La breve, ma
intensa parabola dei Bellowhead durò sei anni a partire dalla seconda metà del
decennio scorso, e nonostante solo quattro album all’attivo, irrorò il
movimento folk britannico di nuova linfa vitale. Corposa ensemble di undici
elementi, caravanserraglio di suoni, umori e colori, i Bellowhead travolgevano
il pubblico pagante con funambolici live, proponendo un folk lussureggiante di intuizioni,
ortodosso ma comunque aperto a contaminazioni, che si riappropriava di una
tradizione centenaria, modernizzandola ma evitando certi ammiccamenti pop da
classifica, come fecero i più o meno coevi e connazionali, Mumford & Sons.
A capitanare la big band, scioltasi ufficialmente il primo maggio del 2016 con
un concerto commemorativo alla Oxford Town Hall, era il cantante, violinista,
nonché polistrumentista, Jon Boden, figura carismatica del movimento, già sulla
scena fin dal lontano 1999. Boden, che evidentemente aveva in testa più idee di
quelle che riusciva a realizzare all’interno della casa madre, fece partire la
propria carriera solista proprio in concomitanza dell’uscita del primo album
dei Bellowhead (Burlesque del 2006), pubblicando un disco d’esordio dal titolo
di Painted Lady. L’album, proprio a cagione della sovrapposizione mediatica
delle due uscite discografiche e dello scarso battage pubblicitario che seguì
la pubblicazione, ebbe un esiguo riscontro di vendite, rimanendo oggetto di culto
per una sparuta nicchia di intenditori. Nel 2016, per celebrare i dieci anni di
vita del disco, la Navigator Records lo ha ripubblicato, aggiungendo alla
scaletta originale tre interessanti inediti. Una sorta di ciliegina sulla torta
di un opera che avrebbe meritato diversa fortuna e un maggior riscontro
commerciale. Painted Lady è un disco che spinge sulle altre passioni di Boden:
non solo roots, dunque, ma anche sonorità più contigue al rock e al blues,
spruzzate di quando in quando di combustile elettronico (drum machine, Moog,
etc.). A differenza del lavoro fatto coi Bellowhead, in Painted Lady Boden
cerca la solitudine assoluta, suona tutti gli strumenti e inserisce in
scaletta, oltre ai soliti traditional, anche brani autografi che denotano
un’inaspettata versatilità compositiva. Un disco vario ed eclettico, dunque,
che mostra il violinista a suo agio sia quando innerva di elettricità
disturbante il folk dell’iniziale Get A Little Something, sia quando si diletta
con una ballata pop virile che rimanda a Elvis Costello (Josephine) sia quando
insuffla di vapori acidi il blues sghembo di Pocketful Of Mud. Tra le bonus
track, va menzionata la cover personale e ben riuscita di I Want To Dance With
Somebody di Whitney Houston, a testimonianza di quanto cangiante sia lo spettro
di colori a disposizione di Boden. Un disco, all’epoca, inaspettato (ma ne
seguiranno altri), che permetterà a molti di (ri)scoprire un artista capace di
fare ottime cose anche al di fuori del rutilante carrozzone Bellowhead. Cult.
VOTO: 7
Blackswan, martedì 11/04/2017
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