campbell gioca con i
controtempi. Insomma, si tratta di grandi pezzi che si smarcano dall’ovvio e
cercano, con ottimi risultati, altre modalità di espressione. Eppure, anche in
quei brani in cui King resta più legato a formule convenzionali, riesce a
inserire qualcosa di prezioso per l’ascoltatore. Virginia, ad esempio, è un
robusto brano southern attraversato dalle chitarre di King e Haynes (qui anche
in veste di ospite), che dardeggiano assoli senza però essere mai invasive; e
quando parte Radio Soldier, canzone dalla solida struttura rock blues, si resta
a bocca aperta per l’incredibile riff arpeggiato che apre il brano e per
l’assolo centrale di chitarra, che suona, fin dal primo ascolto, come un istant
classic. Al secondo capitolo della sua discografia King ha fatto decisamente
centro, rilasciando uno dei dischi più versatili, divertenti e ben suonati
dell’anno. Pertanto, se amate gruppi come i Gov’t Mule e la Tedeschi Trucks
Band, per citare un paio di nomi, non lasciatevi sfuggire questo disco: il
ragazzino è un genietto e il futuro del genere è saldamente nelle sue mani.
Blackswan, domenica 01/01/2017
6 commenti:
E pensare che alcuni di questi dischi li avevo evitati per pregiudizio, evidentemente ci sono alcune band storiche che hanno ancora qualcosa da dire ;)
MICHAEL KIWANUKA per me è il disco dell'anno insieme ai Radiohead.
Come canzone invece da Island Songs quella con Nanna Bryndís Hilmarsdóttir (Particles) ogni volta che la sento mi vengono i brividi.
assolutamente misero come anno -
Mi piace molto perché, a dispetto di liste tutte uguali, include molti nomi da recuperare. Qualcuno c'è anche nella mia che, dopo una lunga gestazione, sto per pubblicare, molti altri li andrò a recuperare. A questo dovrebbero servire queste classifiche.
A parte Bowie e Kiwanuka, una lista da incubo a occhi aperti. °___°
rincaro la dose...questa è una bella canzone non quelle scelte da lei quest' anno :
Okkervil River - Okkervil River R.I.P.
Posta un commento