Qualche giorno fa Emiliano Morreale su Repubblica,
faceva il punto sulla voglia di nostalgia che attraversa molte delle arti più
popolari: cinema, televisione e musica. Un elenco che comprendeva La La Land, musical ambientato negli
anni 50, che potrebbe far man bassa di statuette alla prossima edizione degli
Oscar, l’adattamento vintage se non addirittura rètro in serie tv popolarissime
come Mad Men, Masters Of Sex, Vinyl e The Americans, il prossimo tour degli U2
incentrato su The Joshua Tree a 30
anni dalla sua uscita. Niente di nuovo sotto il sole quindi, il momento storico
è quello che è, di rivoluzioni neanche mezza, ci si consola con i beni rifugio
del passato. Una disanima che ci dà lo spunto per introdurre il bel disco dei
Molochs e aggiungere qualche considerazione, più in generale, su come oggi
vengono recepiti tutti quei generi musicali, ancora vitalissimi, in cui non ci
si vergogna di volgere lo sguardo verso gli anni 60 e 70. Dialettica tra
diverse generazioni, del tutto normale e diffusamente acettata nelle altre
arti, che invece genera scompiglio e disappunto nei mezzi d’informazione
specializzati. Oramai è prassi leggere recensioni in cui la premessa è più
significativa dello svolgimento. Tutto uno scusarsi perché ci si interessa una
volta di troppo a musicisti che preferiscono rifarsi agli Stooges anziché ai
padri dell’elettronica.
Sul banco degli imputati le chitarre che, a loro dire,
avrebbero perso la centralità nell’evolversi della nostra musica preferita. Quindi
la chiosa: il disco è bello, anzi, bellissimo però vecchio, anzi, vecchissimo! Come
nei bugiardini dei farmaci: ti toglie la febbre ma, attenzione, potrebbe
sopraggiungere l’osteoporosi. Ecco, ascoltando America’s Velvet Glory, secondo album della band californiana
capitanata da Lucas Fitzsimons, si corre questo rischio, il disco è uscito
l’altro ieri ma potrebbe provenire dagli anfratti più reconditi degli anni 60:
chitarre jingle-jangle, ricerca del perfetto refrain, ingredienti tradizionali
come il Garage, il R’n’B e la Psichedelia. Memorie byrdsiane (The One I Love), la Swinging London degli
Stones di 19th Nervous Breakdown presa
a modello per la contagiosa No More
Cryin’, oppure You and Me e New York ricche di atmosfere velvettiane.
In altre parti del disco ci sembrerà di incrociare lo sguardo di Jonathan
Richman (I Don't Love You) e Gordon
Gano (No Control). Un gioco di
rimandi, pressoché infinito e dichiaratamente simbolico, che i Molochs padroneggiano
sapientemente insieme ad una capacità di scrittura fuori dal comune. Insomma, per
alcuni potrebbe essere un nonsense temporale, oppure, in un mondo meno
appiattito alle mode del momento, una band che non cambierà la storia del Rock
ma che ha tutti i numeri per rinfocolare passioni ed entusiasmi mai sopiti e,
perché no, crearne di nuovi (cosa tra l’altro già successa negli 80 e nei 90
senza provocare per questo nessun allarme). I Molochs si aggiungono dunque alle
altre realtà che vanno affermandosi in questi ultimi anni: Parquet Courts,
Mystery Lights, Night Beats, A Giant Dog, Allah-Las, Cool Ghouls e via
elencando solo tra le più recenti. Il movimento esiste, le chitarre sono sempre
lì al centro del proscenio e ci si diverte parecchio ad ascoltarle. Per le
controindicazioni rivolgersi altrove.
VOTO: 7,5
Porter Stout, venerdì 03/02/2017
Nessun commento:
Posta un commento