Il rock, si sa, non si
nutre solo di musica, ma anche di leggende, personaggi bizzarri, morti
eccellenti e storie. Alcune strane, altre improbabili, altre frutto della
fantasia di chi ama creare pagine di letteratura, che rendono ancora più
imprescindibile l’ascolto dei dischi che amiamo. E poi, ci sono storie che
sottendono a una logica talmente assurda, da essere del tutto incomprensibili
nella loro trama. Una di queste storie riguarda un disco, registrato 43 anni fa,
tenuto inopinatamente negli archivi della Warner Brothers a prendere polvere
per quasi mezzo secolo e pubblicato solo oggi. Si tratta dell’esordio come
solista di Terry Dolan, giovane folk singer, cresciuto musicalmente sulla East
Coast e trasferitosi poi a San Francisco, in cerca di un successo che troverà
solo parzialmente, militando nella rock band dei Terry And The Pirates. Quel
disco, che porta semplicemente il nome del suo autore e che oggi finalmente
possiamo ascoltare in versione rimasterizzata, è straordinariamente bello,
tanto che, a distanza di quasi mezzo secolo dal suo concepimento, risulta
impossibile che non abbia mai visto la luce. E invece, è proprio così: un
pizzico di sfortuna e un manager discografico non proprio lungimirante, non
solo hanno tarpato le ali alla carriera di Dolan, ma privato il secolo scorso
di quello che sarebbe stato, con tutta probabilità, uno dei dischi simbolo dell’epoca.
La storia è, più o meno, questa. Dolan nasce nel 1943 in Connecticut, e li
cresce sviluppando una grande passione per la musica, che lo porterà,
giovanissimo, a suonare nella scena folk di Boston e poi a Washington D.C. Nel
1965, segue la grande onda psichedelica e si trasferisce a San Francisco, dove
comincia a farsi una certa fama, suonando in vari locali della bay area e
aprendo i concerti di artisti più famosi, come Blue Cheer, B.B. King e Tay
Mahal. Terry, però, oltre a possedere un’ottima voce e a cavarsela egregiamente
alla chitarra, scrive anche canzoni, tutte di ottima fattura e molte apprezzate
dal pubblico dell’epoca. Così, il suo nome gira con insistenza, fino ad
arrivare alle orecchie di Nicky Hopkins, un pianista inglese già celebre per
aver collaborato con Rolling Stones, Who e, per restare in zona, i Jefferson
Airplane. Hopkins si offre di seguire Dolan in studio, di produrgli un disco e
di prestare il suo leggendario pianoforte per la registrazione delle canzoni.
Verso la fine del 1970, due brani sono già pronti, seppur in versione demo, e
una di queste, Inlaws and Outlaws, usufruisce di parecchi passaggi radiofonici
anche fuori le frequenze di San Francisco. Nel 1971, la Warner Brothers, anche
grazie ai buoni offici di Hopkins, mette sotto contratto Dolan, che entra in
sala di registrazione agli inizi dell’anno successivo, affiancato da un
parterre de roi d’eccezione: oltre a Hopkins, che produce e suona il piano, ci
sono John Cipollina (Quicksilver Messenger Service) e Neal Schon (Santana) alle
chitarre, Lonnie Turner (Steve Miller Band) al basso, Prairie Prince (The
Tubes) e Spencer Dryden (di lì a poco nei Jefferson Airplane) alla batteria e
le Pointers Sisters ai cori. Vengono così registrati quattro pezzi, che
andranno a comporre la side A dell’LP. Poi, il colpo di sfortuna. Nicky
Hopkins, vero padre padrone del progetto, viene chiamato dai Rolling Stones per
registrare Exile On Main Street. L’alternativa per il pianista è semplice: o andare
a contribuire all’ennesimo disco della più grande rock band del pianeta o
mantenere fede all’impegno preso con una possibile promessa dello star system.
Indovinate un po’? Hopkins saluta tutti e se ne va. Alla Warner Brothers storcono
il naso e, venuto a mancare il nome famoso che avrebbe trainato le vendite del
disco, pensano di rinunciare al progetto. Dolan, però, non si perde d’animo e
sfruttando le proprie conoscenze, imbarca come capitano del vascello, Pete
Sears, nome noto per aver suonato il basso nei dischi solisti di Rod Steward.
Sears, allora, si mette in consolle e offre a Dolan anche la sua indubbia
capacità di polistrumentista, accollandosi le parti di basso e di pianoforte.
Ai cori arriva Kathy Mc Donalds, Greg Douglass imbraccia la chitarra
affiancando Neal Schon e dietro i tamburi si siede David Weber. Nonostante i
sessionisti siano quasi tutti nuovi, Dolan in soli sei giorni incide le altre
quattro tracce del disco, quelle che confluiranno nella facciata B. A questo
punto, tutto è pronto per la stampa: l’uscita del disco viene annunciata per il
febbraio del 1973 e la copertina viene affidata alle mani e all’occhio di Harb
Greene (fotografo che si è fatto una discreta nomea a fianco dei Grateful Dead),
il cui scatto (Dolan affiancato dalla moglie Angie) sembra la fotocopia di
quello sulla cover di GP di Gram Parsons. Tuttavia, due mesi prima dell’uscita,
la Warner, senza nemmeno avvertire il diretto interessato, rinuncia alla
pubblicazione del disco che, fatto e finito, si accomoda negli archivi della
casa discografica per restarci la bellezza di 43 anni. Cosa abbia spinto i
manager della label a questo improvviso dietro front, non è dato sapere. La
mancanza di Hopkins ha senz’altro contribuito e forse, fin dal suo
concepimento, il progetto non è mai stato considerato commercialmente
appetibile. Tuttavia, tale cecità artistica risulta davvero incomprensibile,
visto che, anche a distanza di quasi mezzo secolo, il disco suona ancora per
quello che realmente è: un’autentica gemma. Le otto canzoni in scaletta sono
quasi tutte di livello eccelso e propongono un mix di rock, folk e pop,
screziato da accenti soul e gospel, e attraversato da un retrogusto agrodolce,
lo stesso che renderà leggendario Pacific Ocean Blue, opera prima di Dennis
Wilson, datata 1977, con la quale questo Terry Dolan possiede molti punti in
comune.
La prima facciata del disco, senz’altro più coesa e innervata da
quell’entusiasmo senza compromessi che solitamente anima i neofiti, è di un
livello eccelso. Hopkins dirige Dolan e la super band alle sue spalle con
grande sapienza, marchiando con il suono di un pianoforte leggendario quattro
canzoni da urlo. See What Your Love Can Do suggella l’incontro fra il suono
californiano (targato Los Angeles più che San Francisco) con il codice genetico
del gospel (handclapping, call and response, etc.). Angie, dedicata da Dolan
alla moglie, è un’ariosa ballad pianistica, che fa perno ancora una volta su
una struttura chiaramente gospel e si perde dolcissima fra i languori
malinconici di un arpeggio di chitarra acustica. Rainbow, invece, è un rock
soul vibrante, in cui la partitura di piano di Hopkins fa girare la testa tanto
è voluttuosa mentre la chitarra di Cipollina spinge sull’acido, così da
marchiare anche geograficamente la canzone. Chiude Inlaws And Outlaws, un pezzo
già noto al pubblico prima della sua resa definitiva, con il piano di Hopkins
che detta i tempi di una tensione palpabile, tagliata a rasoiate dalla chitarra
icastica di Cipollina. Una canzone immensa, vera e propria cartina di tornasole
dell’estro compositivo di Dolan. La seconda facciata, pur rimanendo su livelli
assai alti, paga indubbiamente la mancanza Hopkins: gli arrangiamenti sono più
essenziali e il suono mette in risalto il basso di Sears, come appare subito
chiaro nell’iniziale Purple And Blonde…? In questo brano, l’anima gospel che
rendeva scintillante la prima facciata, lascia il passo a un folk rock che, pur
nel suo perfetto equilibrio estetico, suona più convenzionale, rievocando,
soprattutto nel cantato, alcune cose di Tim Buckley. Burgundy Blues è, invece,
un pulsante r’n’b che porta nuovamente la musica nera al centro della scena: un
brano divertente, pimpante, con le chitarre in primo piano, che suona
abbastanza ovvio per lunga parte, ma che si riprende con una bella
accelerazione finale, quando la chitarra di Schon si libra in estasi acida. A
seguire, la cover di Magnolia di JJ Cale, vertice della seconda facciata e una
delle interpretazioni più belle mai ascoltate del celebre brano: il cantato di
Dolan è ricco di pathos, il pianoforte di Sears ricama con misura la melodia,
mentre il corno francese suonato da Mic Gillette soffia leggerissime note di
dolce malinconia. Chiude To Be For You, breve ballad che non aggiunge e non
toglie nulla all’economia del disco. Allo scopo di disegnare l’atmosfera che ha
visto la difficile gestazione dell’opera, l’album viene oggi stampato con un dettagliato
booklet esplicativo (ricco di foto) e un pugno di alternative takes dei brani
in scaletta (mancano però nell’edizione in vinile), che rappresentano un
prezioso surplus, quasi a voler compensare il prezzo non proprio abbordabile
dell’operazione. Come già accennato, Dolan, dopo lo scotto subito dalla Warner,
non si dà per vinto, e fonda insieme a Cipollina e a Douglass i Terry & The
Pirates, riuscendo a ritagliarsi una piccola fetta di quel successo, che aveva
rincorso, pieno di speranze, con il suo dimenticato album d’esordio. Morirà il 15
gennaio 2012, all’età di sessantotto anni, per un attacco di cuore. Non certo
dimenticato, ma considerato sempre una figura minore, lontana per tutta la vita
da quella fama e quella visibilità che il suo originale songwriting avrebbe
meritato. Colpa di un pizzico di sfortuna e della cecità di qualche
discografico. Strana storia, quella di Terry Dolan.
Blackswan, giovedì 05/01/2016
1 commento:
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