In questi ultimi anni non si contano le reunion di gruppi
che nei loro trascorsi giovanili hanno contribuito alla crescita e
all’evoluzione del Rock. Sonics,
Monkees, Pop Group, P.I.L., Pixies, Violent Femmes. L’elenco
potrebbe essere più lungo, ma già da questi nomi, tra i più illustri della
nostra musica preferita, si intuisce la tendenza al come back clamoroso se non
quando del tutto inaspettato. Ecco quindi non stupire più di tanto il ritorno
sulle scene di altre due band storiche: i Boss Hog (17 anni dopo Witheout) e i Jesus and Mary Chain (19
dopo Munki). Colpisce invece la concomitanza
visto e considerato che Jon Spencer e Cristina Martinez si sono conosciuti
proprio durante un concerto della band scozzese. Era il 1985, tour americano per
la promozione di Psychocandy, il
disco più chiacchierato di quella stagione, uno scenario perfetto perché la chimica
tra Jon e Cristina funzionasse all’istante. Lui, ex studente di arti visive
della Brown University, trasandato e perennemente imbronciato, lei,
frequentatrice dell’underground musicale newyorkese, conturbante e
trasgressiva. Da quella serata in poi faranno coppia fissa anche se i Boss Hog esordiranno
solo nel 1989 sul palco del leggendario CBGB’s. Siamo nella fase di passaggio
tra la fine dei Pussy Galore e i primi vagiti della Jon Spencer Blues Explosion,
anche il Rock americano è in un periodo ricco di cambiamenti: si conclude
l’esaltante stagione del Paisley Underground e, da lì a poco, esploderanno i
movimenti del Grunge e del Crossover; l’Hardcore/Punk s’incattivisce
ulteriormente nel tentativo di tenere botta allo scioglimento degli Husker Du.
Jon e Cristina, sua musa anche nei Pussy Galore,
proseguiranno comunque a guardare in altre direzioni, a quell’eccitante mix di Garage,
Punk e Blues che, da Beefheart in avanti (Birthday Party, Gun Club, Cramps),
preserva l’essenzialità del R’n’R primordiale. Con questi presupposti vede la
luce il primo EP dei Boss Hog, Drinkin’,
Lechin’ & Lyin’, passato all’iconografia del Rock per la copertina in
cui la Martinez si mostra completamente nuda in una posa alla Bettie Page.
Dentro una manciata di canzoni di selvaggio ed urticante Garage/Punk ed altre di
autentico terrorismo sonico. Già dall’anno successivo l’indirizzo sonoro della
band verrà però determinato solo dalla Martinez che, emancipandosi
dall’etichetta di semplice signora Spencer, riesce a firmare il suo capolavoro: Cold Hand. Le canzoni assumono i
caratteri di una fruibilità più diffusa (Eddy,
Peter Shore, Duchess) mentre Jon s’accomoda in un ruolo più defilato anche
perché, parallelamente, incomincia ad imbastire le trame dei primi lavori della
JSBE. La copertina vede sempre e solo Cristina, bellissima e ancora senza veli,
stavolta s’atteggia a reginetta del Funk. La band comincia a farsi notare sulle
riviste specializzate di tutto il mondo ottenendo esiti al botteghino più che lusinghieri
anche grazie alla promozione della Amphetamine Reptile e alla fama del produttore
Steve Albini, l’ingegnere del suono più di tendenza all’epoca.
Dovranno passare
altri cinque anni per ascoltare un nuovo album dei Boss Hog che uscirà per la Geffen
sull’onda del clamoroso successo ottenuto dalla JSBE. Il disco (omonimo)
contiene pezzi splendidi (Winn Coma, What The Fuck, Walk In) che tuttavia non saranno sufficienti per gli standard commerciali
di una major facendo così tornare la band sotto naftalina per un altro lustro
quando uscirà, per l’indipendente City Slang, il contraddittorio Witheout. Qui Cristina indossa solo la
biancheria intima ma, visti i precedenti, l’effetto è quello di un burka. Anche
le canzoni sono meno sexy del solito, il Pop annacquato di Stereolight e Get It While
You Wait restituisce inequivocabilmente il senso del processo di normalizzazione
della band. Infilano comunque in scaletta alcune perle (Nursery Rhyme, Defender, Trouble) che salvano il disco dal
disastro epocale.
Eccoci ora a togliere il cellophane alla schiena nuda
(di Cristina?) che i Boss Hog offrono sulla copertina di Brood X al nostro sguardo, tante le aspettative in seguito alla
grande sensazione suscitata dall’ultimo disco della JSBE di due anni fa. Dopo i
primi ascolti si fatica a trovare qualcosa che giustifichi l’acquisto dell’album
poi, con una lentezza che non depone a favore della spietata immediatezza degli
esordi, alcuni brani s’insinuano sottopelle (il Punk/Blues malsano di Black Eyes, la doorsiana Elevator, il divertente dialogo tra moglie e marito di Rodeo Chica). Il resto del programma stenta ulteriormente a crescere
e a rinnovare la vecchia empatia lasciando così un po’ d’amaro in bocca. Oltre
ai brani citati poc’anzi da salvare la voce, fascinosa come sempre, della
Martinez e il lavoro impeccabile della band capitanata da Spencer: i soliti
Jens Jurgensen al basso e la fantastica Hollis Queens alla batteria. Alle
tastiere la new entry Mickey Finn. Che dire, il disco non è brutto ma neanche di
quelli memorabili, in ogni caso: bentornati Boss Hog, bentornata Cristina.
VOTO: 6,5
Porter Stout, venerdì 17/03/2017
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