Quando, dopo
cinque anni di studi, Giovanna esce dal collegio religioso del Sacro Cuore, è
una diciassettenne piena di vita. La prima notte di “libertà” la passa
affacciata alla finestra della propria camera guardando il cielo, respirando le
fragranze della natura, udendo il lontano borbottio dell’amato mare. E’ felice
e irrequieta, non vuole perdere tempo, vuole inseguire i propri sogni, la pienezza
della vita e quell’amore di cui, fino ad allora, ha solo vagheggiato. I
giovani, si sa, vivono di speranze e sospiri, si accendono di passione per un
nonnulla, vengono travolti da entusiasmi incoscienti e non conoscono la morte,
vivono da immortali, distanti dalla caducità del mondo. Sono puri, ma di una
purezza onnivora e perciò fragile: terreno di caccia del dolore e della
delusione, bersaglio preferito di chi non sa (o non può) rinunciare al proprio
egoismo. Giovanna asseconda l’istinto, s’abbandona ai propri vaneggiamenti
amorosi e, seguendo quell’ardore giovanile che non conosce ostacoli, sposa il
Visconte di Lamare. Non serve molto alla giovane aristocratica per capire quale
grave errore abbia commesso. Quel giovane aitante, di bell’aspetto, ben agghindato
e dall’eloquio brillante è in realtà un uomo gretto, meschino, sordido, schiavo
dei suoi appetiti sessuali e della bottiglia, spilorcio negli affetti così come
col denaro. La vita di Giovanna, allora, muta radicalmente dopo il matrimonio:
il sogno viene divorato dalla consapevolezza, i chiaroscuri della realtà si
sostituiscono ai colori cangianti della natura che la circonda, la speranza di
un futuro felice viene sostituita, giorno dopo giorno, da “un’esistenza
tetra, senza più attesa”. La vita che Guy De Maupassant racconta nel suo
romanzo d’esordio è, dunque, la vita di Giovanna, una ragazza che cresce nella
Francia di inizio ‘800, unica figlia di una famiglia nobile ma progressista,
che preferisce la quiete del mare alla rutilante routine della città. La grande
abilità del narratore francese, che pur agli inizi di carriera, sembra già un
consumato romanziere, è in primo luogo quella di riuscire a descrivere una
sensibilità femminile a tutto tondo, accompagnando la sua protagonista dal
giorno dell’innamoramento fino alla vecchiaia e raccontandone minuziosamente i
turbamenti emotivi, dalla febbrile esaltazione dell’adolescenza fino alla
rassegnata disperazione della senilità. Un scrittura densa, minuziosa, ricca
nel vocabolario e nei risvolti psicologici, fanno di Una Vita, che a un primo
piano di lettura può essere percepito come un feuilleton (comparve per la prima
volta a puntate sul quotidiano Gil Blas) uno straordinario romanzo sociale che
ha come fulcro la condizione della donna nella società francese ottocentesca.
Lo sguardo critico di Maupassant, però, è amplissimo, perché intorno a
Giovanna, vittima sacrificale all’altare delle convenzioni sociali, si muove
un’umanità dal bagaglio etico inconsistente. I genitori, buoni ma inetti,
espressione di un’aristocrazia ancora troppo legata alla prerogative del lusso
per essere realmente progressista; zia Lisetta, più soprammobile che
personaggio, muta spettatrice di una tragedia di cui vive solo opachi riflessi;
la serva Rosalia, prima, carnefice (in)volontario della felicità di Giovanna,
poi, burattinaia calcolatrice e deus ex machina delle sorti della propria
padrona; il figlio Paolo, vera e propria sanguisuga emotiva, che prosciuga la
madre di denaro e di affetti. Su questa umanità raccogliticcia, ma mirabilmente
raccontata da Maupassant, spicca per crudeltà, la figura del Visconte di
Lamare, un uomo che dietro le mentite spoglie dell’eleganza e della prestanza
fisica cela un animo abbietto e privo di qualsiasi afflato di compassione. Un
personaggio decisivo nella prosa del grande romanziere francese, dal momento
che rappresenta, in tutta evidenza, la bozza preparatoria per Georges Duroy, il
malvagio assoluto che Maupassant tratteggerà straordinariamente nel suo
capolavoro Bel Ami, uscito due anni dopo, nel 1885. Considerato da Lev Tolstoj
la maggior espressione narrativa francese dopo I Miserabili di Victor Hugo, Una
Vita rapisce fin dalla prima pagina, spingendo il lettore ad avventurarsi nei
meandri della psiche umana, a masticare il pane duro della delusione più
cocente, a immergersi in una cruda realtà in cui nemmeno la Chiesa (e quindi la
fede) sono in grado di garantire un minimo di consolazione. Sarà solo il caso,
improvviso e insperato, a illuminare la fine del romanzo con un tenue barlume
di speranza. Perché, in fin dei conti, “…la vita, vedete, non è mai tutta
buona o tutta cattiva come si dice...”.
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