I Black Lips non hanno bisogno di grandi presentazioni:
la Garage band più popolare d’America degli anni duemila che meglio di tutte ha
saputo traghettare il suono più violento e cattivo dei sixties ai giorni
nostri. Dagli esordi selvaggi e provocatori - leggendari i live show, inseguiti
dalla polizia di Chennay dopo che Cole Alexander s’era denudato sul palco,
pronto soccorso allertato negli ospedali delle città in cui si esibiscono -
privi di qualsivoglia appeal commerciale, ai dischi più recenti in cui sono
subentrati canoni artistici e compositivi decisamente più amichevoli, volendo
esagerare quasi Pop, che tuttavia non hanno intaccato la fama dei ragazzacci georgiani
sempre caparbiamente impegnati sul terreno del terrorismo sonico. Satan’s Graffiti Or God’s Art potrebbe
dare il là ad una terza fase del vissuto blacklipsiano, un ulteriore step verso
forme musicali più diffusamente condivisibili, 18 episodi, 58 minuti di durata
complessiva (doppio 33 giri nella versione in vinile), nei quali i Black Lips
danno la stura alle tante influenze che hanno contrassegnato la loro ventennale
avventura nel panorama del nuovo Rock d’oltreoceano. Una scaletta lunga e per
certi versi inestricabile, con cambi di rotta repentini, atta ad offrire un tributo
tout-court all’American Music degli ultimi 50 anni senza per questo agevolare
minimamente l’ascoltatore con una logica di fondo. Dei saltatempo disordinati che
omaggiano in egual misura il Doo-wop (Wayne),
la Surf Music (Crystal Night, Losers Lament: spiaggia, falò, chitarrine
hawaiane e bottiglie di Tequila) e l’Acid/Rock (la splendida The Last Cul De Sac che non sfigurerebbe
in un Best Of dei Dream Syndicate).
Dal Rockabilly a rotta di collo di Rebel Intuition passano, con la disinvoltura
dei grandi, alla doorsiana We Know, quasi
una versione psichedelica e rallentata di Modern
Art (indimenticabile hit di Arabia
Mountain del 2011). Immancabili, come da tradizione, i pezzi che rimandano
al Garage/Psych texano: Can't Hold On,
resa ancor più evocativa dai fiati e la contagiosissima Lucid Nightmare. Qualche capatina dalle parti dei Gun Club e Tom
Waits (Got Me All Alone, Come Ride With Me) quindi, i pezzi più
significativi dell’album: Squatting In
Heaven, ancora i fiati a sottolineare il più classico e rumoroso dei
riffoni Rock/Blues e la suggestiva In My
Mind There's A Dream, incredibile pezzo di bravura in cui il climax da
colonna sonora tarantiniana viene stravolto da spettacolari accelerazioni
Punk/Rock. In chiusura altro tributo, stavolta ad personam, la stralunata cover
di It Won't Be Long dei Beatles con
la quale salutano e ringraziano il produttore del disco: Sean Lennon. Satan’s Graffiti Or God’s Art non è un
disco a presa immediata, servono ripetuti ascolti per assaporarne tutte le
sfaccettature, va fatto decantare, ci vuole tempo e pazienza ma poi restituisce
generosamente, le canzoni emergono magicamente e quando succede sembrerà di
averle canticchiate da sempre.
VOTO: 8
Porter Stout, venerdì 19/05/2017
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